Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Un angelo caduto dal cielo” di Luca Pisà

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Marina non era mai stata una bella ragazza. Non era stata una bella neonata e poi nemmeno una bella bambina. Per lei il detto “brutta in culla bella in piazza” non aveva mai avuto senso. La parola in cui meglio si riconosceva era “insignificante”.

Non le si riusciva a dare un’età. Avrebbe potuto avere una trentina d’anni (considerata la carnagione compatta e soda del viso), ma allo stesso tempo anche quarantacinque o cinquant’anni, per come si muoveva, per il gusto nel vestire e per come esprimeva le sue idee.

Tutto ciò non faceva di lei una persona misteriosa e intrigante, bensì tradiva la sciatteria nella quale viveva.

Il suo punto forte era l’intelligenza e la proprietà di linguaggio. Non la beccavi mai senza argomenti, sapeva sostenere qualsiasi tipo di conversazione e, se necessario, difendere le sue ragioni con veemenza e protervia. Ma tutto ciò non era quasi mai necessario.

L’indole accomodante e i modi gentili in qualche modo la affrancavano dal grigiore della sua esistenza e le poche persone che frequentava la apprezzavano per la serietà e l’affidabilità del suo carattere.

Marina era abituata a stare da sola e aveva sviluppato un’attitudine a rendersi invisibile, così nessuno poteva farle domande a cui lei stessa non voleva pensare.

I genitori no li aveva più già da anni. La bambina era arrivata quando loro ormai pensavano quasi alla pensione e la gravidanza era stata accolta con stupore e imbarazzo. La madre pensava che a quarantacinque anni fosse sconveniente farsi vedere in giro per il quartiere con il pancione, così aveva vissuto la maternità come una vergogna, camminando a testa bassa e nascondendo le rotondità in ampi scamiciati e pesanti pastrani. La nascita di Marina però aveva finalmente portato una ventata di allegria in casa e i genitori, una volta trovatisi con il bebè tra le mani, avevano accettato l’idea che anche a loro la vita avesse riservato una porzione di felicità.

La spensieratezza durò poco. Il papà morì prematuramente di silicosi, lasciando la moglie completamente impreparata ad affrontare la vita con una bambina piccola da crescere.

Luana, la mamma, non si lasciò piegare dal destino, anzi reagì tirando fuori un carattere che fino ad allora nemmeno lei aveva saputo di avere. Durante il giorno faceva ogni genere di lavoretto nel vicinato e la sera fino a notte inoltrata rifiniva asole e sorgetti per la sartoria del centro.

Tra sconfitte e delusioni, passarono gli anni e l’unica gioia della sua vita era vedere Marina che cresceva sana e intelligente. Sempre la più brava a scuola, ubbidiente, rispettosa e con tanta voglia di rendersi indipendente.

Con la pensioncina del marito riuscì a far laureare la figlia e quando la vide conquistare la cattedra in letteratura italiana presso il liceo della città pensò che finalmente fosse arrivato il momento di prendere fiato e godersi gli ultimi anni che le restavano da vivere. Forse il suo debole fisico, logorato dai duri anni di fatiche, non era stato capace di contenere tanta gioia e soddisfazione tutta in una volta, così cominciò a soffrire di strani malori, che lei imputava alle forti emozioni per il lavoro della figlia e allo stile di vita che aveva sempre fatto. Marina inutilmente cercava di spingere la madre a farsi controllare da un medico, anzi Luana più si sentiva spinta a prendersi cura di sé, più si impuntava a fare di testa sua. Un infarto non le lasciò scampo. Marina la trovò riversa tra il bidè e la vasca da bagno, nella sua vestaglia buona di flanella color malva, quella del corredo nuziale e con ancora in mano le parole crociate lasciate a metà. La scena che le si presentò davanti era così miserabile e triste che non riuscì neppure a piangere e gridare. Le sembrò la giusta fine per sua madre e mentre pensava queste cose si odiava per il suo cinismo e si compativa per l’ingiustizia della propria esistenza.

