Premio Racconti nella Rete 2017 “Eva” di David Landi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Ero depresso. Avevo chiamato la mia depressione Eva. Ogni volta che uscivo me la portavo dietro e dovevo pagare anche per lei. Ci trascinavamo di bar in bar bevendo per ritrovare il sorriso, ma non ricordavamo in quale locale l’avessimo lasciato.
Eva era molto appiccicosa, mi stava sempre tra i piedi, ma nonostante il suo attaccamento, sono pure riuscito a tradirla. Avevo incontrato una bella tipa in un locale, Valeria, alta, castana, con le misure giuste e la risata facile. Avevo lasciato la mia depressione al bancone ed ero scomparso con lei. Era bella Valeria, con quel suo fisico morbido e infinito di cui avevo esplorato ogni virtù.
Pensavo di essermi liberato di Eva, ma mi sbagliavo. Il giorno dopo qualcuno bussò alla porta. Era di nuovo lei. La feci entrare e accomodare, sono un tipo gentile, io. Si sedette sul divano e iniziò a piangere. Le appoggiai una mano sulla spalla. Ebbe un guizzo, poi fece un respiro profondo e mi guardò con i suoi occhi velati dal tempo. Mi disse che mi perdonava e che non poteva lasciarmi andare.
Avevo provato a ribattere, ma non ero riuscito a essere convincente. Non so resistere al fascino di una donna che piange.
Solo una volta l’ho trovata che flirtava con un altro. Quando la vidi, provai un’intensa fitta allo stomaco. Avrei voluto attirare la sua attenzione, dire qualcosa, entrare nella conversazione, ma non lo feci. Avrei dovuto sentirmi meglio, era l’occasione per liberarmi di lei, invece non provavo alcun sollievo. Eva era con un altro uomo dai tratti somatici inermi e sommessi.
Restai immobile nella stanza fino a quando lei si voltò. Mi vide senza guardarmi e riconobbi, in quei suoi occhi lucidi, un accenno di sorriso. Mi fece segno di avvicinarmi e mi presentò il suo amico. Si chiamava Giorgio. Mi invitò a sedermi, ma rifiutai. Dissi che dovevo andare e lasciai il locale. Mi gettai in strada e iniziai a vagare senza meta. Camminavo per le strade sconnesse della periferia dove i condomini a mattoni tutti uguali si sparpagliavano lungo le strade secondarie.
Vagabondai per ore, non mi ero accorto che l’imbrunire stava imbrunendo la città, così mi fermai e feci un respiro profondo. Solo allora mi accorsi di star bene. Non sentivo più quella pesantezza che mi faceva camminare a testa bassa. I soliti pensieri assordanti sembravano essere scomparsi. Mi guardai intorno e alzai le braccia con un gesto istintivo. Ero libero, Eva non mi mancava. Corsi a casa e chiamai alcuni vecchi amici.
Andammo a cena in un’osteria dall’ambiente caldo e accogliente, non frequentavo posti del genere da anni. La serata passò gioviale tra dell’ottimo vino e una buona compagnia. Mi sentivo stranamente felice.
“Cos’hai da essere così felice?” Mi chiese Adelmo.
Sorrisi senza rispondere.
A fine serata, andai a casa e mi addormentai con il cuore leggero.
Il mattino mi svegliò bussando alla porta, ma al suo posto trovai Eva con i suoi occhi acquosi e tristi. La feci entrare, sono una persona educata, io. Si sedette e si mise a piangere. Come dicevo, non so resistere di fronte a una donna in lacrime e la accolsi di nuovo nella mia vita.
Le mie giornate continuarono a passare lente e uggiose, Eva era al mio fianco per la maggior parte del tempo. Lavoravo poco e bevevo molto. Il tipo di vita che ho sempre amato, o forse odiato, non avrei saputo definirlo.
Poi, in un giorno di sole, incontrai Pamela. Passava con la sua auto e mi chiese un’informazione. Le indicai in fondo alla strada, ma lei non capiva, era americana. Mi fece cenno di salire e la guidai verso il negozio che stava cercando.
Mi chiese se volevo aspettarla e prendere qualcosa da bere insieme. Accettai. C’era uno snack bar a pochi isolati da lì.
Pamela veniva dagli Stati Uniti, parlava un po’ di italiano però mi sforzai ugualmente di parlare inglese con il mio accento approssimativo. Sembrava gradire la mia compagnia, rideva rumorosamente quando le parlavo trasmettendomi un’insolita allegria. Improvvisamente, pensai ad Eva, non la vedevo da quella mattina, la compagnia di Pamela sembrava averla fatta scomparire. Non mi preoccupai.
Pamela passò la notte a casa mia. Credevo che l’indomani se ne sarebbe andata, invece si fermò per qualche giorno. Eva non c’era e poteva rimanere quanto desiderava.
