Premio Racconti nella Rete 2017 “Il poggio delle aromatiche” di Corrado Del Papa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Il frullino, decespugliatore, prima a disco rotante, (il primo utensìle operativo, lasciatomi dal precedente proprietario del resede, quando lo comprai) poi a elica, sempre d’acciaio, ora a filo di plastica rinforzata, con taglio rapido e produttivo, impiegando meno fatica grazie all’energia fossile, ha provocato negli orti e nei giardini la scomparsa di numerose varietà vegetali spontanee di ricchezza ambientale, le cosiddette erbacce, ma anche di apprezzate ed apprezzabili piante aromatiche : facendo d’ogni erba un fascio e lasciandosi dietro ispidi e acuminati steli doloranti .
Come ben sappiamo ogni organismo cerca di piegare l’ambiente in cui vive alle sue esigenze con gli strumenti che possiede, un’idea che appare più tribale che civile, e positiva in assoluto, può rivelarsi rovinosa nell’immediato, ma gli strumenti che utilizzo sono i mezzi con cui realizzo ciò che faccio e mi permettono di esprimere le mie capacità: a Cuba ho osservato che l’erba nei parchi cittadini veniva tagliata con machete affilatissimo da squadre di operai e le ciocche degli alberi seccati, lungo la strada, dopo il taglio rasoterra non venivano escavate ma riempite, praticandovi un piccolo foro centrale, di olio combustibile e accese sì da consumarle lentamente fino a incenerire sotto terra le radici preparando così la nuova allocazione.
Sui miei poggi non si trovano quasi più , anche se ho prestato attenzione, il finocchio, qualche isola risparmiata, assieme alle foglie glaucescenti del giaggiolo,all’iris scorpioides, alla clematis cirrhosa, la nepitella, il serpillo e il puleggio – dal latino pulex = pulce, perché nei tempi precedenti era impiegato per allontanare le pulci — che prima erano abbondanti, ma anche oggi fanno da tappeto a Talè quando vi si butta di schiena e comincia a strusciarsi mugolando compiaciuto per poi alzarsi aromatizzato e scozzolarsi fragorosamente facendo volare pagliuzze e frammenti erbacei.
Tralasciando l’abominevole pratica del diserbo chimico, che talvolta, orripilando, osservo anche in frutteti, vigneti e oliveti ingialliti, la diffusione massiccia di questo strumento tra i cultori amatoriali dell’orto-frutteto, sempre meno e sempre più anziani (come cantava sull’aria dei “maggi” il vecchio Ciaccari : lo dice anche la Sacra Scrittura/ lavora vecchio che hai la pelle dura/, ormai i giovani curano la fitness del body, il look, in palestra o negli sport, dopo che i giochi sono diventati un genere televisivo, la terra essendo troppo volgare, e poi i suoi frutti si trovano abbondanti al supermercato e così addentano la vita con presunzione del meglio, forestiero, e intanto tralasciano di masticare il buono, casalingo,
facendo crescere congiuntamente lo spreco e la penuria,come talvolta fa mia moglie Ross che compra gli spinaci già cotti, mentre nell’orto invernale abbondano rape e braschette, oppure comprando petti di pollo mentre nel frigo languono quaglie e colombacci) ha sollevato dalla feroce fatica della falce e della frullana, ma ha fatto tabula rasa di endemismi pregiati, erbe e fiori spontanei, che balleranno, ahimè, una sola estate.
Il tanto agognato prato all’inglese, con dicondra, loglietto e trifoglio,verde come un biliardo e folto come un tappeto — moquette del deserto botanico e di quello interiore davanti a case tutte somiglianti per lo sforzo quasi inamovibile di omologarsi a vicenda, perdendo la cultura dell’abitare, case che ostentano al mondo la propria spocchiosa agiatezza nascondendo la propria insipienza verso una natura irriducibilmente estranea — magari valorizzata, impreziosita secondo loro, da un’araucaria verde – foresta in primo piano, o da una spalliera di purpurea Lagerstroemia Indica, “come se l’immagine del giardino si caricasse di significati e allusioni mescolando età dell’oro e paradiso terrestre, diventando insieme luogo sensuale e astratto”(Kennet Clark), non sfuggendo al pericolo anglomane della farsa col dondolo e i sette nani, la siepina geometrica tosata come fosse di plastica, metafora di potere, denaro, successo, ciecamente prodotto dalla civiltà consumistica,( ogni persona è una futura persona malata ) il verde da esibire come esperienza solo visiva non da vivere annusandolo e ascoltandolo con sensibilità olfattiva e uditiva,(1)— ha condannato al peggioramento, con tosaerba sempre più perfezionati, quali il trinciastocco, le essenze rustiche ora considerate moleste e reprimende: infestanti, in perfetta coerenza del principio moderno dell’Imago versus Logos .
