Premio Racconti nella Rete 2017 “Di sabato sera” di Fiorella Corrado
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Lo guardai scendere dal taxi, pagare e percorrere la strada a piedi fino al civico di casa mia. Da sopra aprii il portone per non sentirne la voce attraverso il citofono. Calcolai i minuti che avrebbe impiegato salendo le tre rampe di scale, e attesi. Non ci vedevamo da parecchi mesi e, considerati gli incontri precedenti, ero decisa a fare del mio meglio per evitare di aggiungere un’altra pagina nefasta all’album della nostra storia. Avevo provveduto in anticipo alla spesa e acquistato cose che potevano essere di suo gradimento. Oltre a un DVD e una bottiglia di vino rosso. Mi guardai allo specchio ancora una volta e lo sentii bussare. Dal primo al secondo squillo trascorse un po’, forse un minuto. Lo stesso tempo che percorsi io passando dall’eccitazione ad un risentimento, il solito, che oramai non stentavo più a riconoscere. Mi precipitai alla finestra. Il cielo era azzurro pastello con sfumature rigonfie di un grigio rossastro più intense all’orizzonte: sembravano criniere di leoni dormienti pronti a svegliarsi da un momento all’altro. <<Pensavo di non trovarti in casa>>, disse lui quando aprii la porta. <<Mi pare avessimo un appuntamento>>, feci io. Avvertii subito l’entità della mia ambivalenza. Non capivo cosa mi rendesse tanto irritabile quando non ce n’era motivo. Mi dispiaceva talvolta, come adesso che mi abbracciò e sorrise. Il viso cereo e i capelli radi gli restituivano un’aria un po’ trascurata. Gli presi la giacca. Emanava l’odore tipico di certi uomini a cui manca una moglie: era impregnata di puzza. Feci segno di lasciarla lì nell’ingresso insieme al borsone. Annuì e tolse via una bottiglietta d’acqua e poi qualcosa di infiocchettato che aveva tutta l‘aria di un regalo. << E’ per te. Per il tuo compleanno>>, disse. Risposi che era in anticipo. Oppure in ritardo di un anno.
Ci accomodammo in cucina. La camera da letto era troppo intima e il salone, un interregno a volte utile, non era contemplato in quei quaranta metri scarsi di casa. Ripensai alla solenne formalità della sala da pranzo nella casa dove un tempo abitavamo tutti insieme: la televisione accesa in sottofondo come a confondere gli umori, una portata servita dopo l’altra per la paura che il tempo da condividere durasse troppo. Mi parve un’era lontana. <<Come stai?>>, mi chiese. Sedevamo in divano, ai due lati opposti. C’era un sorriso tenero nell’insistenza con cui mi scrutava, come a cercare tracce di un antico candore. Mentre allungò la mano verso le mie sentii contrarre i muscoli della faccia. Feci fatica a rispondere. Mi alzai e dissi: << Vuoi qualcosa da bere?>>. Nel frigo giacevano in fila una coca cola, un succo all’arancio, una confezione di caffè. Richiusi lo sportello e aggiunsi di avere solo dell’acqua. A Roma beviamo quella del rubinetto. Rispose che andava bene così. Erano esattamente le dieci e mancava ancora tanto alla fine della giornata. Maledii il mio senso del dovere filiale. Avrei potuto dirgli di no, d’altronde mio padre ne aveva detti tanti.
