Premio Racconti nella Rete 2017 “Prophetes” di Fabrizio Chiarini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Raccoglievo i frutti del sicomoro, laggiù nel tempo della giovinezza e così mi cibavo e davo di che cibarsi alle famiglie del villaggio. Soprattutto quando gli altri uomini erano a servizio del rapace di turno, quando i capricci di uno facevano in modo che i campi si svuotassero e le donne non giacessero con i mariti per settimane e settimane.
Allora, io avevo poco più di nulla ed oggi pure. Una capra figlia della carestia, una collana di denti di dromedario, un’eterna stuoia sfilacciata in lana dell’Anatolia rubata alle dita serrate della morte di un mercante straniero, una ciotola capace e la tunica grezza che indossavo. I sandali si disfacevano al sole, sulla sabbia, ad ogni passo. Per farli riparare o per avere più di ciò che già possedevo bastava la ciotola con il latte della mia capra, un pugno di fichi oppure, quando era il tempo, una giornata di lavoro nei campi dietro la schiena di un raro bue smunto e sottomesso. In quel modo potevo bearmi del focolare di una giovane e, una volta messi a dormire i figli, anche del suo letto.
Il lago presso cui sono nato, a sentire quello che diceva fra i denti mancanti mia madre, prima che l’ottusità dei carri ittiti diretti a Qadesh se la portasse via, non è mai stato molto pescoso ma, conoscendo le correnti, le zone più profonde e le ore migliori, riuscivo spesso a riempire un cesto di pesci brulicanti. I riflessi, a volte rosa a volte azzurri e argento, mi confondevano. Mi meravigliavo che delle creature il cui unico scopo è diventare cibo, potessero dimenarsi in quel modo inconsulto. Perché ribellarsi o aver paura della natura? Quello era il corso delle cose e non per mia o loro volontà, di certo Colui che è aveva deciso che fosse cosa buona e giusta. E tutto quel vibrare argenteo dentro la cesta durava per qualche tempo, fintanto che i movimenti si disfacevano più lenti e rassegnati alla legge di natura. Li guardavo contorcersi in agonia e quelle bocche aperte, quegli occhi fissi senza palpebre mi davano la sensazione dell’estasi e dell’amplesso. Finalmente rassegnati, li vendevo al mercato o li scambiavo con qualche pugno di farina o focacce già pronte poi, tenuto qualcosa per soddisfare la mia fame, tornavo all’ombra del grande sicomoro, quello che ho sempre preferito, per sdraiarmi e pensare. Con la pancia finalmente piena e un piccolo falò a tenermi compagnia.
Era in quel periodo polveroso della mia vita, all’ombra del sicomoro, mentre collane di pesci essiccavano al sole, che molti pellegrini si fermavano per chiedermi le cose più varie. Dapprima solo un caso, poi gruppi di mercanti, fuggiaschi, qualche tagliagole solitario in vena di confessioni non richieste, donne in fuga dalle percosse dei mariti, una notte mi sembrò che perfino un cane scabbioso mi stesse fissando per pormi il suo muto e ringhioso quesito. E non sapevo comunque perché tutte quelle persone sostavano al mio riposo, spezzando i miei sogni ad occhi aperti. Poi successe, mi dico ora che doveva succedere e doveva essere una mattina calda d’inizio estate. Ritrovai ai piedi della mia stuoia una ciotola piena di miele e un pezzo di pane dorato. Mi bastò fare pochi passi per raccogliere l’acqua del lago e gustare il primo, forse l’unico, pasto del giorno. Qualcuno, magari qualcuno a cui avevo rivolto un semplice saluto la sera prima, mi aveva donato quel ristoro. Non dormivo con una donna da molto tempo e subito negai potesse trattarsi del gesto di una solitaria complice e soddisfatta, ma è pur vero che nell’ardore profumato di quel miele ritrovai la via.
Il segno definitivo mi fu offerto sette giorni più tardi quando un povero pastore, consumato dalla strada percorsa e dalle notti insonni, volle portarmi il suo dolore e la sua preghiera, come se io fossi stato lì ad aspettarlo dall’alba dei tempi. Arrivava con una sacca, un paio di sandali disfatti, fratelli dei miei, legati alla cintola e poco altro a parte la sabbia negli occhi. E negli occhi mi guardava quasi io fossi nato per rispondere al suo sguardo, non intendeva scrutare la mia anima che quella doveva apparirgli, povero, come luminosa e trasparente. Mi diede del formaggio, un pugno di olive e un buon mezzo otre di vino. Poi mi chiese. Di suo figlio.
