Premio Racconti nella Rete 2017 “Due parole” di Nicola Mele
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Percorrevo il viottolo acciottolato del villaggio, un po’ perso nei pensieri, un po’ respirando quell’aria mite dei primi di giugno che, con la complicità dello splendido sole che illuminava il cielo terso, mi aveva indotto a lasciare le faccende cittadine per recarmi a Villaggio Paradiso, dove abitualmente trascorrevo le ferie estive nella piccola villetta a schiera sul mare, da sempre proprietà di famiglia, per verificarne lo stato in vista della finalmente imminente estate. Avevo appena superato la villetta di Angelo, che avevo immaginata chiusa e disabitata dietro la folta vegetazione che la celava, come del resto negli ultimi dodici anni, quando lo vidi pochi metri avanti a me, imboccare la stradina che portava alla spiaggia. La sua stazza massiccia, l’andatura mollemente caracollante e quel vezzo di trascinare gli zoccoli di legno, l’avevano sempre reso inconfondibile ed anche adesso, che non conoscevo a memoria le sue magliette e i teli da spiaggia che portava appesi ad una spalla, ed il faccione sorridente era ricoperto da una folta barba nera, non ebbi problemi a riconoscerlo.
Dodici anni erano passati. Lo chiamo a gran voce, lui sorpreso, ma contento, ci abbracciamo. La mia adolescenza vissuta con lui, le scorribande estive su e giù per la statale, i viaggi in Grecia ed in interrail, le turbolente notti in discoteca e le mille serate passate a fumare ed a passarci bottiglie di birra, persi nei discorsi che ci entusiasmavano o che semplicemente ci facevano sentire così profondi ed uniti. E poi la vita. Quella adulta, nè più né meno vera dell’altra, certo con più responsabilità e meno sogni, ma con delle nuove strade da seguire, che pian piano si andarono irrimediabilmente divergendo. Io nella mia città, con moglie e figli, lui in giro per lavoro, tante città e vicissitudini, a me sempre meno note e captate solo attraverso sporadiche telefonate e sbrigative chattate sui social che entrambi utilizzavamo con la stessa dimestichezza che ha un trentino nell’aprire i ricci di mare. Un allontanamento lento e costante, fisiologico certo, ma che lui, avevo avuto l’impressione, non fece mai nulla per impedire, anzi a volte lo aveva quasi voluto. Il nostro abbraccio, i sorrisi e le chiacchiere che spontaneamente iniziano a fluire hanno subito il potere di farci ritrovare l’antica confidenza, pur se non spazzano del tutto quella sensazione di velo posato su anni non raccontati, anni che ci hanno nascosto l’uno all’altro, che ci hanno impedito di esserci accanto.
Mi presenta i due che sono con lui, Mara e suo fratello Dario, me li presenta proprio così, Stringo le loro mani, scrutandoli curioso, rapidamente, ricalandomi nelle nostre conversazioni ora convulse ora silenziose, mentre i due ci seguono lungo il sentiero, guardandosi attorno ma senza intervenire. Gli rinfaccio di essere venuto lì senza avvisarmi, e lui ribatte brandendo i suoi impegni di lavoro che non gli permettono di programmare, che ha deciso all’ultimo momento; mi chiede dei miei figli, magari li vedrai ai 18 anni, gli dico, se non ci vieni a trovare. Seduti sulla spiaggia, davanti al superbo Jonio di giugno, versione conforme, ma concreta, ai patinati depliantes delle Maldive con la differenza che qui ti ci puoi tuffare adesso e bagnarti davvero. Come hanno fatto Mara ed il fratello che guizzano nell’acqua. Vedo che li segue con lo sguardo mentre parla con me, mentre mi confida il suo timore di essere ancora trasferito, ora che sente di aver trovato la sua dimensione, ora che si sente davvero in pace, e me lo dice con quel suo modo di guardare solennemente l’orizzonte che conoscevo e ritrovo identico. Guardo da lontano Mara, una bella donna, sorridente, forse finalmente quella giusta. E’ molto che siete insieme?, gli chiedo; tre anni mi dice ma, è un casino, non ti dico guarda, magari te ne parlerò. Quasi chiude il discorso sul nascere, come se pur rimanendo intatta la nostra sintonia, qualcosa manca, qualcosa di invalicabile, come se non avesse voglia di aprirsi o forse semplicemente come se non ne sentisse l’esigenza. E quando gli dico, quando me ne parlerai, sono secoli che non parliamo. Sei ostinato, ribatte lui, con la fissa che dobbiamo parlare in maniera rituale, solenne. Giovane!, è diverso adesso, la comunicazione è cambiata! E giù una risata.
