Premio Racconti nella Rete 2017 “Bucce d’arancia” di Nicola Mele
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Gli stringo la mano grinzosa carezzandola col pollice. E lo guardo: il volto scavato e deformato dalla maschera dell’ossigeno, contratto nello sforzo di raccogliere gli ultimi soffi d’aria. Nonno ha i capelli ancora folti e bianchi ma arruffati e con la piega buffa e innaturale segnata dal cuscino, inconsueta per lui sempre impeccabile e pettinato. Quante volte avrei voluto e potuto stringere quella mano senza farlo: liscio quella rugosità e sento la stessa consistenza delle bucce d’arancia arrostite sulla stufa al kerosene, ruvide e indurite.
Quando ero un bambino, tutta la famiglia si riuniva a casa dei nonni, durante le feste ma anche i sabati e le domeniche qualunque. In inverno nonno puliva le arance e le disponeva sul tavolo a metà, così che tutti le potessimo assaggiare: aveva un modo particolare di sbucciarle, con le sue sapienti mani di chef, intagliando le bucce in figure strane e mai regolari. Poi le raccoglieva e le andava a distribuire in ordine sulla piastra della stufa: si arrostivano e lentamente l’effluvio acre ma aromatico pervadeva tutta la casa. Noi bambini ci lamentavamo spesso perché l’odore permeava anche le fette di pane che ponevamo sulla stufa ad abbrustolirsi prima di mangiarle, ma nessuno osava mai rimuoverle. Quell’odore inconfondibile ci accompagnava durante tutto l’inverno, era il segno che si stava tutti insieme, era il profumo della famiglia, della nostra famiglia unita. Ancora adesso, quelle bucce d’arancia e quel profumo che riesco quasi a immaginare e riassaporare mi riempiono di ricordi e di sensazioni ormai perdute.
Nonno era un patriarca, vecchio stampo, o almeno così mi appariva: tutto doveva essere deciso da lui e nessuno osava mai contraddirlo. Stento a riconoscerlo in quell’esile e dimessa figura, resa ancor più fioca dal debole e tremolante neon della stanza di ospedale, che emana una tenerezza e una debolezza che non gli sono mai appartenute. Ne avevo conosciuto la vita attraverso i racconti dei figli che si ripetevano in quelle serate d’inverno, in un susseguirsi di ricordi d’infanzia ora comici ora risentiti. Uno, in particolare, ci faceva sempre ridere tanto e veniva riproposto pressoché a ogni vigilia di Natale.
Era una vigilia di Natale e come da tradizione, la famiglia di nonno con i suoi sei figli, avrebbe trascorso la serata dai parenti: prima di uscire di casa, nel pomeriggio, si compiva il rito della processione in casa con la finale nascita di Gesù bambino. Tutti in fila dietro il capofamiglia, con una candela accesa in mano, cantavano “tu scendi dalle stelle”. Senonché, quella sera, la candela di nonno si era piegata, assumendo una comica posizione stile torre di Pisa che non poté non suscitare le risa sommesse dei due figli più grandi. Nonno, raccontano, non si lasciò affatto trascinare dall’ilarità anzi, punì tale mancanza di rispetto mandando a letto i due bambini che, all’età di nove e sette anni trascorsero l’intera vigilia di Natale da soli a casa, senza cena e senza i pur piccoli regali che li aspettavano a casa dei nonni paterni.
Ancora oggi ne ridiamo ma è difficile non sentirsi fastidiosamente colpiti dalla crudeltà di quella punizione.
Bastava però una serata di quelle invernali trascorsa in famiglia attorno a una tavola imbandita e qualche bicchiere di buon vino rosso in più e nonno si ammorbidiva trasformandosi in un romantico e avventuroso cantastorie capace di sorprenderti e farti sognare con i racconti della sua vita. Era un bravo affabulatore e le sue storie ci affascinavano, infarcite com’erano di momenti epici ed eroici, come quelle dei ristoranti di mezza Europa ove aveva lavorato, venendo a contatto con personalità e celebrità di ogni tipo o come quella del suo ritorno a piedi dal confine italiano dopo la guerra in Russia.