Il fattore estetico è strettamente connesso a quello etico, il poggio come luogo di auto-educazione e rigenerazione; nella società di massa, la società consumistica-globalizzata, il cittadino smarrisce ogni coscienza estetica del luogo in cui vive immerso e sommerso, emanazione di un’economia del consumo, che enfatizza la rapidità della metamorfosi delle cose in spazzatura, e anche quando approda in campagna, continua a vivere passivamente il nuovo habitatat, non armonicamente con la natura circostante, con le nuove forme viventi, ma introducendovi cambiamenti artificiali per connotare il proprio esibizionistico narcisismo, da straniero megalomane, “l’uomo di denaro, accaparratore di tuti i beni, compratore di tutti i frutti e di tutte le anime”,( A.M.Ortese ), affetto da disposofobìa, evidenziando la perdita del rapporto con la natura, del vincolo uomo-animale, della sintonìa primigenia, forse della mitica età dell’oro .
E così, mentre la globalizzazione ha riportato al centro dell’attenzione il pianeta nel suo insieme, Gaia, l’antica dea madre, per questi nuovi arrivati vale ancora l’antropocentrismo dell’era industriale con abusi e speculazioni consoni al dettato del grande presidente Thomas Jefferson: la terra appartiene ai viventi .
Per mia costituzione non mi sento di appartenere al paradigma globalizzato del “consumo dunque sono”, il cui acume atrofizzato non differisce da quello di un normale monoteista religioso: per il momento coltivo,anche muscolarmente,altrivalori .
Non tutto ciò che esiste è misurabile in termini di sfruttamento economico, in quanto se l’unico valore riconosciuto e riconoscibile è il rendimento economico, molto di quello che curiamo e coltiviamo ha poca speranza di meritare le nostre cure, poiché la capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, coniugate all’egoismo individuale, sono tali da minacciare la conservazione e la riproduzione della vita; ormai consapevole di contare un tempo limitato non voglio sminuire le mie consolazioni: con la stessa fatica posso ottenerle misere o ampie, ma sempre cadùche, non durature come diamanti, però ricorrenti come i miei desideri .
Durante l’ultima guerra, nei giorni in cui la certosa di Farneta veniva stuprata dai nazisti e dai fascisti, il Vannucchi si presentò da Mario Tobino nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, accompagnato dal fratello, che nella mano sinistra stringeva un tozzo di pane ammuffito: Dottore,guardi qua, mio fratello non vuole buttare via niente,accumula tutto, me lo prenda un po’ in manicomio e lo curi di questa idea fissa.
“Non preoccuparti di così poco, vedrai che gli passerà, quando ha fame quel pezzo di pane poi lo mangia. Qui, se non son matti non li vogliamo”, rispose tranquillo il competente dottore .
A quei tempi non era stato ancora coniato il termine disposofobia, di mezza origine americana,as usually .
Il nostro è proprio il tempo del disincanto( Max Weber ) e, aggiungerei, dell’Io ipertrofico che trasforma kronos, l’implacabile continuatore degli eventi, in kairos, il tempo per effettuare i progetti: anche se demenziali.