Iniziò così una nuova fase nella vita di Marina. Per fortuna aveva potuto riscattare il contratto d’affitto del bilocale in cui era cresciuta e con il suo stipendio da insegnante riusciva mantenersi decentemente.

Lo specchio non le restituiva l’immagine che avrebbe voluto vedere. Forse raggiungeva il metro e sessanta, fianchi larghi sottolineati da una vita troppo stretta, capelli opachi, pelle cerulea e occhi azzurri, ma completamente persi in un viso i cui lineamenti sembravano trovarsi lì per caso, senza nessuna armonia ed appena abbozzati.

Si fece coraggio e decise di affrontare a testa alta il primo giorno di scuola come insegnante di ruolo nel liceo che molti anni prima aveva lei stessa frequentato.

Basta!, si disse, non sono più la ragazza cupa e vergognosa di prima. Ora è il mio momento e nessuno me lo potrà togliere.

Andò dal parrucchiere, cambiò taglio di capelli, ravvivò il suo colore naturale con qualche colpo di sole, si comprò una borsetta nuova da inaugurare il giorno successivo.

A scuola i ragazzi la chiamavano prof, i colleghi le davano del tu, il dirigente le mostrava rispetto e considerazione grazie al suo ottimo curriculum e si era fatta anche un’amica, Rossella, l’insegnate di ginnastica, spregiudicata e pettegola, che la faceva sentire importante.

Marina non riusciva a sentirsi triste per la morte della madre come avrebbe voluto. Nella nuova scuola tutto era troppo eccitante. Nessuno si era accorto della sua insignificanza, la trattavano come una persona normale, le facevano battute spiritose, le offrivano il caffè alla macchinetta nei cambi d’ora e le dimostravano attenzione quando in consiglio di classe esprimeva le sue idee su questo o quel alunno.

Senta prof, che ne direbbe di accompagnarci lei in gita a Parigi quest’anno?

La proposta arrivò inaspettata e fulminea. Marina era appena arrivata in quella scuola, perché gli studenti dell’ultimo anno avrebbero dovuto volere lei come accompagnatrice?

Ragazzi non so se è il caso…ci conosciamo da poco…magari è meglio che andiate con qualcuno degli altri insegnanti. Rispose di getto.

Non se ne parla neanche! Prof vogliamo lei che è la migliore e non si accettano rifiuti!

Marina sentiva il cuore in gola e le sudavano le mani. Le veniva da piangere, ma ricacciò indietro le lacrime, deglutì e rispose sìììì, battendo le mani velocemente come faceva da bambina quando era felice.

Andare a Parigi con i “suoi” alunni! Era un sogno che si realizzava. Non era mai uscita dal paese, se non per andare in università, e il pensiero di prendere un treno di notte e svegliarsi a Parigi la tenne sveglia per tutta la settimana prima della partenza.

Parigi era stupenda, i ragazzi adorabili e l’atmosfera vacanziera la inebriò al punto da farle perdere talvolta il contatto con la realtà.

La seconda notte, appena tornati dalla visita al quartiere di Pigalle,che le aveva creato non poco imbarazzo, sentì bussare con forza alla porta della sua camera.

Venga prof presto! Simone si sente male.

Le parole del ragazzo la mandarono in agitazione, ma scattò all’istante per andare a vedere cosa fosse accaduto a Simone Bertelli, un ragazzo grande e grosso e che godeva sempre di ottima salute.

Avranno bevuto di nascosto, pensò e non è il caso di agitarsi prima di vedere la situazione.

Appena entrata nella stanza, vide Simone sul letto immobile a pancia sotto con solo i boxer addosso. Si avvicinò al ragazzo, gli sfiorò un braccio e questi si girò improvvisamente afferrandola per il polso.

I ragazzi stavano scherzando e si sentì più sollevata che scocciata, anche se a lei quel genere di scherzi non piacevano e poi vedere il ragazzo in mutande la imbarazzava.