Nonno fu uno dei tanti e giovani soldati italiani che partirono per la campagna di Russia, al canto di “Aspetta mia bambina il mio giorno, vado, vinco e torno”; una volta però arrivati lì, i giorni diventarono mesi e anni. La tragicità di quella guerra l’abbiamo sempre vissuta tramite i racconti di nonno che, quasi provvidenzialmente, fu ferito dallo scoppio di una granata e fu rimpatriato tra i feriti. Il ritorno alla sua casa, al sud, però, non fu un viaggio di piacere. Per evitare i tedeschi che oramai avevano occupato buona parte della penisola, viaggiava di notte e si nascondeva di giorno. I suoi ricordi vividi fino ai giorni del freddo e delle battaglie in Russia, si affievolivano fino a quando si svegliò in un casolare del centroitalia dove fu accudito e nutrito per un mese, prima di potersi rimettere in viaggio verso casa.
Il silenzio grave e austero dell’ospedale concilia la mia mente che vaga avanti e indietro nel tempo pescando nella mia memoria. La volta in cui respirai per l’ultima volta quel profumo era il pomeriggio di una domenica di metà anni ’70. Un pomeriggio diverso però; andammo a casa dei miei nonni a piedi in un’atmosfera quasi irreale di silenzio, dovuto al divieto alla circolazione delle automobili, resa ancora più inusuale dall’assenza di mio padre, che non era con noi.
Eravamo al solito tutti lì, in quella casa piccola ma che diventava spaziosa quando erano tutti insieme: i cuginetti intenti a giocare in cucina, gli adulti nell’altra stanza, le bucce al loro posto sulla stufa, gli addobbi natalizi già disposti, sempre uguali, così suggestivi nella loro immobilità. D’improvviso percepii qualcosa di diverso, qualcosa di stonato: le voci dall’altra stanza erano diventate urla, i nostri schiamazzi, silenzi. Ascoltai toni di voce mai sentiti prima, accuse e rivendicazioni, pugni sbattuti sul tavolo e urli striduli. Guardavo i miei cugini che guardavano me, tutti immobili e ignari, ammutoliti. Poi mamma ci infilò frettolosamente il cappotto e aprì la porta senza salutare, scendendo le scale con noi, io e mia sorella, dietro, che la inseguivamo.
Quella sera compresi poco: mi rimase l’immagine di mia nonna con gli occhi rossi e soprattutto il volto livido di rabbia di mio nonno, i pugni serrati e lo sguardo incredulo. In seguito compresi e ricostruii anche quella serata; mia madre aveva annunciato alla sua famiglia, col candore e l’impulsività che la contraddistinguevano, la fine del suo matrimonio con mio padre. E aveva aggiunto che presto ci saremmo trasferiti in un’altra città dove lei aveva ottenuto un nuovo ruolo nella banca in cui lavorava, per seguire il suo nuovo compagno.
Non compresi mai appieno, negli anni seguenti, se mia madre fosse stata ingenua a pensare di poter comunicare un tale insieme di novità dirompenti durante una serena serata in famiglia o se invece covasse il desiderio di scompigliare la vita dei suoi parenti così come stava facendo con la nostra, per il puro gusto di stupire.
Ci trasferimmo e io mi abituai a stento alla nuova vita: mi mancava mio padre e mi mancavano quelle serate cui sempre ripensavo, e le telefonate sporadiche, per le feste e per le ricorrenze non erano che una formalità. Mamma e nonno non si parlavano e quindi non ci incontravamo nemmeno durante le feste o le vacanze: l’uno più testardo dell’altra, l’orgoglio dell’uno uguale all’orgoglio dell’altra. Non riuscivo a comprenderne le ragioni, né dell’uno né dell’altra.
Nove anni passarono così e non ero più un bambino quando mamma si ammalò e, nel giro di un mese, se ne andò. Fui proprio io a telefonare a nonno quando la portarono in ospedale ed ebbi la sensazione che non sarebbe più tornata a casa: nonno arrivò, ma non in tempo per poterle parlare. In quei giorni convulsi, mentre mi lasciavo travolgere inerme e incredulo dagli eventi, sentivo di odiarli entrambi. Ciò che mi avevano tolto, pensavo, adesso non me lo avrebbero potuto restituire.
