Premio Racconti nella Rete 2017 “Laggiù laggiù, da qualche parte” di Luigi Lorusso (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Zquod era in camera sua da poco più di un’ora. Aveva già ripetuto a memoria tutte le filastrocche che conosceva, si era tolto lo sporco dalle dita dei piedi e si era affacciato tre volte alla finestra a contare quante lune c’erano in cielo quella sera: dodici. Mancava la sua preferita però, R’Ziat, quella tutta storta con la faccia che sembrava un frutto dell’albero del cocco verde.
Quella mattina la maestra aveva spiegato quand’è che esce: «R’Ziat si leva all’orizzonte ogni tre rotazioni ellittiche nella nube di Ozkar». Zquod aveva alzato una chela per dire che non aveva capito, ma per sbaglio aveva colpito il compagno che gli stava davanti che per il dolore era diventato subito blu, così la maestra si era messa a gridare e gridare e gridare: «Zquod! Zquood! Zquoood!» e più gridava e più le si ingrossavano le antenne sulla testa che si facevano dritte dritte, che un po’ a Zquod gli facevano ridere, ma per la sgridata diventava sempre più piccolo, ché le antenne e le chele gli si ritraevano dentro.
Poi quando la maestra si era calmata e aveva di nuovo le antenne curve lo aveva chiamato e gli aveva fatto un lungo discorso di cui Zquod ricordava le parole “civile” e “sebbene”, Zquod non sapeva precisamente cosa volesse dire “sebbene” e glielo voleva chiedere ma pensava che poi lei si arrabbiava e così rimaneva con le antenne basse e le chele ritratte. Che forse, pensava, a mamma e papà non glielo diceva. E invece no.
«Naturalmente dovrò avvisare i tuoi genitori».
E no!
Subito gli si drizzò l’antenna, e la maestra aggiunse: «Qualcosa in contrario?».
«Ma io non l’ho fatto apposta, uffa!» non riuscì a trattenere Zquod e la maestra ricominciò: «Zquod! Zquood! Zquoood! Per poco non accecavi il povero Gnit che è così buono, lo vedi che è lì che piange?».
“Per forza” pensò Zquod “quello è un nano e un piagnone” però non lo disse. Ma le sue antenne restarono dritte.
Una settimana a ripulire il giardino di casa gli era costata, quella nota. Una settimana senza ricreazione, con i compiti aggiuntivi e senza l’ora di stanza dei sogni. Ma soprattutto un mese senza laboratorio.
«Per piacere mamma, mi metto da una parte e ti guardo e basta, per piacere per piacere per piacere!»
«No, Zquod, se non sai essere abbastanza responsabile da evitare di infastidire la tua maestra non puoi neanche avere a che fare con un laboratorio scientifico federale».
«Ma per piacere…»
«Ho detto no, Zquod».
«Per…»
«Basta».
La mamma di Zquod aveva inarcato la coda squamosa fino a rivolgergli la punta contro. Era il segnale che doveva battere in ritirata.
Un mese senza il laboratorio. La mamma di Zquod era una delle scienziate più scienziose di tutto il pianeta e il suo laboratorio era meglio di tutte le giostre virtuali che facevano impazzire i compagni di classe di Zquod: c’erano telescopi galattici che facevano vedere tutti i pianeti distanti milioni di anni luce, anche se sembravano solo puntini e Zquod pensava sempre che sarebbero apparsi degli animali strani e antichissimi, perché la mamma gli aveva spiegato quella cosa che se guardava una cosa lontana ma proprio davvero troppo lontana allora non si vedeva com’era ora ma come era in un tempo veramente troppo vecchio; poi c’erano i microscopi per vedere i mostriciattoli; poi c’erano gli amici di mamma che lo facevano ridere, perché sua mamma era il capo lì e tutti volevano essere simpatici al figlio del capo; poi c’era che si mangiavano sempre cose buone, perché erano tutti scienziati e nessuno si poteva mettere a cucinare e allora si mandava sempre uno studente a prendere il cibo della mensa che si mangiava sui vassoi, ma tutti in piedi perché non si potevano fermare a mangiare.
E al laboratorio vicino a quello di mamma c’era uno studio di esperienze vitali, che gli avevano detto che lui ancora non le poteva fare che era piccolo, ma quelli che ci lavoravano stavano sempre con la testa per aria e le antenne che giravano da tutte le parti e solo a guardarli a Zquod gli sembrava di girare tutto lo spazio della galassia e sapeva cos’è che voleva fare da grande e intanto riempiva quaderni su quaderni di esperienze vitali che avrebbe realizzato per i suoi compagni e glielo raccontava tutte le mattine, almeno fino a quando la maestra non gli avesse detto: «Zquod, basta fantasie, è ora di tornare sulla terra!».