Un terzo ragazzo uscì dal bagno, anch’egli in mutande. Questo era troppo, non avrebbe tollerato di rimanere in quella stanza un minuto di più.

Fece per tornare sui suoi passi e uscire dalla stanza ma Daniele, il ragazzo che l’aveva chiamata in camera, la fissava in silenzio davanti alla porta chiusa.

Si sentì afferrare da dietro il collo, una mano sulla bocca e altre due che le torcevano all’indietro le braccia. Non stava accadendo veramente, doveva essere solo brutto sogno.

Simone e Giacomo la tenevano ferma da dietro, mentre Daniele le strappava i bottoni della camicetta di sangallo nuova che aveva comprato per la gita e con un solo strattone le tolse il reggiseno.

Cominciarono a insultarla e sputarle addosso, mentre si davano il cambio per violentarla.

Marina non pensava che il sesso fosse così, nei film aveva sempre visto che è una cosa bella, magari impetuosa, ma che la gente fa, perché si desidera e vuole darsi piacere reciproco.

Vide tutta la sua vita scorrerle davanti a rallentatore. Rivide suo padre nelle vecchie foto ingiallite che la teneva in braccio ai giardini pubblici, vide sua madre china a fare asole fino a tardi, vide lei chiusa in camera sempre a studiare per essere la migliore e vincere le borse di studio. Poi si svegliò e sentì i ragazzi grugnire dentro di lei e sentì un male tremendo nelle parti basse e poi sentì qualcos’altro. Una specie di calore, un formicolio a spirale che le saliva dal basso, che obbligava il suo corpo ad aprirsi anche contro la sua volontà. Allora guardò i corpi nudi e sudati dei suoi aguzzini, non erano più i suoi amati alunni, non più ragazzi dalla pelle fresca e i capelli arruffati. Qualcosa a lei alieno si era impossessato della sua mente e del suo corpo, poi non vide più nulla e fu solo buio.

Sì svegliò all’alba, nella sua stanza, sotto le coperte e con indosso il pigiama di seta rosa lasciatole dalla madre. Le ci vollero alcuni minuti per capire dove si trovasse e se ciò che ricordava della sera precedente fosse solo un brutto sogno.

Le prese il panico, il disgusto e la paura che loro fossero ancora lì. Non fece in tempo ad alzarsi dal letto che un conato di vomito la scosse dal profondo. Sporcò le lenzuola, il pigiama e il comodino.

Allora è tutto vero, pensò.

I miei ragazzi mi ha hanno fatto questo…perché? Perché? Perché? Non è possibile, non è vero! Non possono essere dei mostri.

Come di fronte alla morte di sua madre non riuscì a reagire. Si lavò, si vestì e scese a fare colazione nella sala comune dove ormai tutti la stavano aspettando.

Cos’hai cara? Hai l’aria sbattuta, non hai dormito bene? Chiese Rossella appena la guardò negli occhi.

Non ho nulla grazie. Ho le mie cose e ho passato una notte molto agitata. Vediamo di sbrigarci e iniziare il tour sulla Senna.

Marina portò a termine il suo compito di accompagnatrice con lo zelo e l’affidabilità che tutti si aspettavano da lei. Appena rientrati in Italia decise di andare a denunciare il fatto in questura. Nei due giorni precedenti qualcosa l’aveva trattenuta, non capiva cosa fosse ma quando pensava all’incidente (così lo chiamava nella sua testa) si impadroniva di lei una rabbia furiosa e allo stesso tempo il fantasma del ricordo di quello strano calore che come un vortice si era impadronito delle sue viscere. Purtroppo non fece in tempo.

Lo scandalo scoppiò il lunedì successivo. I ragazzi avevano fatto il filmato e lo avevano messo in rete in un sito di video hard amatoriali e, nonostante i pixel, grazie al tamtam sui social erano stati riconosciuti e condivisi dappertutto.