Quella perdita improvvisa mi riportò nella mia città e il natale successivo volli essere a casa dei nonni, volevo riprendermi ciò che mi era stato sottratto in tutti quegli anni. Quando entrai in quella casa la ritrovai più piccola: i nonni e gli zii erano invecchiati, i cugini sconosciuti adolescenti . Mi giravo attorno con lo sguardo alla ricerca di qualche tangibile segno di riconoscimento che connotasse quello spazio, che riannodasse i fili della mia memoria e delle mie radici, senza trovarne. Una moderna stufa a gas senza piastra troneggiava nel corridoio, fredda e anonima, surrogato di quella che era stata il loro focolare, mentre un deodorante assorbi odori a stick svolgeva il ruolo che era stato delle bucce. Mi sentii privato per la seconda volta di quei punti di riferimento che mi erano stati tolti già da bambino, rendendomi conto che tutto era cambiato, tutto era diverso.
Pur crescendo e trovando nuovi obiettivi e dimensioni diverse nella mia vita, continuavo a essere riattratto di volta in volta dalla casa dei miei nonni e soprattutto da quell’idea di famiglia che essa rappresentava. Frequentando mio nonno potei conoscerlo meglio, potei apprezzare alcuni lati del suo carattere e detestarne altri anche se alcune volte mi sorprendevo a odiarlo per la sua severità che aveva rubato a tutti noi un qualcosa di prezioso, il tempo da trascorrere insieme alla propria famiglia e quindi, la famiglia stessa. Ma non ritrovai mai, nelle serate trascorse a casa loro, attorno a quel tavolo di marmo che conoscevo così bene, quelle atmosfere e quelle sensazioni che mi portavo dentro sin da bambino assieme al profumo d’arancia: tutto mi pareva cambiato, tutto mi pareva diverso.
Un giorno, saranno cinque o sei anni fa credo, ero appena patentato, si fece accompagnare su in collina nella casetta di campagna che era stata di alcuni suoi zii, ormai disabitata e in rovina: passeggiammo nel giardino, guardando gli alberi. A un tratto mi posò la mano sulla spalla, inconsueto, capii che stava sforzandosi di dire qualcosa.
“Vedi quegli alberi? Vedi la chioma, i rami, il tronco? L’albero non è solo quello”. Una pausa. Camminammo ancora. “Esiste un altro albero, un’altra chioma, che noi non vediamo perché è sotterranea, ma che è direttamente legata a ciò che noi vediamo fuori. Una parte ha bisogno di luce, quella sotterranea ha bisogno di acqua”.
“E’ come la nostra vita” continuò. “Una parte di noi è quella che affiora, si muove, scambia, produce. L’altra non si mostra, è restia, però pompa il sangue che ci rende vivi”.
Mi condusse all’interno della casetta, che non avevo mai visto.
“E’ qui che stava la mia famiglia durante la guerra. Per paura dei bombardamenti si rifugiarono tutti qui. Quando tornai dalla Russia venni qui, direttamente, sicuro di trovarli”.
Si sedette e cominciò a raccontare l’epilogo della sua campagna di Russia, come non lo avevo mai sentito fare.
“Quando mi ritrovarono lì in quel casolare ero sfinito, avevo due, tre cappotti addosso e ai piedi solo degli stracci, perché ormai le scarpe erano completamente consumate. Mi trovarono febbricitante e con un inizio di infezione ai piedi. I primi dieci giorni, credo che dormii ininterrottamente. Mi nascosero in una stanza ricavata dietro una stalla: spesso c’erano dei rastrellamenti dei tedeschi, ma per fortuna non mi trovarono mai. Una ragazza si prendeva cura di me, la figlia del proprietario di quella grande cascina e di tutte quelle terre. Avrà avuto venti anni forse, si chiamava Angela. Era bellissima. Le devo la vita. Ci volle tanto tempo perché mi riprendessi e lei rimase lì, al mio fianco, paziente. Mi innamorai di lei. E quando mi sentii meglio, partii per venire qui. Non sapevo che fare, confuso per tutto quello che era successo e per quella ragazza che avevo conosciuto e che sentivo di amare. Anzi, ti dirò, non credo di aver mai amato una persona in maniera così totale, univoca, incondizionata”.
“Ma poi arrivai, ed entrai in questa casa. E li trovai tutti qui, come ad aspettarmi. Mia madre, le zie, le sorelle e i fratelli e tua nonna. L’avevo lasciata che eravamo sposi da poco. Quando entrai erano tutti intorno al camino, con l’odore di castagne e bucce d’arancia che mi sommerse subito. Era passato tanto tempo, non li vedevo da tanto tempo, non avevo avuto notizie, tutto era diverso eppure mi sentii esattamente dove dovevo essere. Tua nonna aveva vicino una culletta dalla quale estrasse un fagottino e mi guardò. E’ tua figlia mi disse, vieni. Si chiama Angela, mi disse. E io nello stesso momento in cui guardai quel visino e quegli occhi e le toccai le manine, capii che sarei rimasto lì, che il mio posto era quello. Quella era tua madre! Lei riuscì a tenermi al mio posto”.