Fuori il tempo si era messo brutto e sentivo la pioggia battere alle finestre. Mi rassegnai all’idea di noi due soli e allo sforzo che questo avrebbe comportato. Dissi con un’aria spiritosa e al tempo stesso malevola: <<Gradisci le lasagne? Le ho fatte con le mie mani>>, e le sventolai all’aria con una risata tirata dietro cui cercai di nascondere ogni cosa. Capì il mio imbarazzo, perché sorrise. Ritornò a parlare per chiedermi del bagno. Lo fece con una discrezione tale, la voce sommessa e il tono gentile di un ospite, che mi ferì e irritò al tempo stesso. Sembrava diverso dall’uomo che era. Ripensai alle tante volte a casa. Le urla e i litigi. La prevaricazione. Anche allora c’era un unico bagno. Lo sentii tirare lo scarico e lavarsi le mani. Quando uscì notai la luce dentro accesa, come accadeva un tempo. Pensai che forse, in fondo, non era cambiato poi tanto. <<Ho preso un DVD>>, feci risistemando la toilette. Annuì, ma si capiva avesse piuttosto voglia di parlare. Fu poco dopo che mi chiese se frequentavo qualcuno. Sentii nuovamente un sussulto rabbioso salire a fiotti. Cercai nella stanza qualcosa che mi distraesse e risposi: <<Gli uomini sono i benvenuti nella mia vita, ma non sono indispensabili>>. La voce rauca mi diede la sensazione di essere nuda. Cosa voleva? Mi passò davanti la lista di cose ormai fuori dalla sua cognizione: se la vita mi andava bene come ogni padre si augura; se ero felice; se gli uomini incontrati mi avevano reso tale; se mai sarebbe diventato nonno. Lo guardavo silente e provavo fastidio. In tutti quegli anni successivi alla separazione, quando le strade di ognuno avevano preso direzioni diverse, lo pensavo ad immaginarmi nelle mie giornate da donna. Il lavoro, le amiche, il saluto di un uomo. Avevo trent’anni e ancora ignorava che fumavo. << Ho già abbastanza problemi senza che tu ti intrometta>>, lo dissi e me ne pentii quasi subito. Il tono pietoso da amante ferita aveva permesso che dalla falla che io stessa mi ero procurata l’acqua cominciasse ad entrare anche molto rapidamente. Si era fatta lentamente ora di pranzo. Lasciai che il DVD scorresse con le prime scene della Grande Bellezza.
Gli davo le spalle mentre preparavo da mangiare. Si propose di darmi un aiuto. Dissi di no, senza voltarmi. Versai del sugo in una pentola mentre con un coltello tagliai a fettine il formaggio. Gliene offrii uno spicchio. Lui si era messo comodo. Mangiò con voracità e me ne chiese ancora. Sfogliava un giornale, una copia impolverata di qualche settimana prima. In quel silenzio asfissiante in cui eravamo piombati c’era solo il suo lento e sonoro masticare a scandire i secondi. Come un vecchio dromedario se ne stava seduto alla stessa maniera di sempre. E aspettava, sicuro che qualcuno avrebbe pensato a lui. Quel qualcuno un tempo era lei. Io la vedevo: anche quando guardava il televisore era lì con la sensazione perenne di doversi affrettare. Mi sentii d’improvviso intrappolata in un groviglio mortale di accuse e risentimenti. Mia madre si era caricata di un peso gravoso e tutti noi, lui per primo, avevamo lasciato che fosse lei la sola a portarlo. Lasciai l’acqua bollire e mi spostai nel bagno. Chiusi la porta con forza, volutamente. Mi misi seduta sul coperchio del water e respirai a lungo, profondamente. Rimasi dentro parecchio. Uscendo, sperai in un qualcosa. Non so bene. Avrebbe potuto scolare la pasta che si rivoltava rumorosamente nella pentola. Prendere le posate, apparecchiare la tavola. Spingere stop sul display del DVD. Forse non sarebbe bastato tutto o una sola cosa di queste a ridarmi speranza, ma vederlo nuovamente inchiodato ad una lettura qualsiasi mi provocò una strana reazione. L’inutilità di certi maschi. Ero più simile a mia madre di quanto pensassi: non veniva forse da lei la mia smania di bastare a me stessa? La pasta era scotta. Ne riempii un piatto e lo lasciai sulla tavola. << Se vuoi è pronto >>, dissi. Ritornai al lavello e insaponai le pentole. << Non troverai mai un uomo così facendo >>, ribatté lui. Non gradii. Se era un modo per invogliarmi a parlare di certo non era quella la strada giusta. Poco dopo dissi: <<Credi che tutti abbiano un problema eccetto te>>. Con le mani ancora bagnate alzai il volume del televisore fino a coprire ogni altro rumore. Mentre il film scorreva rividi lo squallore di certi incontri romani e ripensai agli uomini che negli anni avevo trovato. Tutti uguali tranne che per la forma del cazzo. Fui ancora io a parlare. << Adesso per favore mangia e poi vai via di qui>>, lo dissi con le lacrime agli occhi e lasciai che scorressero in abbondanza. Improvvisamente era tutto così ovvio. Improvvisamente eravamo tutti e due vicinissimi alla realtà come mai prima d’ora. Dovette calmarsi anche lui, gli si era stretta la gola. Si alzò, mi venne vicino. Cercò di abbracciarmi. Nella stanza era calata la luce e un rombo di tuoni bassi e prolungati annunciava mal tempo nell’aria. Oltre i vetri, in lontananza fitte di sole squarciavano la coltre nera del cielo. Rimase a guardarmi con un viso bianco e lungo. Mio padre aveva lasciato che io per prima mi perdessi nella mia libertà. Dopotutto la colpa era anche sua.