Marina si difese come poté ma il fatto di non aver denunciato subito l’accaduto mise in dubbio la sua credibilità, anzi, i bastardi avevano dichiarato che lei non solo era consenziente ma che li aveva addirittura provocati.

Riuscì a schivare il carcere solo perché i ragazzi avevano già compiuto tutti e tre diciott’anni e i genitori avevano preferito che i loro bambini non vivessero anche il trauma di un processo proprio l’anno della maturità, così fu licenziata in tronco e diffidata dall’avvicinarsi sia a loro che alla scuola.

Marina a stento riusciva a rendersi conto che tutto ciò fosse realmente accaduto. Lo scandalo in città, il licenziamento, i commenti dei vicini che che le rimbombavano nelle orecchie anche di notte.

Puttana!

Schifosa!

Ti devi vergognare! Ammazzati che è meglio!

Non riusciva più a fermare la catena degli eventi. Viveva in uno stato di trance perenne e nessuno si accorgeva di quanto stesse male nell’anima e nel fisico. Aveva iniziato ad accusare strani malesseri e vertigini, ma nello stato emotivo in cui viveva era il minimo che potesse capitarle. Anche la sua unica amica Rossella non aveva più voluto rivolgerle la parola, testimoniando persino che secondo lei Marina aveva avuto sempre un atteggiamento un po’ “morbosetto” per i suoi studenti maschi.

Senza rendersene conto finì i pochi soldi che le aveva lasciato la mamma sul libretto di risparmio e si ritrovò senza mezzi e con lo sfratto esecutivo.

Puttana!

Puttana!

Puttana!

Ormai sembrava che nel quartiere la gente dicesse solo quella parola. La sentiva bisbigliare sull’autobus, in coda al supermercato, pure durante la messa. Anche di notte nelle sue orecchie risuonava solo quella parola.

Puttana? E allora puttana sia!

In fondo pensava di meritarselo. Era giusto così. La confusione dei sensi in cui era piombata quella notte, tra terrore, disgusto e quello strano calore, non giustificava la mancanza di iniziativa e di coraggio che l’avevano frenata nel denunciare subito l’incidente.

Decise di farsi una doccia, tirò su i capelli e mise un po’ di blu agli occhi. Non aveva idea di come si vestissero le prostitute nella realtà, i suoi pensieri le rimandavano immagini quasi romantiche di cocotte, (non poteva fare a meno di pensare a Gozzano “non amo che le rose che non colsi”, ma ora non aveva più senso) oppure alle ragazze dei saloon nei film americani.

Improvvisò con una gonna lilla un po’ più corta del solito, un top estivo nero che usava solo al mare e un paio di sandali bianchi col tacco indossati una sola volta ad una comunione. Non si riconobbe allo specchio.

Si spinse fuori dal centro storico, fino al porto, dove pensava ci fossero i locali più equivoci e di solito un buon numero di ubriachi che forse avrebbero potuto apprezzarla e pagarla per consumare un rapporto.

Funzionava davvero. Le auto si fermavano per lanciarle commenti volgari o deriderla per la sua aria da scolaretta. Un uomo piuttosto maturo, grosso, testa lucida e ventre prominente la caricò senza troppi discorsi offrendole venti euro. Marina accettò. Probabilmente quello era il suo valore e comunque non aveva idea di quanto avrebbe potuto chiedere.

La condusse in una strada fuori mano, buia e che puzzava di urina. La prese in un lampo e Marina nemmeno se ne rese conto. Un boato le esplose nel cervello. Iniziò a divincolarsi, a graffiare, a sputare e spingere con tutta la sua forza.

Stupida cagna! Ci vuoi stare ferma! O la pianti o ti ammazzo!

Marina non sentiva più nulla, continuava solo a lottare e urlare.

Un ceffone le fece sbattere la testa contro il vetro della portiera. Poi un pugno e poi un altro ancora. Sentiva solo il sapore acre del suo sangue che le scendeva in gola e le annebbiava la vista.

La portiera si spalancò e con calcio l’uomo la scaraventò giù. Poi scese e continuò a colpirla con gli stivali finché lei non perse i sensi e le pisciò sopra.