Tutto nel verde gli è così estraneo che non distinguono quel che c’è d’insolito, oltre alle verzure omologate del commercio, ed hanno sviluppato una tenace quanto implacabile fitoxenofobìa: ed ho ben chiaro che godo la virtù dell’austerità, la marginalità antisistema,in una quiete interiore di chi vive appartato e non può più dare cattivi esempi, ma aborro l’estetica del degrado, soprattutto quando è scambiato per modernità in preda alla forma, mai alla sostanza e all’intelligenza, imago lampante della definitiva frattura tra l’uomo e l’universo, distruggendo l’illusoria sensazione di vivere in comunione ideale con il mondo naturale, una vita riservata contro la vanità degli ambiziosi, restarmene isolato è anche un modo per non farmene contaminare e posso proiettarmi nella dimensione dello spazio-tempo dove ogni azione, ogni gesto, ogni pensiero si coagula sul modo soddisfacente e dignitoso della mia autonomìa, talvolta vulnerabile in quanto soggetta a stadi e livelli diversi .
L’odio tutto metropolitano contro la campagna sembra sempre in attesa dell’occasione propizia per manifestarsi con l’utilizzo massiccio di fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari, dimenticando, confondendo, biasimando un ritorno alla terra, senza attenzione alle produzioni locali, alla solidarietà, all’accoglienza: e anche la moglie ne partecipa, coi cromosomi ancestrali delle primitive società umane in cui era l’uomo a vagare nella natura in cerca di selvaggina per sostentare la famiglia, mentre la donna accudiva la prole e l’alcova.
Più del 75% della superficie terrestre non ricoperta da ghiacci è stata trasformata dall’uomo; la natura quasi incontaminata non esiste più al di fuori di fortunati resedi come quello che vivo, ecco perché tento di preservarlo sano da veleni, pur sapendo che l’aria che respiro e l’acqua che bevo…..
Sostituzione della natura indigena con un’altra natura artificiale: come il canto degli uccelli esotici messi in gabbia invece dei riccioli di modulazioni che si curvano su se stesse, fino ai gorgheggi, del nostro rustico merlo o capinera: tutto questo strologare sul loro canto,da parte di chi sporadicamente lo ascolta, mi sembra una perdita di senso, non del canto, ma degli arzigogolìi di chi lo ascolta che non si limita a degustarlo, come chi semplicemente, col privilegio di ascoltarlo per mesi, se lo gode: chi mi conosce non sa chi sono, ma sa dove vivo, in armonìa tra lavoro manuale e ‘divertissement’ intellettuale, lontano dall’alienazione professionale, dominante nella nostra società parcellizzata,dell’uomo-massa,contento di me e indifferente al mondo, godo di essere ignorato e stare in silenzio, che non significa cancellare la realtà, ma sottrarsi alla invadenza esterna che disturba l’autonomìa del proprio pensiero tutto teso sull’albero da potare o l’erba da falciare o l’odore spruzzato dell’erba fresca appena recisa .
Perché non ricordare che un tempo quest’erba era chiamata fieno, foraggio, alimento per gli erbivori domestici, trasformata in carne, latte, formaggio e infine concime, anche con un prezzo di vendita , seccata?
Da tagliare in luna crescente per farlo ricrescere più in fretta, mentre a luna calante cresce più lentamente, come i capelli tagliati dal barbiere, diceva il Vecchio Ciaccari, ‘perché le lune son tante, e bisogna cognosce’ quella che ti serve’: noi cittadini globali l’abbiamo rimosso, ma il nostro inconscio culturale lo custodisce nel suo segreto come un verbale mai abrogato .
Non occorre proclamarsi nostalgici o reazionari per riacquisire il merito della circolarità ambientale, come si dice oggi, solo apprezzare la parsimoniosa lungimiranza dei nostri antenati che non frequentavano il supermercato, ma valorizzavano anche il dopopasto, non solo l’attimo fuggente della nutrizione, per concimare il terreno agricolo, dopo, in un circolo virtuoso che non creava montagne di rifiuti: inestinguibili .
Giuliano, il macellaio paesano, comprava i vitelli nella campagna intorno dai contadini, che li allevavano per sei-otto mesi con erba e fieno autoprodotti, ( e utilizzando le loro deiezioni ) falciati nei tempi canonici a colpi di frullana, bisognosa di continue arrotature con la cote, la pietra posta dentro un corno di vacca, fissato al cinturino dietro la vita ; oggi nessuno alleva più vitelli (né maiali, né pecore, però tutti consumiamo più carne…) e queste erbe sono dette infestanti per la miope visione antropocentrica — curante l’immagine, non la realtà, tutti affannati tra video e ansiolitici a domare il reale sentito come avverso —- non certo per il macaone e la vanessa che nell’agosto si tuffano ingordi nel morbido capolino del selvaggio acanzio nello spettacolo del prato fiorito, rustico, primigenio, non meccanizzato .
