Premio Racconti nella Rete 2017 “Il Giardino” di Linda Traversi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017“Secondo te è uno scherzo?”
“Non so cosa pensare.”
“Tu l’hai mai trovato così?”
“In genere si apre solo per pochi secondi alla volta.”
Mentre P. risponde alle sue stesse domande, I. stringe le spalle. Avvolge le dita attorno al ferro gelido del cancello socchiuso. Prova a spingere in avanti, tira verso di sé. Non si muove di un millimetro.
“Dev’esserci un motivo”, continua P.
“Mmhm”, riflette I.
Tornano a sedersi sulla panchina. Batuffoli bianchi galleggiano nell’aria sparsi fra i denti di leone. I. prova a catturarne uno, ma le sfugge via dal palmo inconsistente.
“Sembrerebbe primavera.”
“Ma chi può dirlo?”
“Qui ogni giorno è differente.”
I. annuisce. Quando comincia la mattina, non si sa mai cosa aspettarsi. Può darsi che sia il giardino stesso a decidere. Vento neve sole. Pioggia ghiaccio nebbia. Le combinazioni sono infinite.
I. tormenta con un piede i fili d’erba. S’impigliano fra le dita nude e le fanno il solletico sulla pianta.
“Bene, mia cara. Ho una meravigliosa avventura da narrarvi oggi!”
I. sospira. Ci siamo.
P. tesse dialoghi, srotola descrizioni, disegna l’uno e l’altro interlocutore, a turno; mentre I. la guarda. Come sempre. Oggi P. ha le sembianze di una dama in abiti ottocenteschi. La gonna drappeggiata sembra che parli anche lei, frusciando di crinolina a ogni movimento delle mani che cadono in grembo. Intanto P. ride lanciando la testa all’indietro, delicata ed elegante, immersa nel personaggio tanto da dimenticare se stessa. Però c’è qualcosa di diverso rispetto al solito. I. la studia per qualche altro minuto. Poi chiede:
“Perché stai seduta così?”
“A cosa vi riferite, mia cara?”
I. non si scompone. La fissa con gli occhi luminosi e aspetta che capisca.
“È che ho pensato questa cosa”, rientra lei nel tempo presente allentando un po’ la schiena, che non è più così dritta.
“Sto sperimentando un nuovo modo di sedermi. In punta di sedia. In questo caso, dovrei dire in punta di panchina. Temo che a essere troppo rilassata mi cada da lingua.” Gli occhi le si perdono nel vuoto per qualche momento. Poi sembra ritrovare la concentrazione.
“Non la lingua che sta in bocca, capiamoci!”, ride, mentre I. la segue con attenzione. “Mi cade il livello dello stile. Se faccio troppo affidamento sulle espressioni usuali, sentite, consolidate, rischio di inciampare nella banalità. Scivolo come su una buccia di banana. Senti? ‘Una buccia di banana’: non è terrificante? Quindi… rischio di scivolare come su uno scalino viscido di pioggia. Meglio, non trovi?” P. ride di nuovo, ancora se stessa. Poi torna seria.
“Mi sono spiegata? Perché la questione è fondamentale. E comunque, a essere puntigliosi, neanche tu sei esattamente seduta in maniera consona.”
I. non ha bisogno di distogliere lo sguardo. È consapevole della gamba destra avvitata sotto l’altra, del bacino curvo sulle ginocchia, dei gomiti puntati sulle cosce. Nello sforzo di parlare ancora si allunga lieve sul baricentro.
“Se è consona oppure no è una questione di prospettiva. E io faccio in modo che sia mutevole.”
“Vuoi dire che scegli di cambiare idea?”
“Anche tu in un certo senso lo fai. Entri dentro le persone e le abiti per il tempo in cui raccontano una storia.” Fa una pausa. Poi riprende, più affilata e precisa.
“Pur partendo da un altro punto di vista, hai comunque intuito che le posizioni conosciute sono anche le più comode. E la comodità taglia la percezione alla radice, la spinge a crescere difettosa. Per esempio, il tuo ‘scalino’. Per te è un semplice blocco di materia che ti consente di spostarti nello spazio. Per me invece è un cubo di linee che si precipitano addosso, se lo spoglio di tutto ciò che contiene di superfluo. Oppure è parte di una scala antica, mangiata dal muschio, che nell’attraversare il temporale diventa una cascata in un bosco disabitato. Sento le spaccature della pietra, la grana della superficie, l’acqua che ci sgocciola dentro. Dipende da come scegli di vedere le cose, o meglio, di vederle ogni volta per la prima volta.”
P. ha la bocca aperta. Da quando si conoscono, non ha mai sentito I. dire tutte quelle parole in fila in una volta sola. Si è a malapena accorta che ha sciolto le gambe per rannicchiarle al petto. Adesso I. tiene il pugno fra il mento e il ginocchio, con la maglia blu che tira dentro i pantaloni corti. Mentre gli occhi sono fermi, le palpebre congelate che neanche più sbattono.
Stanno in silenzio così, fianco a fianco, per secondi, minuti. Riflettono, protette dai cespugli di rose.
“A proposito del cancello aperto”, ricomincia I., e P. quasi si spaventa, perché si era dimenticata di non essere sola in mezzo a quel verde che trabocca dappertutto.
“Può darsi che siamo pronte.”
“Per cosa?” chiede P. con un filo di voce.
“Per uscire.”
“Ma noi già usciamo.”
“Tu non sei mai uscita vestita da nobildonna del XIX secolo. E io non sono mai uscita scalza, portandomi dietro solo le mie posture geometriche.”
P. ci pensa su.
“Per cominciare, potremmo chiamarci col nostro nome per esteso.”
P. annuisce, questo si può fare, pensa.
“Piacere, Parola.”
“Piacere, Immagine.”
Si stringono la mano. Immagine non lascia andare quella di Parola, e la tira fino a sollevarla dalla panchina insieme a lei. Sono di nuovo davanti al cancello.
“Vai prima tu”, dice Immagine.
“No, prima tu”, ribatte Parola.
“Ho un’idea”, insiste Immagine. “Andiamo insieme.”
Rimangono qualche secondo in silenzio, sul punto di nascere.
“E se il mondo là fuori non mi piace?” chiede Parola trattenendo Immagine per un braccio, mentre lei già sguscia tra i battenti.
“Non credo che abbiamo scelta, arrivate a questo punto. E poi, come potrebbe non piacerti?”
Delizioso ed originale. Mi piace molto il tuo racconto.
Grazie Dominique, sono contenta che ti sia piaciuto!