Un mese più tardi mi trovai a cambiar vita. Pamela mi aveva proposto di andare negli Stati Uniti ed io, sconsideratamente, avevo accettato. Venni catapultato in una Philadelphia da film, a casa di una sconosciuta di cui non sapevo un granché, senza lavoro e senza conoscere nessuno.
La nostra vita in America era molto ripetitiva, nel weekend incontravamo le sue amiche che si assomigliavano un po’ tutte. Durante la settimana, Eva se ne andava al mattino e rientrava nel tardo pomeriggio mentre io cercavo inutilmente un qualsiai impiego. Non ero sicuro di aver capito che lavoro facesse, mi diceva che lavorava in un ufficio in centro, ma stentavo a crederle, era sempre troppo vaga, ed io sempre troppo stanco per indagare.
Anche la casa era stranamente asettica e impersonale, senza carattere e senza alcun tocco femminile. Avevo l’impressione di vivere con una barbie, una bambola in carne ed ossa che mi aveva fatto perdere la testa.
Decisi, così, che era giunto il tempo di scoprire qualcosa in più sulla mia misteriosa nuova fiamma. Un mercoledì mattina, mi svegliai di buon’ora, la radio trasmetteva un vecchio blues di Muddy Waters, Pamela si era già alzata e stava per andare a lavoro. Appena chiuse la porta, mi alzai con uno scatto istintivo, infilai i vestiti del giorno prima ed uscii, deciso a seguirla.
Vidi l’auto percorrere uno di quegli spogli viali residenziali. Agguantai una delle nostre bici e mi gettai all’inseguimento. Appena svoltò, ero sicuro che si dileguasse nel traffico, ma con mio grande stupore, non prese l’autostrada per il centro, continuò, invece, imboccando la strada provinciale. La seguivo a distanza. Grazie ai rigidi limiti di velocità americani e all’assenza di salite, riuscii a non perderla.
Dopo alcune miglia, l’auto sterzò verso un blocco moderno che aveva l’aria di essere un ospedale. Mi domandai cosa ci facesse là dentro: era un’infermiera? Era un dottore? Era malata gravemente? Aumentai le pedalate certo di essere vicino alla soluzione dell’enigma.
Arrivato all’entrata, chiesi di Pamela Reeds. La signorina alla reception mi disse che non la conosceva e che nessuno lavorava nell’ospedale con quel nome.
“È una paziente, mi scusi, non mi sono spiegato bene.” Dissi prontamente.
La signorina mi guardò da sotto gli occhiali un po’ dubbiosa. Prese la lista, e con la penna, scorse in verticale i nomi appuntati da qualcun altro.
“Mi dispiace, non c’è nessuna Pamela Reeds.” Replicò ancora più sospettosa.
“Pensavo fosse ricoverata in quest’ospedale. Ce ne sono altri nella zona?”
Ne elencò alcuni, ma non ascoltai. Ero sicuro di aver visto la sua macchina svoltare in quella direzione. Ringraziai ed uscii. Passeggiai un po’ nel cortile, poi mi venne in mente di dare uno sguardo sul retro, non sembrava ci fossero controlli.
Non dovetti camminare a lungo prima di scorgere la sua auto nel parcheggio di un’ala un po’ distaccata. Incuriosito, mi diressi verso il piccolo edificio e mi affacciai a una delle finestre.
Quello che mi si presentò sotto agli occhi fu uno spettacolo bislacco, c’erano coppie dappertutto. Cercai Eva con lo sguardo. Non era facile individuarla tra tutta quella gente. Dopo alcuni istanti, la vidi con un signore di mezza età dall’aspetto aristocratico. Il dubbio che fosse sposata mi sfiorò per un attimo, ma quella conclusione non aveva senso, come poteva giustificare le assenze della sera? Lavorava forse come badante? No, c’era qualcosa che mi sfuggiva. Continuai a scrutare all’interno preso da una fitta di gelosia e da una subdola e morbosa curiosità. Il mio sguardo era concentrato su Pamela, stava sempre appiccicata al signore, gli teneva la mano, lo abbracciava e gli accarezzava la testa.
Osservai un po’ la stanza per distrarmi da quello spettacolo inatteso. Non c’erano solo uomini di mezza età, ma anche tanti ragazzi giovani, ognuno con una ragazza. Cosa diavolo stava succedendo?
Ebbi un tuffo al cuore. Riconobbi le amiche di Pamela. Erano tutte con uomini diversi ed avevano gli stessi atteggiamenti teneri e appiccicosi. C’era qualcosa di tetro in quella scenetta.