Rimase con lo sguardo nel vuoto, e rimasi in silenzio anche io. Volevo dargli la mano, ma non lo feci, mi limitai a stargli accanto. Volevo pensare.
Forse stava provando a farmi comprendere ciò che mia madre aveva dentro, quando andò via, e ciò che lui aveva dentro, avendo fallito laddove mia madre, neonata, era riuscita: tenere vicine le persone che amiamo.
Quello fu uno degli ultimi momenti di intimità con mio nonno, forse anche uno dei primi. Per uno strano scherzo del destino mi son trovato io qui, quando si è aggravato, io gli stringo la mano, io ne ascolto gli ultimi respiri. Lo sento sempre più affannato, straziato dalla fatica di respirare, chiamo l’infermiere. Poi chiamo gli zii, sento che ci sta per salutare.
Mai lo avevo visto così simile a mia madre. Hanno avuto la stessa parte nascosta dentro di loro, lo stesso fuoco e non lo avevano mai capito.
In chiesa ci sono tutti. Li saluto uno a uno, con calore antico e con una nuova consapevolezza. Cerco di andare oltre ciò che vedo adesso in loro, cerco di sentirne la parte nascosta, quella che, restia a mostrarsi, gli dà però la vita: quella parte la sento ancora simile, sono le nostre radici e rimangono quelle, nonostante la vita, nonostante tutto.
E quando il sacerdote al termine del rito esequiale, incensa la salma del nonno, percepisco forte nell’aria il profumo delle bucce d’arancia.
Mi piace il tuo stile, mi piace questa storia. Sentimenti, ricordi, nostalgia, odori, tradizioni, segreti, legami familiari complessi e intricati come in tutte le famiglie anche quando sembra tutto trasparente e semplice, emozioni, … Ci segnano a vita i ricordi dell’infanzia, il rapporto con i nonni, o con una figura particolare della famiglia, qui questo nonno forte e autoritario. Bellissimo ed essenziale il tuo messaggio, tenere vicine le persone che amiamo. Spero che scriverai un romanzo, mi piacerebbe leggerlo.
Un bel racconto ricco di ricordi , della tradizione della famiglia. Bello il rapporto che descrivi tra il padre e la figlia, intenso il tuo rapporto con lui. Hai avuto la fortuna di sentire il suo racconto del rientro dalla campagna di Russia. Anche mia nonna metteva le bucce d’arancia sulla stufa, e il profumo si diffondeva in tutta la stanza.
Complimenti.
Vi ringrazio. Contento che lo abbiate letto e vi sia piaciuto e soprattutto abbiate colto in pieno quello che ho cercato di esprimere. Grazie.
Che bello questo tuo racconto Nicola! Mi hai fatto commuovere e sembra tutto così vero (o forse lo è! ?). Hai ragione quando dici che é difficile tenere insieme le persone che amiamo, ma é importante almeno provarci! Complimenti e grazie
Commovente e rigoroso Difficile non farsi prendere la mano dal sentimentalismo ma qui ha vinto una disciplina di scrittura semplice ed efficace. Bravo!
Grazie, mi fa molto piacere che sia riuscito ad emozionarvi.
Bello e commovente. Mi ha suscitato molti ricordi, legati alla mia famiglia. Gli affetti familiari sono la parte più importante della vita, ma la figura della mamma è quella di una donna che ha dovuto scegliere ed ha pagato il proprio diritto di farlo con l’allontanamento dalla persona che più le somigliava.
Grazie Annalisa. In effetti nello scrivere attingo a piene mani ai ricordi particolari propri della famiglia, alcuni veri, altri no.
Nicola, un recupero della memoria attraverso gli odori che permeano tutto il racconto fino alla pacificazione con un vissuto non del tutto compreso… Anch’io metto sempre le bucce d’arancia sulla stufa e il profumo è lo stesso dell’infanzia.
Grazie Paola. Ho cercato di ricreare quelle atmosfere tipiche dell’infanzia, coi ricordi che rimangono a metà tra realtà e immaginazione.