All’ultima Luna nuova era sparito com’era sparita la carovana di stranieri che da alcuni giorni stava a un tiro di fionda dal suo villaggio, oltre la terra di Canaan, a sud. Mi chiedeva se l’avessero rapito loro a dorso di dromedario, se fosse andato di sua volontà, e dov’erano, e chi si sarebbe preso cura del piccolo gregge, della sua vecchiaia, cosa avrebbe detto al padre della promessa sposa.
I miei occhi erano vuoti e fermi. Che avrei potuto dire? Le carovane chiamano il sangue giovane, sapevo, perché anch’io non più di tre o quattro anni prima lo avevo provato, che il sangue acerbo chiama il deserto e i guai chiamano altri guai. Cosa dovevo rispondere? Devo credere a me stesso quando mi dico che non fu solo per i doni, non fu solo per compiacere quell’uomo disperato, non fu per avidità che trovai il modo di rispondere. Non fu neanche quando mi chiamò “nevi”. Sentivo solo che non potevo decidere per me ciò che ero per gli altri. Non posso far altro che pensare che fu solo fortuna quando dissi all’uomo che suo figlio sarebbe tornato con una donna e con un suo gregge. Lui mi disse che sarebbe stato senz’altro così, che gli avevano parlato dell’uomo sotto il sicomoro sulla riva del lago. Si aspettava una parola, una certezza. Io speravo fosse almeno una mezza verità o un azzardo innocente. Che la mia fosse compassione. Ecco, avevo trovato la parola, in molti sensi. Ci misi qualche notte per capire e poi, devo ammettere di essermi sentito frastornato, mi resi conto che parlavo e ascoltavo per compassione. Non sapevo dirmi se fosse giusto o sbagliato, avevo ancora un minimo di coscienza per evitare di sentirmi soddisfatto, appena provavo la sensazione di essere utile mi schermivo dietro un velo di modestia, cercavo di non badarci per non incorrere nella superbia e non disturbare nessuno, sulla terra o nell’alto dei cieli.
Fra il mattino del pane e miele e quello del padre consumato ci furono tanti volti e tante parole. E dopo passavano i soli e le lune sulla mia testa, dovrei dire sulle fronde del sicomoro, e molte donne venivano a riempire le brocche e gli otri accanto alla mia stuoia. Ma avevano una luce diversa negli occhi. Non era voglia, non era il sudare di mani, il contrarsi del ventre, il respiro affannato. Era un lampo che subito si spegneva come bagnato da preghiere frettolose. Una mano premuta sulla bocca di un grido, era qualcosa che non aveva il tempo di montare nutrendosi di se stessa, ecco perché avevo escluso fosse l’odio. Era forse paura, se non proprio rispetto. Un giocattolo rotto, un non più sperare. Anzi, un non più osare per non offendere nessuno, come ho detto, sulla terra o nell’alto dei cieli.
Mi chiedono quali giorni ci aspettano e come posso spiegare loro che un “nevi” parla al presente. Domani, forse, questo lago sarà prosciugato dall’ira divina o dalla sete degli uomini, chissà, non ci saranno più pesci e i frutti del mio amico sicomoro cresceranno secchi e penduli come uno scroto svuotato del suo ardore. Ma perché mi chiedono di domani quando è oggi che viviamo? Ho nelle mie mani, come nel fitto dei miei pensieri, una sola certezza, so che io sono nel mondo per il momento, in questo momento. Lo so perché oggi l’ombra dell’albero mi rende il riposo dolce come l’abbraccio di una vergine, non posso chiedere a nessuno quel che sarà domani perché tutti vivono con me lo stesso momento. Allora, mi chiedo, perché mai ho voluto dare a quel padre la speranza incastonandola nel futuro? Per fuggire da me il problema immediato? Ho sperato che se ne andasse presto, lontano dalle rive di questo lago, ma gliel’ho permesso io, con la mia profezia balorda che mi alleggerisce oggi ma, allo stesso tempo, mi pesa sulle spalle nell’attesa che quel giorno si compia.