I poggi e le bragne, sfrullinati una volta la settimana, da questi manicuristi dell’erba, si presentano senza rovi e cardi, è vero, ma anche innaturalmente desolati ed inerti, privi d’ogni immagine, , d’ogni memoria, d’ogni speranza, non arrivando mai alla fioritura e alla riseminagione spontanea, queste piante rustiche stentano a riprodursi e a sopravvivere : oltre a negare il polline alle api.
Anche questa mia convinta difesa della biodiversità ambientale e culturale non può sposarsi con l’apoteosi del monismo linguistico anglo-americano, la lingua vittoriosa.
Resto quindi di guardia al mio verde antico come alla mia lingua infarcita e saporosa di dialetto, una trincea d’identità simbolica e memoria collettiva, ahimè, destinata ad essere sfondata : la mia vita in calce alle pagine di un trionfante poema dove sono me stesso, fuori dal mondo ma dentro il mio mondo, con Talè che bracca in stile desultorio pettirossi nelle siepi e lucertole sui muri, secondando caratteristiche morfologiche selezionate in milioni di anni dall’evoluzione biologica .
Monaxìa, solitudine, unicità, monogamìa, il paradiso della quiete, fuori sintonìa col tempo, negazione di Twitter e Facebook, la scrittura mi separa dagli altri, nessun maestro ad aprirmi la strada, …e leggo e scrivo e ho molte altre virtù… ignote ai miei vicinanti: qui vivo concentrato senza riserve sull’esperienza attuale che non ha bisogno d’altro, non è diretta a nulla di diverso da sé e non contano il tempo cronologico occupato, la durata della sua esperienza, conta solo la sua dignità, un desiderio che desidera solo la sua stessa energìa, una passione, come quella per la caccia, che è finalizzata a se stessa, non come dipendenza da altre volontà .
Sparito, per loro, il vellutato verbasco, tasso barbasso, la purpurea bardana, il saporito ramolaccio, il bizzarro e siliceo equiseto, le camugere, l’ortica molesta ma efficace per l’infuso contro gli afidi, le “pucette”, il solare tanaceto, la fitolacca, l’erba gatta, Nepeta Cataria, la campanula glomerata,l’issopo,la carota selvatica,il cardo ,Cirsium Arvense, per dire i più vistosi, tralasciando una miriade di umili fiori variegati, ophris e orchis tra i più, come gocce di allegria quando tutto è fresco e delicato,vivace, che non fa colpo , ma affascina tra farfalle cavolaie, vanesse e macaone che volano da una siepe all’altra, api che ronzano indaffarate, il tutto con un senso di appartenenza al paesaggio ove l’unica legge è la biodiversità.
I bei pennacchi vigorosi del finocchio selvatico, sono ridotti a pochi calami stenti, i folti cespi di niepitella si contraggono da una sfrullinata all’altra, il puleggio nell’uliveto, dove pratico il mulching, (dizione elegantemente onglofila del più pregnante dittaggio nostrale del vecchio Ciaccari : dammi la mi’ erba/ vado in culo alla tu’ merda) sempre più ridotto e il mentastro e il serpillo quasi scomparsi.
Le foglie, rifletto, sono pannelli solari che catturano i fotoni di luce di cui si nutrono le piante che non hanno bisogno di muoversi, al contrario degli animali che si nutrono di erbe e di piante le quali approdarono dall’acqua alla terra ferma prima degli animali e con la fotosintesi clorofilliana, assorbendo anidride carbonica, liberano l’ ossigeno di cui viviamo.
Quando cammino sul prato non avverto quasi più il fragrante profumo della labiata e della lamiacea, gli oli essenziali che emanava, pressandola, non fuoriescono più dagli ocelli; se l’ambiente si è impoverito di questa bella d’erbe famiglia dall’effluvio grato, il naso lo rimpiange con altrettanta intensità della fragranza del pane appena sfornato da un forno a legna comunitario, in una corte contadina (ogni famiglia a turno doveva provvedere al riscaldamento portandovi le fascìne) o del profumo aspro e pungente del vino appena svinato dalle botti di castagno sorvolate da nuvole di moscini , prima che l’acciaio inox e la fermentazione controllata sterilizzassero le cantine.
