Premio Racconti nella Rete 2017 “Suicidio metafisico” di Paolo Ferrante
Categoria: Premio Racconti nella Rete 20174 ottobre 2049
P è sempre stato considerato un bambino triste. Non sapeva con esattezza se lo fosse realmente, ma fu il mantra che accompagnò la sua infanzia. Come anni dopo, a scuola, il ritornello “è bravo, ma non si impegna”, risuonò all’infinito; così parenti, amici, amici dei parenti, conoscenti collettivamente decisero (pare che da piccolo abbia accarezzato l’idea del complotto), di legargli al collo questa sentenza: “Che bel bimbo, e quanto è intelligente…ma perché quegli occhi tristi…?” oppure “Ma che bel figlio! – e sottovoce ma non troppo – certo non fa mai un sorriso… – e di nuovo urlando – P, bello di zia, me lo fai un bel sorriso?”. P, che così triste a 6 anni proprio non avrebbe potuto esserlo, cos’altro avrebbe potuto imparare se non fingere e alienarsi? Sorridere e pensare ad altro per evitare la tortura di quegli idioti che pur di dire la propria rovinerebbero la vita dei propri di figli.
Fingere e alienarsi, già. Gli dava prurito e fastidio ammettere che le intuizioni più illuminanti su se stesso fossero venute da questo passato, anche se, sì, ancora non ci capiva molto. Ma ripercorrere archeologicamente il percorso che gli ha fatto affinare questi talenti, forse i principali che possedeva, inaugurò in qualche modo la sua vita adulta, le prime paranoie, le prime domande esistenziali.
Era dai tempi di scuola che un complesso lo perseguitava; da quando, al secondo o terzo anno di liceo, anche gli esami di terza media cominciavano a sembrare storie di una vita precedente, scoprì cosa fosse l’ansia da prestazione; ogni qual volta un momento amarcord scatenava l’emotività dei suoi compagni non poteva non sentirsi diverso, peggiore, almeno più stupido della media. Non condivise quell’emotività, non per apatia come aveva voluto credere per anni, ma perché lui, quei ricordi, non li aveva! Non negò mai che scavando bene qualcosa da raccontare c’era, come non negò neanche di avere seri dubbi sull’autenticità di quei ricordi: sono ricordi reali, o un semplice riflesso, imitazione di ricordi altrui? O ancora semplice intuizione logica di come poteva essere stato?
Il problema che lo affliggeva, mi spiego meglio, non fu mai la mancanza di vita vissuta, di esperienze fatte: era certo di aver vissuto non così differentemente da qualunque bambino della sua età/nazionalità/estrazione sociale. Il fatto è che non ricordava quasi nulla.
Da che intraprese questo lungo viaggio dentro se stesso (anche quest’inizio è di difficile datazione, per lo stesso motivo), le ipotesi che si alternarono nelle notti bianche adolescenziali furono innumerevoli. Credette di doversi sottoporre a studi neurologici specialistici, visto il malfunzionamento della sua memoria. Si credette anche il più sfortunato degli esseri di questo mondo, che la propria vita facesse schifo e fosse certamente colpa di Dio, che sarà anche stato generoso con la dose d’intelligenza, ma si deve essere scordato la memoria…ma vabbé, alla fine poco importa. Oppure ritenne del tutto inutile ricordare quelle stronzate, in fondo lui era superiore..pensava ad adesso, al futuro, all’insieme!
Insomma serie infinite di banalità e paranoie, comuni e non, si affacciarono nella sua testa fino a poco tempo fa, fino a quell’illuminazione. Di cui forse ora dovrei scrivere un po’ più a fondo.
Stava scopando con questa ragazza: una bellezza sporca e una sensibilità arrogante l’avevano attratto sin da subito, da quando da amici si beccavano in giro, nei pub, alle serate, nelle strade. Si erano incontrati poi solo quando, una sera di alcolismo come tante, la -esima tequila squarciò il velo di pudicizia e si saltarono addosso. Per qualche mese, inevitabilmente, la cosa funzionò: si divertirono, fino alla Prima Illuminazione.