Mise su dell’acqua in un bollitore. Dal divano lo guardavo mentre apriva un cassetto dopo l’altro in cerca di un infuso calmante. << Non c’è>>, gli feci. <<Come non c’è?>>, disse lui alzando di poco la voce. Riconobbi il piglio di un tempo. <<Scherzavo>>, dissi e indicai con l’indice l’anta da aprire. Mi asciugai le lacrime. Sorrise anche lui. Poi bevemmo insieme una camomilla amara. Lo zucchero davvero non c’era e in quel preciso momento mi resi conto che la mia casa era tutta congegnata per non averci dentro nessun altro oltre che me. Mi chiese di mia madre soffiando intorno all’orlo della tazza. <<Come sta?>>, disse. Mi irrigidii. Non saprei. Era vero. Mi sembrò di non averla mai conosciuta sul serio. Negli anni successivi al divorzio avevamo entrambe evitato accuratamente di indagare dietro la facciata di pietra che abilmente mostravamo. Ripensai al suo viso stanco. Le guance lievemente incavate già ad inizio giornata, come chi era disposto a soffrire tutto il soffribile. Erano ancora le cose meno tangibili a parlarmi di lei. Una parola ambigua detta a me per vendicarsi di lui, un tono di voce che non ti aspetti, così carico di una insoddisfazione tramandata per generazioni. Un’occhiata dura. La risata infantile al primo goccio di vino. Dall’età di vent’anni aveva condiviso con me una certa idea di uomo, tanto da separare il mondo in due precise categorie. Quelli come papà, e poi tutti gli altri. Lui si toccava la barba fitta di bianco, in attesa di un cenno. Cosa era successo? Da dove veniva quell’odio? Eppure, da piccola avevo amato di lui tutto quello che oggi disapprovavo.
<<Perché sei andato via?>>, dissi improvvisamente. la libertà di cui si riempiva la bocca non era forse un alibi per giustificare la fuga dalla monotona stanchezza del matrimonio? Sentivo la rabbia montarmi dentro.
<<In qualche misura c’entri tu>>.
Mi sentii avvampare. <<Non capisco>>.
<< Sono andato via quando ti ho lasciata libera di scegliere che vita fare, e tu hai scelto di andare>>.
<<Stai dicendo che è colpa mia>>.
<<Sto dicendo che eri tu in un certo senso l’asse su cui reggeva ogni cosa>>.
<<Hai ciò che volevi. Essere liberi equivale ad essere felici, non è così? era per sentirmi dire esattamente il contrario.
<<Essere liberi ti consente di scegliere>>, disse.
<<Anche di fare la scelta sbagliata>>, feci io. Pagavo cara la mia libertà, portandomi addosso la paura mortale di fronte alla possibilità di poter fare ogni volta quel che volevo.
<<La moltiplicazione delle possibilità ha in sé il germe dell’angoscia>>, sentenziò lui schiarendo la voce. Riconobbi il tono accademico e lo immaginai in una delle sue innumerevoli conferenze in giro per il mondo. Ripensai alle mie amiche di infanzia. Le sapevo serene nelle loro famiglie, legate agli stessi compagni di banco. Non erano forse più felici di me? <<La comodità non sempre paga>>, disse accarezzandomi il capo. Poi si portò una mano alla fronte, tossì nuovamente. Aveva due solchi scuri intorno agli occhi e il respiro pesante. <<Sono un po’ stanco, è ora che vada>>. Non volle misurarsi la febbre. Avrei continuato a consultarlo come si fa di fronte ad un oracolo. Ed ebbi voglia di un abbraccio, ma non lo chiesi. Guardai il pacchetto regalo in carta lucida rossa stretto in un fiocco di tessuto bianco. Cara figlia. Cominciavano tutte così le lettere che negli anni avevo ricevuto da lui e cestinato con la complicità di mia madre. Non so perché mi venne in mente in quel preciso momento.