All’improvviso gira la testa verso il mare. Guarda, come al solito si fa abbordare, esclama. Mi giro anche io: c’è un ragazzo che parla con loro, addirittura è Dario che ci sta parlando in realtà, Mara è più indietro, ma lui è fatto così, un gelosone, inguaribile, da sempre. Ricordo le discussioni quando qualcuno entrava nel raggio di venti metri attorno alla sua donna, erano guai. Tranne per me ovviamente: noi eravamo fratelli praticamente e le rispettive donne sorelle per entrambi. Sei sempre lo stesso, gli dico, ancora geloso come da ragazzino. . .eddai, sii aperto, mi sembri siculo. Ride di gusto adesso, mi appoggia un pugno sulla spalla, poi lo alza e mi colpisce piano, e mi ricorda che dopotutto il meridionale sono io. . .
Andiamo sullo chalet a bere qualcosa, una birra fredda come sempre in estate, il nostro drink-time. Facevamo sempre così: a mezzogiorno lasciavamo la postazione in spiaggia e per un’oretta restavamo nel bar a tracannare birra ed a parlarci. Una volta, eravamo ad Albufeira, Portogallo, stemmo via nella cervejaria un paio d’ore e vuotammo insieme due caraffe di sangria e quando tornammo il sole alto ed il caldo complicavano la nostra già barcollante camminata verso la riva. Arrivati in spiaggia non riuscivamo a vedere i nostri teli lì dove li avevamo lasciati ed incerti procedemmo guardandoci attorno quando una ragazza nordica, statuaria, con capelli lunghi e biondi d’ordinanza ci venne incontro facendoci cenni con la mano. L’alcool che avevamo in circolo ci fece dimenticare i teli ed anzi iniziammo quasi ad assumere la posa tronfia dell’italiano che ha abbordato all’estero; la ragazza, bellissima, ci raggiunse e ci indicò i nostri teli. La marea dell’atlantico si era alzata e li aveva completamente coperti ed inzuppati insieme con gli zaini ed ora giacevano lì, bagnati ed appallottolati grazie al suo intervento, col quale li aveva almeno sottratti alle onde: ringraziammo confusi e tra i risolini della spiaggia ci andammo a fumare una sigaretta sullo scoglio. I due amici, ci hanno raggiunto nel frattempo, bevono con noi, si mantengono in disparte, ascoltano i racconti, ridono anche, poi tornano ad armeggiare coi loro smartphone, nè noi li coinvolgiamo o proviamo a farlo. Guardo di sottecchi Mara, mi sembra distante, poco complice o interessata a quei pezzi di vita passata, nè Angelo fa nulla per inserirla tra noi; lei è sfuggente, poco entusiasta, lui però lo vedo sereno, la pelle liscia e non segnata, soddisfatto. Lo noto con sincera gioia.
E’ tardi, devo andare, mi ha fatto davvero piacere, fatti sentire, devi raccontarmi un sacco di cose, gli dico, ammiccando. Risponde stringendomi la mano. Ma sì, tranquillo, che poi lo sai che tra noi non c’è mica bisogno di parlare per raccontarci. Le cose devi spiegarle o raccontarle per filo e per segno agli estranei mica agli amici. Si, d’accordo però due parole mica fanno male dai. Ok, ti prometto due parole, dice lui. Ehi, e mandami anche la foto che abbiamo fatto prima, gli grido. Lo faccio subito, mi fa lui, che in questi anni ho capito esser diventato un patito delle foto e mentre eravamo tra i tavoli dello chalet si è divertito ad immortalare col suo iphone. Ritorno solo sul sentiero e penso a quanto abbia contato e conti ancora nella mia vita. Peccato che sia così restio, che non voglia raccontarsi, non mi voglia far entrare in questi dodici anni.
La sera mentre a casa parlo della mia giornata, aprendo le mail trovo una foto che mi ha appena mandato. Uno dei suoi autoscatti, selfie si dice adesso, la guardo, ma io non ci sono. Sono lui e Dario e sotto la scritta “due parole”.
Capisco tutto, all’improvviso, dodici anni in dodici secondi. Insieme sono contento per lui e dispiaciuto di me che non son riuscito ad ascoltare. Non era lui a non raccontarsi ma io a non ascoltare.
Nicola, ascoltare è un’arte che dovremmo reimparare, magari anche osservando i segnali che le persone ci lanciano. Un messaggio importante quello del tuo testo, espresso anche in una forma scorrevole che rende la lettura piacevole.
Bravo. Mi è molto piaciuto il tuo racconto. A volte è proprio così, non si capisce perché non si sa ascoltare. O vedere. Due parole.
Vi ringrazio. Ascoltare gli altri diventa sempre più difficile in un mondo in cui si vuole solo parlare.
“Capisco tutto, all’improvviso, dodici anni in dodici secondi. Insieme sono contento per lui e dispiaciuto di me che non son riuscito ad ascoltare. Non era lui a non raccontarsi ma io a non ascoltare.” in due parole il dramma dei nostri tempi non saper ascoltare! Mi è piaciuto davvero molto il tuo racconto!
Grazie Anna Rosa, felice del tuo apprezzamento.