Nicola, ho letto moltissimi racconti, ma il tuo, chissà perché mi era sfuggito.Vedo il tuo titolo fra i vincitori, mi son detta :’ buone le bucce d’arancia!soprattutto candite…Leggiamolo..meno male! Un capolavoro, una dolcezza infinita, un duro-buono che fa sciolgliere il cuore..Mio padre, sempre mio padre riaffiora in me quando leggo dei vecchiucci e della loro morte..Ne ho anche scritto un racconto.Per me sarà un onore conoscerti.Non mi va di dirti altro, sono commossa. Ho pensato al funerale di mio padre..
Laura ti ringrazio, troppo buona davvero. Il tuo apprezzamento non può che rendermi felice tanto quanto far parte dei 25 scelti. Sarà anche per me bellissimo conoscervi.
Questo l’ho commentata per prima ed è rimasto uno dei miei racconti preferiti. Sono contentissima per te! Auguri auguri per il futuro!
Purtroppo lo leggo solo adesso, ma lo trovo delizioso e ti faccio i miei complimenti. Entrare nel tuo racconto, Nicola, è stato come entrare dentro una nuvola nella quale tutte le sensazioni sono ovattate, i ricordi appaiono lontani e dai lineamenti incerti e , d’ un tratto il profumo d’ arancia spara imput a raffica al sistema limbico del lettore e rende le immagini nitide. Sensoriale e nostalgico.Proprio bello, Nicola. Sarò felice di conoscerti
Nicola, mi ha emozionato questa tua bella storia, ho sentito nuovamente quel profumo di arance che credevo dimenticato
Grazie di avermi fatto tornare in un mondo lontano lontano, ma così dolce nel ricordo.
Il tuo stile calmo e accogliente ti accompagna delicato e non ti lascia andare via.
Bravo bravo, sarà un piacere incontrarti.
Vi ringrazio. Leggere i vostri commenti, attenti e profondi, mi apre sempre nuove chiavi di lettura del mio racconto. Il vostro apprezzamento, poi, mi onora. Sono davvero contento di essere entrato a far parte di questa splendida comunità che condivide la mia stessa passione, dispiaciuto per non aver ancora avuto tempo e modo di leggervi tutti con la stessa attenzione con cui mi avete letto, lacuna che colmerò al più presto approfittando dei mesi estivi. Sono anche io molto emozionato per la serata di Lucca e soprattutto ansioso di conoscervi. Ancora grazie.
@ – dominique – è vero sei stata la prima e leggendo il tuo primo commento ho avuto per la prima volta la sensazione di aver scritto un racconto apprezzabile.
@ – gloria – grazie, i ricordi sono quasi sempre al centro dei miei racconti perché per me rivivere il passato di da la consapevolezza necessaria ad affrontare il futuro.
@ – gianluca – il profumo delle bucce d’arancia arrostito ha contraddistinto la mia infanzia e credo non lo dimenticherò mai.
Nicola,
finalmente arrivo anche io a farti i complimenti, sebbene con inscusabile ritardo.
Ho trovato nel tuo racconto i luoghi dell’anima, il clima, le sensazioni, le usanze ed – ovviamente – i profumi che nell’immaginario collettivo riportano alla forza del vincolo familiare; il tutto, con uno stile assolutamente maturo e lucido, che non si lascia intorpidire da banalità e malinconia, tenendo d’occhio le e coinvolgendo il lettore nelle vicende umane che, volenti o nolenti, attentano all’unità di quel magico microcosmo.
Emozionante, evocativo e terribilmente vero.
Vittoria meritatissima.
Complimenti.
Grazie Lorenzo, le tue parole non possono che inorgoglirmi. Complimenti anche a te per il tuo bellissimo racconto che, purtroppo, non avevo ancora avuto modo di commentare ma che mi è piaciuto molto e ritengo denso di immagini suggestive oltre che scritto molto bene. Sarò contento di conoscerti a Lucca.
Che bel racconto dal sapore antico… uno di quei racconti che ti avvolgono come i maglioni d’inverno. Calarsi nelle tue immagini è un atto immediato: per te è l’odore delle bucce d’arancia a riportarti indietro nel tempo, per un altro può essere l’odore delle caldarroste o del vin brulè, ma il concetto non cambia. Sono esperienze eterne.
Grazie per aver scritto un racconto che è un pezzetto di umanità.