PRIMA ILLUMINAZIONE
Stavano scopando, appunto, una sera dopo una classica serata x di un’estate y in un posto z. P era meno ubriaco del solito, e sin da quando entrarono a casa di lei desiderò essere altrove. Ma, come spesso gli accadeva, si rimproverò di essere un coglione e si impose di vivere il momento, perché era quello in fondo il modo per evitare la noia in fondo, no?! Farlo di momento in momento, non dargli tempo di sopravvenire, non fare il depresso. Mentre questi pensieri accompagnavano la svestizione, poi i preliminari, l’amplesso, la canna, ecc… una vertigine fortissima lo colse impreparato quando l’occhio si fermò su l’immagine dei loro corpi nudi sullo specchio dell’armadio: “è la canna, solo uno svarione”, riuscì ad articolare come scusa, di getto, ne fu soddisfatto e se ne convinse. Ma solo per poco. Appena un paio di ore dopo dubbi lancinanti cominciarono a insinuarsi tra le pieghe di questa artefatta convinzione. Gli era sempre piaciuto farlo davanti agli specchi, aveva sempre creduto essere in sé una discreta propensione all’esibizionismo, eppure questa volta si era spaventato. Perché mai? Era solo la sbronza? O che? La notte insonne e ubriaca fu meno prodiga di risposte del solito, ma la mattina seguente tutto gli parve evidente. Si sentì uno stupido e tutto il giorno giocò con se stesso a fare l’avvocato del diavolo, ma alla sera era ormai sicuro, eccitato per la nuova scoperta come un bambino al primo bagnetto, o un intrippato al sorgere del sole: si stava osservando dall’esterno, aveva visto due persone scopare, e lui non era nessuna delle due. La conclusione: non gli mancava la memoria, aveva solo vissuto due vite distinte, e una delle due aveva decisamente preso il sopravvento sull’altra, senza che lui si rendesse realmente conto delle difficoltà della coabitazione.
In questa nuova teoria, una era quella fisica, quella che fanno tutti i bambini: mamma e papà, la scuola, gli amici, le sbucciature, la pizza con la nutella e così via. E una era, diciamo, metafisica, nella sua testa. Ma di questa dirò poi (in fondo il vincitore dello scontro merita più tempo e calma).
Nella sua vita fisica, che dai 3 anni ad oggi si potrebbe tranquillamente risolvere in una cronologia degli eventi, era sempre stato passivo. Pur credendo l’opposto. Non aveva mai davvero scelto qualcosa invece di qualcos’altro. Non si era mai sinceramente appassionato di niente. Non aveva mai, forse, amato nessuno (e questo “forse” non era poi così sincero). Si era sempre e solo limitato a, appunto, limitare i danni. Al meno peggio. Al meno faticoso. A trovare un modo per prendere tempo, più tempo possibile da regalare all’altra vita. Non era mai stato apatico anche se poteva sembrare. Non aveva mai scelto il meno peggio per pigrizia, o per ignavia, o non so per cosa. L’aveva fatto come conseguenza scientificamente studiata di una scelta etica molto profonda e complessa, tanto da apparire sfocata, a volte, ai suoi stessi occhi: la ferma convinzione dell’inutilità, o forse meglio dell’inferiorità di questa prima vita rispetto alla seconda. Dell’idea per cui, chiaramente, lo sconfinato campo dell’immaginazione gli avrebbe potuto regalare molti più piaceri di quello, pesante e inevitabile degli eventi, del caso, delle cose così come sono. E che a questo avrebbe dovuto dedicare il suo tempo, il più possibile, a tutti i costi.
Sognare ad occhi aperti piaceri sconfinati lo spingeva a desiderare ardentemente di vivere, ma avere come unico scopo quello di realizzarli non faceva altro che provocare aspettative deluse. Spesso il sogno eccedeva la realtà, e spesso la realtà finiva per costringerlo. E quindi bisognava sognare più forte; proiettare quei sogni oltre i limiti del possibile era l’unico modo per trovare una direzione, una ragione per vivere. Altrettanto spesso però le folate della vita lo facevano deragliare da quella direzione, metterla in discussione, sottoporre le scelte fatte a una feroce autocritica; e il più delle volte anche quelle direzioni si rivelavano aspettative deluse. E daccapo.
Ecco, questo circolo vizioso di paranoie logiche gli fece dimenticare di vivere.
Si allontanò da tutto ciò che era terreno per essere poco più che spettatore della sua stessa vita come fosse quella di un altro, come fosse un film. Viveva da spettatore disattento. Come quei film brutti, la cui bruttezza o vacuità ci risultano evidenti dalla facilità con cui ce ne dimentichiamo. Così si divertiva e intristiva, amava e odiava, si arrabbiava, ma non godeva mai veramente.
Credeva di volere bene a qualcuno al punto da non poterne fare a meno, per poi perderlo e non provare nulla. Piangeva e si disperava per la perdita dei cari, per poi fare i conti con l’indifferenza del proprio animo. Credeva di non sapere chi fosse, e di non essere nulla; e, contemporaneamente, si sentiva molteplice e inarrestabile o bipolare o schizofrenico…
Nonostante tutto, infatti, si era sempre considerato una persona normale, molto normale, forse troppo. E, addirittura, questo complesso della mediocrità potrebbe essere stato tra i più presenti nei suoi pensieri, per molto tempo; finché un giorno, inaspettatamente, forse per il solo fatto di crescere o invecchiare, ebbe la sensazione che la percezione che aveva di se stesso non coincideva più con quella che avevano gli altri. Il normalissimo sé altro non era che un personaggio, un tipo strano. Della pioggia di queste immagini che gli piovve addosso non credo si senta ancora asciutto, ma riuscì comunque a fissare alcuni punti. Sbagliava lui, o era il mondo che non lo capiva? Sfido chiunque a negare di essersi mai posto un interrogativo del genere. Bene, nel suo caso, era lui a sbagliarsi. In effetti, nel mondo che si era costruito attorno non poteva che essere lui stesso, il paradigma della normalità. Evidentemente non era così normale.