Ma anche il puzzo sgradevole di marciume emanato dai fasci sommersi di canapa, nell’acqua del Serchio, con grosse pietre sovrapposte, perché non aggallassero, oggi ha un profumo recondito.
In ciascuno di noi, infatti, in proporzioni variabili c’è qualcosa dell’uomo di ieri, o della fanciullezza lontana: un presente gravido di passato.
Solo che quest’uomo del passato non tutti lo avvertiamo, perché è incapsulato in noi e la frenesia dissipatrice della vita odierna non favorisce stimoli adatti al ri-emergere della nostra vita inconscia: forse anche perché quella vita era ancorata, per lo più, al bisogno e alla miseria.
Ma non può esserci qualità di vita, gustando la gioia semplice dell’esistenza, senza giustizia sociale ed eguali opportunità, senza rifiutare il modello di crescita all’infinito e restaurare un possibile equilibrio tra naturale e artificiale.
E so anche che il futuro non mi riguarda –può esistere solo ciò che vive– e già mi sfiora col ridicolo della smemoratezza : l’ultimo atto del disimparare a servire.
Tutti i progetti nascono da una idea astratta, che poi il sudore concretizza in questa campagna emanante un patrimonio di elementi emotivi, anche se si sa in partenza che basta una grandinata a distruggere un impianto vegetale fatto con fatica: ma non mi preoccupo mai .
Dopo averci rimuginato a lungo, la coscienza individuale patisce sempre la distanza tra quel che si desidera e quel che è possibile, mi sono deciso perché esiste solo quello che si fa che è parte della realtà, e il lavoro puro e semplice è la principale manifestazione sociale del principio di realtà : il nostro scopo è reinventare ogni giorno il progetto, perché l’azione possa vivere oggi e proiettarsi nel futuro : così, già abbattuto un vecchio pino, ampio come una capanna, sul primo terrazzamento della pineta, sulla parte anteriore del sinclinale che precipita nella fossetta di scolo sottostante, per la larghezza di un metro e la lunghezza di circa venti, impianterò il poggio delle aromatiche.
“ Per il giardiniere ‘vivace’ poter pensare, studiare,progettare e sognare è sempre una necessaria e grandissima gioia…”( P. Pejrone- Il vero giardiniere non si arrende ) .
Quando ragiono in termini di giorni, pianto fiori e ortaggi, quando ragiono in termini di anni pianto alberi, ho ragionato in termini di secoli ed ho piantato uomini, allorchè la fiducia nell’umanità era ancora un ideale possibile, una poesia di nobili intenzioni, franata poi in una prosa meschina di catastrofica realtà.
Qui si fa quel che si fa
Ma si sa quel che si fa,
trovai scritto a caratteri cubitali su una parete del vecchio teatro anatomico nella facoltà veterinaria dell’Università di Pisa, in tempi lontani : quando con raccapriccio vidi una decina di cani a gole aperte, ad occhi spalancati e neanche un uggiolato provenire da loro, perché, mi fu spiegato, erano stati privati delle corde vocali, recise per ragioni di studio scientifico.
Il percorso che conduce dall’impostazione teoretica alla conclusione pratica è sempre ricco di rivisitazioni culturali e di suggestioni originali da suscitare in chi opera anche profonde perplessità .
Suggeriva il vecchio Ciaccari : “un bravo muratore ‘un comincia mai una casa dal tetto ma dalle fondamenta e non fabbri’a un comodo (2) con la porta che s’apre verso la bu’a ca’atoria dove si disòppila l’intestino quando gli scappa da ca’a’”.
Intanto piove da libeccio, a intervalli : così quando vedo smettere esco e subito mi bagno, quando rientro bagnato non piove più, riesco e mi ribagno ; intanto la moglie prima mi guarda torva poi, con le mattonelle impiastricciate,comincia,gradualmente, a mormorare, fino a scoppiare in esclamazioni da portinaia analfabeta ; allora mi cambio e il lavoro preventivato resta per il giorno dopo : col cielo nuvoloso senza pioggia .
