Premio Racconti nella Rete 2017 “Inodore” di Claudia Lo Piccolo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Puliva gli occhiali con meticolosità, soffermandosi su ogni interstizio. Piccoli e lenti movimenti circolari. Sopra e sotto, destra e sinistra. Ipnotici. Dovevano essere perfettamente trasparenti. Nessun alone residuo. Un rito che replicava ogni qualvolta notava tracce, anche minime, di impurità. Gli davano sicurezza quei movimenti, così ripetitivi e controllati.
Atanasio leggeva il quotidiano locale, la pagina delle lettere al direttore. Una moglie si lamentava delle incomprensioni con il marito, uomo geloso e possessivo, che le vietava la gioia allegra delle uscite con le amiche. Pacatamente il direttore rispondeva che bisognava tentare di instaurare un dialogo, di capire e mediare le esigenze reciproche. Apatiche frasi standard, che si scrivono in queste circostanze. Atanasio si divertiva a leggere la rubrica della Posta al direttore. Gli piaceva l’idea di curiosare tra gli scorci delle vicende umane altrui. Leggeva con fiera superiorità, ridendo della stupidità del prossimo. Pensava a quanto fossero insulsi i problemi della quotidianità. I figli, i soldi, l’amore. Lui non aveva una vita. Le sue relazioni personali si riducevano ai ‘buongiorno’ e agli ‘arrivederci’ imposti dall’educazione. Niente di più. Guardava lo scorrere del microcosmo umano con altero distacco. Da spettatore. Poi passò alla pagina dalla cronaca. “Brutale omicidio in via Rivoluzione”. Una donna era stata trovata morta dentro la sua abitazione. Soffocata. Il cadavere, nudo, giaceva supino con le braccia lungo l’asse dei fianchi, i palmi aderenti alle cosce, le gambe strette l’una contro l’altra e la testa rivolta verso l’alto. Un’impeccabile ponderazione di membra dall’andamento perfettamente rettilineo.
Il corpo esanime sul letto disfatto era l’unico elemento distonico in una camera per il resto in ineccepibile ordine. Il capo della polizia riferiva che era stato trovato un possibile collegamento con altri quattro omicidi irrisolti. Altre quattro donne soffocate nell’apparente calma della loro stanza da letto e nella medesima posa. Un’ipotesi investigativa che era già stata elaborata nei mesi scorsi e che ora, col nuovo delitto, diventava una preoccupante conferma. Le indagini erano in corso, ma al momento non c’era nessun indiziato. Atanasio leggeva l’articolo compiaciuto. Avido di particolari. Un largo sorriso gli solcò il volto da guancia a guancia. Rideva soddisfatto, mentre scorreva i piccoli caratteri stampati che rivelavano la cronaca dettagliata di quegli omicidi. Si era guadagnato un posto sulle pagine dei giornali. Una gioia nascosta e non condivisibile. Poteva definirsi uno “sconosciuto famoso”. Ossimoro adeguato, pensò. Quando aveva ucciso quelle donne era stato meticoloso. Aveva pianificato ogni dettaglio con diligenza e precisione. Tutto si era svolto secondo il suo programma. Nessuna esitazione, nessun rimorso. I suoi delitti erano ingranaggi con meccanismi perfetti. La prima volta che lo aveva fatto era stato invaso da una tempesta di endorfine. Aveva sentito il corpo percorso da un insolito e adrenalinico piacere, mentre guardava la vittima dimenarsi per la mancanza d’aria. Un godimento libidico, un’estasi. Poi la quiete. Il corpo senza vita nel silenzio della stanza muta. Il rilassamento dei muscoli. E la necessità di rifarlo ancora. E ancora. Finalmente aveva trovato qualcosa che lo destasse dal suo glaciale torpore sensoriale. Si sentiva vivo, quando dava la morte. Chiuse il giornale e andò in cucina.
Dall’imposta filtrava la luce intensa del cielo striato dai cirri. Le goccioline di condensa sul vetro formavano un inatteso quadro atmosferico astratto. Atanasio sfregò con la mano la parte umida della finestra e guardò fuori. La vita esterna pulsava frenetica. L’edicolante disponeva i volumi di alcuni fumetti in vetrina, una coppia di anziani entrava nel bar all’angolo, un ragazzino correva per raggiungere il bus cittadino, le auto sfilavano senza sosta.
In una di queste macchine c’era Aaron, che era diventato un frequentatore assiduo di quella strada. Superò l’incrocio, rallentò, passò vicino alla fontana con i pesci rossi e accostò l’auto sul ciglio della strada. Come ogni giorno, era lì per sorvegliare la casa di Atanasio, una piccola abitazione a due piani priva di rilevanti ornamenti architettonici. “Una casa normale” l’aveva definita la prima volta che l’aveva vista. Aveva iniziato questa abitudine qualche mese prima. Raggiungere quel quartiere non era un tragitto comodo. Lui lavorava dall’altra parte della città. Nella grande industria tessile periferica, un enorme e fumoso complesso grigio-nero, la cui presenza creava un corto circuito nell’amenità del paesaggio collinare. Era un addetto alla confezione dei tessuti, un lavoro ripetitivo, che lo condannava alla monotonia cerebrale. Sacchi, scatole, imballaggi. Sacchi, scatole, imballaggi. Sacchi, scatole, imballaggi. Otto ore al giorno coinvolto in questa ritmica litania. Il lato tragico dell’efficienza fordista.