È sera, appena vedo il tramonto colorare i rilievi lontani per me è già sera. E con quel colore divino rassereno subito il mio spirito e tento di addolcire le mie voglie. Anche oggi le donne sono passate dritte, con le loro brocche sbeccate sulle teste, mi guardavano rubando uno sguardo furtivo dietro i veli scuri. Mi scrutavano in fila, una dopo l’altra con un sorriso leggero che potevo solo indovinare, nascosto com’era dal tessuto. Ed io, lì ad aspettare che almeno una sola di loro si avvicinasse per chiedermi di seguirla dentro casa, che mi facesse almeno un gesto che non potessi travisare. E invece la più giovane si è limitata, unica fra loro, a lasciarmi una scodella di zuppa fredda. Si è chinata verso me quel poco che bastasse perché io potessi vedere la pienezza dei suoi seni dentro la minima scollatura della veste, appoggiata la ciotola di legno mi ha guardato negli occhi. Non distoglieva lo sguardo, non lasciva però intendere alcuna bramosia, solo si sincerava che io potessi affamarmi alla vista di quanto mi stava mostrando con crudeltà. Mi fissava con quegli occhi, e solo quelli, il suo corpo non parlava ma io l’avrei presa comunque lì sulla mia stuoia davanti alla processione delle femmine. Poi si tolse il velo lasciando scoprire ricci notturni che andarono a sfiorare due labbra di frutti maturi, perfette, disegnati. Quei datteri gonfi e sodi mi dissero nel silenzio che non ero più un uomo. Non ero più quel tipo di uomo. Con lo sguardo fisso e una lentezza che dura ancora oggi, si passò la lingua lungo i contorni della bocca perché io provassi rimpianto di ciò che ero stato per loro, per prendersi gioco del mio desiderio, per riportarmi un poco dei discorsi che certamente facevano nel buio chiuso delle loro abitazioni, nei pomeriggi rubati alla mutilazione quotidiana dell’esser donne in questo mondo di uomini assenti. Voleva la mia voglia e non me… proprio lei che non mi aveva mai ospitato nel suo letto e forse proprio per quel motivo era stata invitata dalle altre donne a rendermi ridicolo. Quella sì, era una profezia. Due labbra di miele e un velo che le incorona, una giovane donna che mi ha fatto guardare nel passato, che mi ha spalancato le porte dell’evidenza di ciò che ero e di ciò che per loro non sarei più stato. Un rammarico è una profezia. Questo è? Il domani è la conseguenza. Domani non potrò andare a bussare alla porta di questa meraviglia anche se le sue labbra non mi hanno dovuto mostrare quella porta per farmelo capire. E quell’uomo che mi ha chiesto di suo figlio… perché gli ho dovuto dire che sarebbe tornato? Non sarebbe forse bastato dire ciò che suo figlio faceva ora? Non avrei sanato i suoi giorni futuri se non gli avessi fornito un orizzonte più lontano di quanto lo sia davvero? Non ho fatto altro che spostare il suo sguardo fin dove non può vedere, rendendolo più cieco di quanto sia, più inquieto di quanto dovrebbe essere. Come nebbia nel mezzo di una tempesta di sabbia. Ho dato a quel povero uomo più tempo per poter sperare. In ogni caso, io oggi so cosa non sarò più domani per gli altri, quelle labbra me lo hanno detto portandomi una zuppa fredda che ha il gusto di ciò che non posso mangiare.
Fabrizio,
hai una prosa meravigliosa: originale, affascinante, quasi ipnotica.
Sono stato letteralmente trascinato nell’epoca e nella vita del tuo personaggio, a barcamenarmi tra le sue domande e le sue incertezze.
Bravissimo.
Lorenzo,
posso solo dirti grazie. belle parole. Grazie se sono riuscito a farti vivere in quel posto e in quel tempo per 5 minuti.
Splendido racconto. Profondo, imaginifico, efficacemente pittorico. Da leggere!
Straordinario Fabrizio questo racconto, ho sentito tutto quello che hai descritto come reale.
ho percepito la fame, il desiderio e i dubbi del protagonista con una intensità mai provata.
La tua prosa è straordinariamente elegante, matura e non teme incertezze.
Bravissimo!!
Complimenti per il tuo talento, silenzioso e autentico e per la scelta di ogni singola immagine che accompagna lo sguardo del lettore “fin dove non puo vedere”, con estrema dolcezza e bellezza, senza peccato.
Giulia