Primo lavoro di buzzo buono, a schiena piegata, è lavorare il terreno, con lo scasso : alla profondità di una buona vangata tolgo la prima striscia di terra, la deposito sul margine superiore e la netto accuratamente da tutte le radici presenti, quelle incestate le scuoto vigorosamente una ad una per non dilapidare il terriccio, le deposito inerti tutte in un mucchio che poi brucerò ; poi rimuovo il fondo; vango la seconda striscia ripetendo a pietto l’operazione e così fino alla lunghezza stabilita; il secondo giorno operando con ritmo rilassato, gustandomi il sudore e la piacevole sensazione fisica del corpo in salute, il lavoro è finito; la striscia si presenta soffice e, livellata con il rastrello, accogliente per le ipotizzate essenze: tutte opere da nulla che, passando i giorni, ci appaiono indispensabili semplicemente in grazia dell’abitudine,assaporandole con la stessa intensità di un’albicocca matura che si “squaglia “ tra lingua e palato, fuori dai denti.
Un buon corbello di sugo di cavallo, maturo, scuro, poroso, asciutto e di gradevole odore è interrato lungo la metà,che così diventa un terreno grasso, leggero come piuma, friabile come una pastasfoglia e quasi umido, dove poi pianterò le votate alla scomparsa e le nuove essenze.
Con vanghetto scavo dal vicino bosco due mortelle e un ginepro perché anche questi arbusti mitici vanno scomparendo soffocati dall’altra vegetazione esuberante, non più arieggiati dai contadini quando tagliavano il pacciame per farne lettiera per vacche, subiscono l’aggressione letale; negli incolti, meta delle mie poco fruttuose escursioni venatorie nel vicinato, con Talè, prelevo con mestola da muratore, da tempo le avevo occhiate, ciocche di strisciante serpillo con consistente pane; le pecore dell’ultimo pastore della zona, tosatrici parche dei capolini odorosi, lo fortificano di stagione in stagione, instillando nel latte e nel conseguente pecorino l’inconfondibile aroma; i semi di finocchio, acheni, portati dalla Sicilia per aromatizzare le cotture domestiche,apparentemente morti in semenzaio, sono ora pianticelle maneggiabili; dal vivaista compro tre lavande, stoechas, spigo e officinale , dragoncello, maggiorana, santoreggia, pepolino limonato ed erba pesca, verbena odorosa; da altro luogo trasferisco un timo e due nepitelle; menta, peporino, basilico, prezzemolo e melissa nell’orto, salvia e rosmarino nella scarpata sottostante, restano immoti al loro sito, fino alla raccolta, quando nel piatto mi daranno i loro diversi sapori .
Distribuisco le varie essenze dentro il terreno sostanziato di terriccio e annafffio con getto leggero ma a fondo.
In tempi successivi all’impianto, l’aromario officinale, suscettibile di inesausto impinguamento ed esaurimento, come ogni work in progress, come la vita, si è illegiadrito della inodora variegata Lavatera Pentapetala, vulgo malvone, nelle tre varietà, punctata, olbia e trimestris, scovata, scavata e salvata lungo bordi stradali remoti e febbrilmente prima , poi gioiosamente, fatta rivivere in questo angolo polisensuale, prima solo a prevalente percezione olfattiva, dove accende le sue fiamme dondolanti al lieve alito di vento ,
Che di forme diverse e color vari/Con cento odori abbagliami le nari.
Il tessuto botanico si struttura lentamente e consuma tempo, qui si intrecciano fili di sudore, rabbia e frustrazione congiunte a fili di gioia, piacere e soddisfazione, mentre le piante nascono e muoiono nei brevi ritmi di giorno e notte, con gli ampi cicli delle stagioni.
Questo dispendio di energia presiede alla fondazione di un’immagine che sembra non rispodere a nessuno scopo economico, se non a quello di assecondare la pulsione creativa, come a voler costruire con sabbia senza calce : cingit non stringit, perché nella natura c’è un diletto anche senza utilità, come nell’arte e nel sesso .
Il risultato è la trasformazione di energia dinamica del gesto nella qualità della forma : quell’insieme in cui piante, fiori, insetti, uccelli, rettili appaiono esemplari o per vivacità di volo o per delicatezza di profumo o per bellezza di colore in una spera di sole.