Aveva sempre pensato al suo lavoro come un’occupazione frustrante e avvilente. Provava invidia per i suoi colleghi che svolgevano mansioni a suo dire più interessanti. Martini riparava le macchine, Agostinelli guidava i camioncini delle consegne, Correnti rispondeva al telefono. Negli anni aveva covato un sottile rancore nei confronti del suo capo, che mascherava sotto ipocriti gesti ossequiosi e sorrisi simulati. Un teatro imposto per la sopravvivenza. Sapeva infatti che la fabbrica era ciò che gli permetteva di andare avanti. Grazie ad essa pagava il mutuo della casa e provvedeva alle necessità basilari della vita familiare. Il macabro paradosso di dover benedire ciò che ti sta lentamente annientando. La famiglia per lui era la cosa più importante. Aveva sempre fatto tutto in funzione di essa. Sua moglie rappresentava l’epicentro di ogni sentimento che lo riguardava. Si erano conosciuti da adolescenti e sposati molto giovani, ma gli anni non avevano mutato il sapore della loro passione. Da quando lei era morta, Aaron aveva smesso di sentirsi umano. Era diventato una silhouette vacua, privo della solidità dell’organismo vivo. Il giorno della morte della moglie era fissato in modo indelebile nella sua memoria. Aveva ricevuto una chiamata. Due squilli. Il telefono era vicino. Una voce bassa e autoritaria lo aveva avvisato del decesso, dichiarandosi vicina al lutto. L’apparecchio elettronico gli era caduto di mano. Apnea dei sensi. Da quel momento, il giro di boa. Quando Aaron passò con l’auto davanti all’abitazione di Atanasio, sbirciò – come di consueto – in cerca di tracce umane. Fino ad ora non si era mai avvicinato. Aveva sempre osservato a distanza. Un po’ inibito, timoroso di rovinare tutto. C’era sempre qualcosa che lo bloccava. Qualche dubbio, qualche pensiero di troppo, qualche paura apparsa all’improvviso. Stavolta, però, aveva deciso diversamente. Stavolta lo avrebbe fatto. Vide Atanasio aprire la porta e uscire in strada. “Dove te ne vai, brutto stronzo?” mormorò tra sé. Lo osservò con attenzione. Alto, spalle larghe, barba corta e ben curata. “Che faccia insignificante. Una faccia insignificante che è riuscita a causare tanto male” pensò.
Seguì Atanasio in un negozio di fai-da-te. Si trovò attorniato da centinaia di utensili di varia forma e funzione, molti dei quali a lui sconosciuti. Ordinati scaffali multicolori che custodivano le chiavi del sapere del dio Vulcano. Lui non era mai stato bravo nei lavori manuali. Una volta aveva provato a costruire una libreria, ma il risultato era stato scarso. “Misurazione errata”, era questa la giustificazione che si era dato. Lo scheletro di quel tentativo fallito si trovava ancora nella sua soffitta, dimora temporanea dei topi che vi abitavano. Aaron scorse Atanasio nel reparto ferramenta. Si avvicinò cautamente, giungendo a pochi passi da lui. Sentiva l’odio fremergli dentro. Aveva il viso stravolto, con le vene del collo prossime all’esplosione e le tempie pulsanti. Una maschera grottesca e irriconoscibile. Ad Atanasio cadde la scatolina di chiodi che teneva in mano. Un rumore di ferrei sonagli risuonò nel silenzio del locale semi-vuoto. Aaron si piegò e la raccolse. Si guardarono negli occhi. “Tenga”. “Grazie”. Per Aaron fu la pietrificazione della Medusa. Rimase stordito e tremante. Aveva immaginato l’interazione con
Atanasio innumerevoli volte nella sua testa, ma viverla era stato tutt’altra cosa. Detestava quell’uomo. Era responsabile di avergli portato via la cosa più importante. Lo avrebbe presto punito. Quel giorno stesso. Aveva deciso. Doveva solo attendere l’occasione giusta.