Quando si svegliò all’ospedale ormai erano le due passate. Le dissero che doveva stare calma, che era stata sedata poiché l’avevano trovata che girava mezza nuda e in stato confusionale ai bordi della banchina nella vecchia darsena. Doveva solo riposare e l’indomani il medico sarebbe venuto a parlarle.

Il dottore che la svegliò era un bel ragazzo, sulla trentina, capelli neri e i denti più bianchi che avesse mai visto, profumava di agrumi e di biancheria appena stirata. Marina gli sorrise e si scusò per lo stato in cui si trovava.

Non si preoccupi signora ora lei deve stare tranquilla e riprendere le forze. Non ha subito danni permanenti e presto potrà uscire. Purtroppo però le devo dire che il bambino non ce l’ha fatta.

Il bambino? Quale bambino?

Signora lei era in stato di gravidanza alla sesta settimana. Non ne era a conoscenza? piagnucolò il medico distogliendo lo sguardo.

In quel momento Marina ricordò che in effetti dopo l’incidente non le erano più venute le sue cose, ma non se ne era preoccupata granché con tutto quello che le stava succedendo.

Va bene. Grazie dottore, ora vorrei riposare, torni più tardi.

Marina guardò in fondo al corridoio fuori dalla sua stanza. Da una grande finestra si vedeva uno scorcio di cielo e in lontananza le colline che si tuffavano a strapiombo nel mare.

Si alzò e mentre si dirigeva verso la luce e il tepore del sole rivide sua madre che piangeva il giorno della sua laurea, sentì la radio della cucina che cantava “sembra un angelo caduto dal cielo” di Nada mentre suo padre con la tuta blu del lavoro le sbucciava una mela. Era l’unico ricordo che aveva di suo padre mentre canticchiava e le diceva “sei tu il mio angelo caduto dal cielo”.

In quel momento voleva solo suo papà e sua mamma e adesso loro erano proprio là, oltre l’azzurro e il mare che la stavano aspettando e lei, finalmente, stava correndo loro incontro.

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4 commenti »

  1. Hai scritto in modo molto piacevole a leggersi una storia molto triste. Temo che storie simili, la vita di personaggi sconfitti, intendo, si verifichino più spesso di quanto pensiamo. Non tutti vengono al mondo con la faccia tosta e la capacità di trarsi d’impaccio e, per quanto siano intelligenti, buoni e volenterosi, si scontrano spesso con la cattiveria umana. La storia che hai scritto così bene è di tua invenzione, ma mi ha rattristata come se fosse vera.

  2. Grazie del tuo apprezzamento Annalisa. La mia storia è inventata ma potrebbe benissimo essere “vera”, credo purtroppo che molte persone vivano in mezzo agli altri ma in completa solitudine. Almeno questa è l’impressione che ho guardandomi intorno nei luoghi affollati o sui mezzi pubblici. La solitudine credo che sia uno delle piaghe del nostro secolo.

  3. Luca, letto anche questo. Allora, io sono un’insegnante e ho trovato molto poco credibile la parte che riguarda lo stupro perché i ragazzi non si spingerebbero mai a tanto, soprattutto in gruppo, per non incorrere in sanzioni pesanti. Per il resto, scrivi bene, ma qui dovresti aggiustare un po’ la trama. Hai comunque citato quella che è una delle mie poesie preferite: … non amo che le cose che potevano essere e non sono state… vestita di tempo… meraviglioso Gozzano!

  4. Grazie Paola faccio tesoro del tuo commento. Lo stupro l’ho inserito in un contesto di alienazione. Nel mio pensiero i ragazzi erano completamente “fatti” ma come hai osservato tu non si evince dalla trama che ha evidentemente delle lacune. Concordo su Gozzano che reputo uno dei nostri più grandi poeti purtroppo non abbastanza conosciuto come meriterebbe. Grazie ancora e in bocca al lupo per i tuoi racconti.

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