Un’opera aperta, direbbe U. Eco, potenzialmente infinita, che si misura di fronte all’esistenza concreta dell’opera da interpretare, la cosa in sé da cui ero partito offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi.
Alla fine di molto piacevoli e gratificanti ore di lavoro, quando mi lascio coinvolgere totalmente, con tutti i sensi, da vero animale neotenico, solo per allocare una gnebitella, nepitella, ricordo, ho impiegato quasi un’ora, contemplo soddisfatto la tavolozza armoniosa e digradante, dal pallido all’intenso, gradevole agli occhi : dal tentativo di raggiungere una piccola perfezione, ho sperimentato, può discendere l’aspirazione di averne di più grandi e significative.
Questa mia pratica è virtuosa perché crea una relazione a somma positiva tra me e l’ambiente circostante: una collaborazione che prefigura una simbiosi che mi fa consapevole non dei fiori, ma dei “miei” fiori , allo stesso modo che i merli ladroni delle mie more sono i “miei” merli .
Tutto questo aggregato caleidoscopico, vanirà, certo, ma sia versato nel cuore un sorso dell’effimera gioia, perché vivere è esprimere, convertire un interno fermento in atti e pensieri precisi,…..ma esprimere è anche limitare, incorniciare, quando l’azione si compie la fantasia è già morta : subentra solo una labile speranza di sopravvivenza.
Tutta l’arte, però, sta nel vivere ogni giorno della nostra vita e nel non affliggere con l’ansia l’ora più dolce che la vita offre, che è l’ora presente : qui, la capitale del mondo che sopravvive al suo nulla, senza lasciarmi assorbire e narcotizzare dalla torpida vita provinciale e trasformarmi in obeso e avaro padrone di campagna.
Questo solazio è un rifugio, una via d’uscita al magma esistenziale con la fuga culturale nella scrittura che mi ha catapultato in un mondo parallelo, incontaminato, calmo, piacevolmente appagante, boccata d’ossigeno puro e sogno di speranza anche quando il quotidiano è sgradevole .
‘Si hortum cum bibliotheca habes, nihil tibi deerit’. ( Cicerone )
Non m’ importa se l’opera mia andrà perduta, perché è stata comunque una conquista rilevante nello svolgimento progressivo, quando uno fa e gode, come nei miti delle creazioni : dal Caos primordiale al Cosmo copernicano .
Il diletto è ragion sufficiente al corso delle cose , poi succeda quel che può: come un tordo che dopo tanto svolazzare ha trovato un bel frantoiano carico d’olive e tra le fronde sollazza il suo peregrinare, contentandosi di essere dov’è, dov’è arrivato.
“ Ti sei dato proprio alla macchia,eh?”,gridò il vecchio amico.
“Sì,da cavaliere non più errante, ma senza paura, quella l’ho lasciata a voi cittadini. Son di Pra’o e voglio esse’ rispetta’o, disse quello”.
O come gridò quel Pisano (ignaro ed immemore di Curtatone e Montanara) dal marciapiede di via Mazzini seduto a un tavolino all’aperto, alle nove della mattina, rispondendo ad una domanda di informazione musiva :
–La Domus mazziniana? O cos’è? Una torrefazione?
–Co-osa? Boh! ‘Un saprei.
E rivolto all’interno del bar : — Beppe! Buttami un aperitivo.
E presa l’aria
dell’uomo avvezzo
andette a bevere
tutto d’un pezzo.
( 1) Ignorando, forse, quanto si compiaceva l’imperatore Diocleziano del profumo dei cavoli da lui piantati, ed esibìti, quando abbandonò il potere .
(2) comodo=cesso
Corrado,
anzitutto complimenti per la tua cultura in tema di piante & co.: mostruosa!!! 🙂
Il racconto, oscillando tra un substrato tecnico di primo spessore ed un notevole piglio filosofico, aiuta a riflettere su i valori e le virtù di una dimensione che la tecnologia sta incondizionatamente ed ingiustificatamente stuprando.
E poi, da pratese, la citazione del famigerato “Son di Pra’o e voglio esse’ rispetta’o” mi ha conquistato :-).
Complimenti!