In quel momento, mi tornò in mente un aspetto del comportamento di Eva, anche lei mi stava sempre appiccicata e mi seguiva ovunque. Questa riflessione mi fece vacillare. Cercai conferma della mia verità. Appeso al muro, un cartello spiegava che i sedativi venivano distribuiti alle cinque in punto. Il ragionamento era terribilmente logico: appena i pazienti venivano sedati, le ragazze se ne andavano e gli uomini non avevano più bisogno di loro. Era tutto inverosimilmente chiaro. Mi ero innamorato della depressione di un altro. Mi allontanai dalla finestra in stato di shock. Corsi alla bici, volai a tutta velocità verso casa e impacchettai le poche cose che avevo. Chiamai un taxi e mi feci portare in aeroporto. Il primo volo per l’Italia partiva l’indomani. Non aveva importanza. Feci il biglietto con gli ultimi risparmi e mi sedetti ad aspettare sulle panchine dell’aeroporto ancora incredulo. Mentre ripensavo a quello che mi era accaduto, mi passò per la testa un pensiero stupido, avevo lasciato Pamela senza dirle niente, chissà se la depressione sarebbe andata in depressione.
Una volta atterrato in Italia, presi il primo treno per la mia città. Ero ancora turbato, ma il viaggio era stato lungo e mi addormentai travolto dalla stanchezza e dalle emozioni. Fui svegliato dalla voce del controllore, era una donna. Stava chiedendo i biglietti ai passeggeri. Le detti il mio ancora frastornato e, nel prenderlo, le nostre dita si toccarono. Alzai lo sguardo e ne ammirai il volto. Aveva dei grandi occhi scuri che rimasero incagliati ai miei per qualche secondo, mentre i capelli castani e lisci si adagiavano con cura sulle guance.
Mi ringraziò e mi restituì il biglietto. Le chiesi se era delle mie parti, l’accento era familiare. Mi rispose distogliendo leggermente lo sguardo e mostrando naturalmente la propria timidezza. Abitava non lontano da me.
Le domandai se conosceva dei locali che di solito frequentavo, mi dava l’impressione che avesse più o meno la mia età. Ne elencò alcuni, poi affermò che amava il Granshas. Era il mio preferito.
“Allora ci vediamo uno di questi weekend al Granshas.”
Lei inclinò la testa e sorrise. “Certo, perché no.”
“Io mi chiamo Salvatore.” Mi presentai, ma prima che rispondesse, lessi il cartellino appuntato sulla giacca: si chiamava Eva.
Narrare di un disagio così invalidante come è la depressione, con intelligente ironia, è un modo sano per fare terapia, anche, ma soprattutto ne esce una davvero piacevole lettura che possiede il giusto distacco dal rischio di drammatizzare o ridicolizzare.
Mi è piaciuto e mi sono anche divertita. Azzeccate le ripetizioni e i colpi di scena (fortissima una frase che non posso riportare perché rovinerei l’effetto).
Bravo.
Bravo David, bravissimo. Ho apprezzato il tuo racconto già a partire dall’ incipit : talmente chiaro, talmente diretto e ( volutamente ) banale da farmi presagire che avrei letto qualcosa di unico e straordinario. Così è stato. Sei riuscito a parlare di uno dei peggiori mali che l’ uomo possa conoscere allontanando la commiserazione ( e, soprattutto, l’ autocommiserazione ) e sostituendola con l’ ironia. Un ‘ ironia un poco amara, forse, ma lontana, comunque, dal cinismo e, pertanto, rispettosa di chi si accompagna ad Eva. Complimenti
Grazie mille!!!
Decisamente ossessivo questo racconto nel mostrare sotto ogni forma e aspetto ciò che colpisce e che può colpire ciascuno di noi a sorpresa: la DEPRESSIONE che qui porta il nome di EVA. (si intende depressione tutta al femminile?)
Sembra non esserci nessuna via di uscita come ci ricorda anche il finale. Ma forse l’autore proprio nel presentarci Eva in modo tanto ingombrante alla fine è il primo a non crederci facendo capire che volendo possiamo liberarcene.
Direi che il racconto mostri perfettamente, con insolita (un po’amara) ironia, uno dei problemi maggiori della depressione:ci si innamora di essa, lei non ci molla ma anche noi temiamo di uscire definitivamente dalla sua possessione, di perdere la sua assidua compagnia.
Complimenti a David!
Una brillante illustrazione, scanzonata e malinconica allo stesso tempo, di una condizione ahimè connaturata alla nostra società. Bello il ritmo girovago e fantasioso del tuo racconto, quasi di fiaba. Complimenti, David!
Mi sembra un racconto davvero ben pianificato: la soluzione di svelare subito la personificazione EVA = DEPRESSIONE è originale ed efficace. Speriamo che l’ultima EVA sia in carne ed ossa!