Aaron restò a sorvegliare Atanasio per tutto il resto della giornata, pregustando il piacere di averlo in suo potere. Gli avrebbe fatto chiedere ‘perdono’ e poi l’avrebbe ucciso. Non meritava di vivere. Anche quella sera, come tutte le sere, Atanasio uscì per una passeggiata nei vicoli del centro storico. Aaron gli andò dietro. Raggiunsero l’imponente torre normanna, svoltarono all’angolo della vecchia palazzina pericolante, oltrepassarono la piazza del mercato, ancora lercia dei residui delle attività giornaliere. Un percorso che Aaron visse coi sensi all’erta e l’impazienza di un pittore dinnanzi a una tela bianca. Era impacciato, faticava a controllarsi. Stava giocando una dura partita a scacchi con il suo autocontrollo. Allungò il passo senza accorgersene, irrequieto e bramoso di compiere la sua impresa. Ad Atanasio non sfuggì il movimento alle sue spalle. Si girò. Lampo mnemonico. Lo aveva già visto. “Che vuoi da me? Eri al negozio oggi. Mi stai seguendo?” chiese Atanasio. “Mi hai distrutto. Mia moglie è morta a causa tua. Eravamo felici. E tu mi hai portato via tutto”. La risposta di Aaron spiazzò Atanasio. Sbarrò gli occhi. Non poteva credere di essere stato scoperto. Com’era possibile? Aveva preso tutte le precauzioni. Era sempre stato attento. Non aveva lasciato indizi. Aveva progettato ogni omicidio con precisione. “Stai sbagliando persona” provò a mediare Atanasio. “No, sei colpevole”, rispose Aaron tirando fuori una pistola dai pantaloni. Lo sguardo alienato e ossessionato di Aaron convinse Atanasio della fermezza delle intenzioni del rivale. Capì che stava per morire. Immaginò l’omelia del suo funerale senza partecipanti.
– “Pagherai per il male che hai fatto” proseguì Aaron.
– “Cos’è il ‘male’? E il ‘bene’? Esiste forse un confine preciso?”
– “Sei un mostro”.
– “E tu sei il mio riflesso”.
– “Io non sono come te. Io faccio giustizia”.
– “No, tu fai il giustiziere”.
– “Sta’ zitto” urlò Aaron con la fronte inumidita dal sudore e le lacrime agli occhi. “Mia moglie è morta. Soffocata in pochi minuti” continuò.
– “Come mi hai trovato?” chiese Atanasio.
– “Astuzia. Non è stato difficile”.
– “Ero certo di aver fatto un buon lavoro…”
– “…hai fatto un lavoro di merda invece. Quando facevi il commesso nel negozio di elettronica sulla statale, hai venduto una stufa a mia moglie. Aveva un difetto di fabbrica. Con quella stufa mia moglie è morta. Fuga di gas. Intossicazione da monossido di carbonio, hanno detto. Gas inodore. Non si è accorta di niente, dormiva. È stata tutta colpa tua. Per mesi ho pensato alla mia vendetta. Sono andato al negozio e ho chiesto di te. Kraustovski. Cognome insolito dalle nostre parti. Mi è bastato cercare nell’elenco telefonico per avere il tuo indirizzo”.
Un rumore improvviso di sirena interruppe il folle monologo di Aaron. Atanasio approfittò del momento di distrazione e si mise a correre in direzione di quel suono. Colpi di pistola riecheggiarono a vuoto dietro di lui. Un chiasmo di membra annaspanti delineava il suo movimento frenetico, mentre gli edifici sfrecciavano ai lati della testa. I polmoni in riserva di ossigeno. La vista annebbiata per lo sforzo della fatica muscolare. Raggiunse l’auto della polizia parcheggiata poco distante. “Mi aiuti, la prego. Un pazzo vuole uccidermi. È fuori controllo”, disse trafelato. “Non si preoccupi, ci pensiamo noi” rispose in tono rassicurante l’agente. Atanasio riprese fiato e si sedette sui gradini della chiesa. Ce l’aveva fatta. Sistemò i risvolti della giacca, passò una mano sui pantaloni per assicurarsi che fossero perfettamente senza pieghe, girò il cinturino dell’orologio più volte, finché non fu pienamente soddisfatto dell’inclinazione. La placida aria della notte si colorava della tenue bellezza dell’aurora, mentre gli agenti portavano via Aaron ammanettato. Atanasio li guardava sogghignando. “Che idioti” pensò.
Un inattesa perla noir con il suo ingranaggio a tempo asciutto, ben costruito e non simpatizzante con gli esiti buonisti. Brava
Bravissima Claudia, che racconto convincente e completo. Sembra quasi aver letto un libro intero compensato in modo fantastico con una scrittura ipnotica che non ti permette di distrarti. Ancora brava davvero.
Il genere richiede un’intelligenza machiavellica che in Inodore non manca! Bello il titolo, bello il nome Atanasio con quello che significa. Inodore è un orologio che non sgarra di una battuta. Un racconto godibile al 100%.
Il genere richiede un’intelligenza machiavellica che in Inodore non manca! Bello il titolo, bello il nome Atanasio con quello che significa. Inodore è un orologio che non sgarra di una battuta. Un racconto godibile al 100%.
Ho pasticciato con la tastiera e ho inviato due vuole, chiedo scusa.
ok non è la mia giornata: volevo dire due volte.
“Inodore” dice il titolo come lo è il male? che nasce si sviluppa e si propaga senza lasciare “odori?”
Non si può non essere d’accordo in fondo il male e il bene non hanno sapore e in questo si assomigliano. I due protagonisti agiscono spinti ciascuno da queste molle e come in un gioco tragico e sadico si incontrano si avvicinano e uno dei due con diabolico sarcasmo alla fine alla meglio ed è il male a vincere questa volta. UN racconto pieno di dettagli utili a sottolineare caratteri e sfondo in cui si muovono i personaggi. Interessante.