Un mese senza il laboratorio. E magari tutto il pomeriggio a casa con papà, che provava a fargli piacere lo sport più diffuso del pianeta: buttarsi un cono di gomma da una parte all’altra provando a non farlo prendere all’avversario, ma senza toccarlo con le chele.
Noia.
Un intero pomeriggio davanti a sé, per Zquod stava diventando interminabile.
D’un tratto, l’illuminazione: «Mamma, devo venire per forza al laboratorio. Ho lasciato la pomata per le mie squame irritate».
«Va bene, vieni, prendi la tua pomata e te ne ritorni in camera tua».
Il laboratorio era nello stesso edificio della casa di Zquod. In realtà, quasi tutta la città era su un unico edificio, e per raggiungere ogni luogo ci si metteva in flussi di aria corrente velocissima che ti risucchiavano dove volevi. Se andavi di fretta. Ma Zquod voleva prendersela con tutta calma, così fece una lunga passeggiata, e lo divertiva un sacco vedere tutte quelle persone trascinate dall’aria e imitava le loro espressioni buffe e li salutava e gli faceva le smorfie attraverso la superficie trasparente che li separava.
Arrivò al laboratorio quasi a malincuore. La mamma quando lo vide mise su un’espressione severa, ma Zquod se ne accorse che le scappava un sorriso, allora mise le antenne più curve che poteva ma con la punta in su.
Era una mossa che aveva ormai perfezionato e la mamma non sapeva resistere: «Ok, resta un po’ qui in giro a curiosare. Dieci minuti, non di più».
Dieci minuti. Doveva agire rapido e preciso. Quella porta che era sempre chiusa. Erano tutti chini sui loro strumenti. Doveva essere silenzioso e astuto. Chele basse e antenne all’erta. Sgattaiolò come un gambero del cielo, l’animale più sinuoso del pianeta e si intrufolò dentro invisibile neanche fosse una cometa supernana della costellazione di Znort.
Zquod vide un cartello luminoso che si accendeva e si spegneva a colori cangianti. C’era scritto: “Non entrare per nessun motivo, non sbirciare e non raccontare niente a nessuno. Qui è tutto supersegreto”.
Zquod si sentì come gli sportivi che guardava suo papà nel bucovisore, quando ringraziano i genitori, la fidanzata e tutti i loro tifosi perché hanno vinto la megacoppa spaziale. Lui era là. L’ologrammatore telepatico interstellare. Bastava indossare le cuffie e in un microsecondo ti mettevi in comunicazione con un essere di un pianeta che stava laggiù, laggiù, da qualche parte dietro la stella di una galassia vicina a forma di latte versato. Era un progetto segreto, ma aveva sentito la mamma che ne parlava a cena. Ci pensò ancora un secondo, poi lo prese, abbassò i tentacoli della testa e, tremando un po’, spinse il pulsante e in attimo…
Pietrino era in camera sua da più di un’ora. Aveva già ripetuto a memoria tutte le filastrocche che conosceva, si era tolto lo sporco dalle dita dei piedi e si era affacciato tre volte alla finestra a vedere le auto che facevano i testacoda sotto lo spiazzo di casa sua.
Un mese senza Playstation, perché quel fesso del suo compagno si era messo a frignare quando la maestra li aveva scoperti a buttare le miccette dalla finestra.
«Se ci scoprono, tu continua a dire che non siamo stati noi. Anche se ci hanno visti, anche se stiamo ancora con le miccette in mano, tu continua a dire con tutta la forza che non siamo stati noi. Alla fine ci crederanno».
Un minuto, aveva resistito quel nano.
E ora Pietro era lì, in quello stanzino buio e noioso.
Ma a un tratto avvenne qualcosa.
Una luce all’improvviso e una specie di fitta alla testa, poi sentì una voce, come da lontano: «Ciao, mi chiamo Zquod. E tu?».
Pietro si guardò attorno, poi lo vide, dalle antenne alla coda: un essere di vari colori che assomigliava a un incrocio tra un iguana, un polipo e un orsetto, alto quanto lui.
«Pietro».
Un attimo di silenzio.
«A che giochiamo?» dissero poi Pietro e Zquod insieme, nello stesso momento.
L’ologrammatore telepatico interstellare funzionava. Il primo contatto era stato stabilito.
Un racconto super galattico che vola alla velocità della luce! Mi è piaciuto tutto quanto, tanto tanto, e sono certa piaccia a bambini e ragazzi.
E alla fine penso: tutto l’Universo è paese… che bello!
Bravissimo, Luigi.
Stile interessante.