Ora, sebbene questi possano sembrare i deliri di un qualunque uomo di questo mondo, piccoli e molto comuni, P rifletté molto sulle enormi conseguenze di un pensiero così piccolo.
Forse sono già finito a parlare della seconda vita, ma proverò a ripartire dallo stesso punto, la memoria. La lunga storia delle stronzate che gli passarono per la testa, a differenza del resto, la ricordava perfettamente. Non ricordava i cartoni che aveva guardato, ma dei pensieri e delle fantasie che ne erano scaturiti potrebbe scriverne un archivio dettagliato. Del divorzio dei suoi genitori ad esempio non ricordava quasi niente, ma ricordava di aver cominciato a temere la solitudine e l’abbandono. Dei natali passati con la famiglia della madre avrebbe potuto farne un quadro, un’immagine stampata di luoghi comuni tanto faticava a trovare anche solo degli aneddoti da raccontare; ciononostante poteva affermare con assoluta certezza che gli avevano fatto iniziare a far pensare alla morte. Come se l’alone di tutti i morti precoci della famiglia gli avesse fatto percepire come necessario prepararsi da subito all’eventualità. A 12 anni cominciò a prepararsi ad una morte precoce. E se per anni ci rise su, cinicamente, adesso si rendeva conto che, forse e solo forse, potrebbe questa essere stata una delle cause della sua totale incostanza e incapacità di progettare. Pensava a quanto dei rituali natalizi presi con leggerezza avevano potuto marchiarlo. Non li avrebbe mai perdonati.
….e giusto mentre rifletteva della morte un pensiero lo affascinava… se davvero era pronto, se davvero, come credeva, aveva più paura di un calabrone che della morte, perché non uccidersi? Perché non uccidere almeno una parte di se stesso? Sapeva da sempre di vivere due vite, e che una lo dominava quindi…in fin dei conti privarsi della vita metafisica sarebbe potuto equivalere a un tirannicidio? Spezzare il dominio e liberarsi?
SECONDA ILLUMINAZIONE
(10 novembre)
Equilibrio. Era questa la parola chiave. Credeva bisognasse sempre trovarlo, cercarlo, anche perderlo ma ricercarlo, subito dopo. Faceva davvero fatica a definirsi, ad accettare di vedere le cose da un solo punto di vista. Ogni volta, ogni cosa, ogni scelta gli appariva differente in base al momento in cui la sua riflessione ci si soffermava. Era quindi schizofrenico? O aveva un disturbo della personalità? A volte il dubbio gli era venuto. Altre gli bastava guardarsi intorno per percepire un empatia debordante, spesso muta, non articolata in parole, ma sempre presente. E quindi non era il solo. C’erano tantissimi schizofrenici disturbati o semplicemente tutti, in qualche forma, percepivano questa molteplicità di sensi nella propria vita? Gli sembrava molto più ragionevole la seconda. Il buon senso, aveva letto una volta, non è altro che un’interpretazione di un processo attraverso un punto di vista, un senso, unico e ben definito. E allora vaffanculo al buon senso! Al diavolo, perché avrebbe dovuto complicare ancora di più la sua già complicata vita nello sforzo di adeguare la sua visione del mondo a un senso unico e ben definito, a un minimo comune denominatore del tutto irrealistico. La molteplicità dei sensi, e l’accettazione dell’inevitabilità di questa, era finalmente l’unico modo per concepire delle categorie, per farsi un’idea plausibile, si ripeteva. E questo andava portato all’estremo. Assumendo la molteplicità non avrebbe potuto non assumere la contraddittorietà. Cioè se sono così tanti, alcuni si scontreranno, pensava. Così, con un po’ di presunzione e arroganza, che lo contraddistinguevano, arrivò a pensare e capire delle cose di sé. C’erano stati momenti in cui la presunzione lo aveva sopraffatto tanto da sentirsi infallibile, e altri in cui aveva dubitato così fortemente di sé da mettere in crisi qualunque cosa in cui avesse mai creduto. E allora perché un pensiero così contraddittorio avrebbe dovuto metterlo in difficoltà, generare paranoie quando poteva accettarlo, e concentrarsi sui risultati a cui questi opposti lo avevano condotto. Bene quindi, bene la presunzione a volte, se altrimenti sarebbe sprofondato nel sentirsi inutile; e ancora meglio la mancanza di autostima, se lo metteva in crisi e stemperava la presunzione del sentirsi meglio degli altri.