Era come se avesse intuito. Al telefono con tre sole parole riuscì a descrivere il suo ex marito nei suoi peggiori difetti. Emanava potere e ricatto affettivo. << Non sta bene>>, le dissi. Quando le chiesi la macchina si propose di venire con noi. Arrivò poco dopo. Si diedero la mano. Avevano tutta l’aria di un agente immobiliare e il suo cliente: distanti ma consapevoli dell’enormità di quanto c’era stato da condividere. La sentii punzecchiarlo sulla giacca. <<E’ un bel colore>>, disse. Tutto questo avvenne sul pianerottolo di casa mia. Una volta saliti in vettura avevamo camminato in direzione dell’hotel dove alloggiava mio padre. Lei gli aveva chiesto l’indirizzo e lui avanzando con la testa tra i due sedili aveva cercato di indicarle la strada. Da come non si era mossa per nulla capii che non accolse il gesto con particolare entusiasmo ma nemmeno si era presa la briga di ridicolizzarlo rimanendo zitta. Disse solo: << Non c’è bisogno>>. Così aveva impostato i dati sul navigatore satellitare. Si era accesa una sigaretta e abbassato il finestrino. Era pieno inverno. L’aria gelida aveva riempito la macchina e io sentii una moltitudine di pelucchi sulle braccia farsi dritti. Pensai a lui, ma non mi girai. Era poi così difficile dire a mia madre di chiudere il finestrino? Invece ero rimasta in silenzio e avevo continuato a voltargli le spalle. Avevamo camminato ancora una buona mezz’ora immersi nel traffico del sabato sera.
Bel racconto. Hai creato una buona tensione, soprattutto all’inizio, quando confesso di aver pensato ad una donna che aspetta un suo ex. Se posso permettermi lavorerei in levare per rendere di più il concetto di sospensione che credo sia uno dei temi. Un rapporto sospeso. Belli i gesti, ma li spiegherei meno. Complimenti
Il lettore ha sempre ragione. Grazie!
Hai descritto così bene la ruvidità del rapporto tra i due personaggi, acuita dal fluire del tempo, che si sente un senso di oppressione nel leggerlo, quasi un groppo in gola. Bravissima!
Grazie Ivana! Davvero!
Fiorella,
il freddo che con gli anni si è intromesso tra padre e figlia si percepisce in ogni lettera.
La distanza, la rabbia, il fastidio ma allo stesso tempo la speranza di essere accettata dal padre rendono il racconto speculare alle realtà di molti figli di genitori separati, che, a ben vedere, reclamano solamente un po’ di considerazione ed affetto.
Molto denso e molto vero.
Brava.
Bene Lorenzo, prendo e porto a casa. Thanks!!!
Una situazione complessa raccontata con perizia. Periodi secchi e brevi. Nessuna concessione. Le anime dei personaggi emergono come se fossero interpretate da bravi attori su un palcoscenico. Il tema è un classico ma “…ogni famiglia infelice è infelice a suo modo ” e secondo me tu hai trovato un mondo particolarmente intenso di raccontare l’infelicità.
Ugo, la tua recensione e’ persino più bella del mio racconto. Chapeau!
Mi piace l’ambiguità di questa attesa che fa pensare ad un incontro amoroso…
Il tuo racconto rende perfettamente la complessità di certi rapporti padre/figlia.
Molto brava, complimenti.
Il tuo commento è’ prezioso. Grazie davvero
vuole dire: un modo particolarmente intenso…
Bellissimo. Atmosfera, ritmo, sottintesi – di rara intensità.
Intenditore
Cara Fiorella,
Ho avuto un problema di connessione per cui ripeto il mio commento positivo! Dall’inizio alla fine mi sono immedesimata nella giovane figlia, non perché abbia vissuto la sua stessa situazione, ma solo perché hai ben descritto sentimenti e gesti. Inoltre, purtroppo, conosco svariate situazioni simili a quella della tua protagonista. Brava! Complimenti
Fortuna che non mi son persa il tuo commento! Brava tu che hai avuto la pazienza di riscriverlo, grazie! Un abbraccio
Fiorella, quanti rapporti familiari non risolti ci segnano l’esistenza? e non basta la volontà e neppure la pietà a superare quella che, io la chiamo così, è spesso l’unica eredità tangibile che ci lasciano i nostri genitori. Rende la situazione.
E’ un racconto amaro, tanto più amaro per il fatto che – nonostante tutto- l’amore che la protagonista prova per il padre è smisurato, come ogni amore tra genitore e figli
Comunque il concetto di eredità tangibile ‘rende’ molto. Grazie a te per il commento pregno di patos