Insomma, finalmente, sapeva cosa fare. Il problema non era zittire quella voce martellante che da sempre lo accompagnava; il problema era spezzare il ciclo e invertire il flusso. Capì tutto d’un tratto che “sentirsi inadeguato e agire di conseguenza” era l’anello da rompere e analizzare. Ok, la sensazione di inadeguatezza esisteva, ed era inestinguibile certamente nella temporalità dell’oggi e del domani; ma mai si era soffermato sui grandi Perché. Non i propri, non quelli che necessitano di una intensa attività introspettiva per essere compresi, bensì quelli tutto intorno. I perché che valgono per tutti, che fanno sentire tutti inadeguati a qualcosa, indipendentemente dalla capacità di affrontarli portando a casa la vittoria. Leggeva il giornale, alla pagina dei fatti di cronaca, mentre questi pensieri affollavano la sua testa e una notizia lo colpì – possiamo affermare che la interpretò come un segno messianico. Un giovane precario si era suicidato. E lo aveva fatto non prima di dare al mondo un calcio ben assestato nei testicoli – in forma di lettera. Non la depressione, o meglio si, anche quella, l’aveva spinto a tanto; ma la sua stessa vita quotidiana, fatta di quelle che a P parvero incredibilmente familiari umiliazioni e consuetudini. Ed ecco la Seconda Illuminazione: spodestare la vita metafisica dal dominio di sé. In termini più chiari lo avrebbe detto in questo modo: basta paranoie su sé stesso, bisognava spostare l’attenzione sui dove, sui come, sui “con chi”. Non valeva più la pena scervellarsi sulle proprie reazioni e rielaborazioni psichiche dei propri comportamenti o non comportamenti. Bisognava guardare più a fondo nella direzione opposta. Che la solitudine dei tanti sé stessi era stata il problema. Capire se ciò che in maniera così complessa avveniva nella sua testa potesse trovare riscontro in qualcun altro, anche solo un po’. E così non ci volle molto prima che incontrasse delle persone con cui avrebbe avuto voglia di passare del tempo, altre di cui si sarebbe potuto innamorare, con cui avrebbe potuto parlare o giocare o scopare…
TERZA ILLUMINAZIONE
Ora, da questa terza illuminazione ci si potrebbe forse aspettare un’inversione di tendenza; ma forse le aspettative potranno essere deluse.
Sarebbe facile farsi trasportare dai piaceri di questo climax della coscienza, e raccontare una storia di riscatto e riscoperta, di gioia di vivere, amori appassionati e delusioni che fanno crescere. Altrettanto lo sarebbe far riemergere il “pazzo” e giustificare i successivi avvenimenti.
Quello sguardo sul mondo, che aveva fatto aprire gli occhi a P, e lottare e guadagnarsi una vita migliore, era un avversario subdolo e paziente. Quello che della vita di P è stato taciuto è infatti molto; quello che la sua memoria ha scelto di oscurare sono oltre 40 anni di schiavitù sotto forma di una vita di precarietà profonda, esistenziale insicurezza.
40 anni sognando di fare cose mai fatte o un figlio o magari due, di avere il tempo di vivere.
Perché P è stato in qualche modo fortunato, ha visto un’altra possibilità. Ma l’ha vista tardi, riflettendo sulle cose passate da un letto scomodo con le pareti bianche. E la cosa giusta da fare gli è sembrata togliersi la vita, con l’orgoglio di non volere continuare a sprecarla, non potendo ormai cambiare le cose.
Ma P è stato anche sfortunato, non perché qualche entità metafisica si sia accanita sul suo destino, ma perché non ha incontrato nessuno. Non ha incontrato nessuno per colpa sua, certamente non era il più forte o il più socievole degli esseri umani. Eppure io ero lì, ero talmente lì da aver potuto raccontare questa storia così dettagliatamente. Ero lì a essere d’accordo con i suoi deliri di inadeguatezza ed ero lì a guardarlo sprofondare. E sono qui, troppo tardi, a rendermi conto che siamo stati soli, pur essendo fianco a fianco.
Paolo,
appassionante ed incalzante questo “intreccio di vite” che scivola via tra il fisico, il metafisico e l’alienazione.
Per immaginazione e stile mi ha riportato alla mente qualche racconto di Palahniuk.
Bravo davvero.
Grazie mille, non avevo pensato a Palahniuk in effetti, grazie dello spunto che mi ha fatto venire voglia di rileggerlo.
Non riuscivo a pensare oltre Dostoevskij.