Premio Racconti nella Rete 2017 “Adorante oltre la soglia. Dexidêio” di Fabrizio Chiarini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Mi dissero, quando ero ancora nuda e i miei capelli fradici dell’acqua di eterno battesimo, che l’oracolo aveva proferito.
“Irrompere in quel che non sono, per fare insurrezione. Vedere con gli occhi degli altri e graffiare sul muro che hanno ragione”.
Mi dicono che la mia voce tremenda e celeste, quella per la quale sono pieni di timore gli animi mortali, ha parlato la lingua divina. Eppure non ricordo, come sempre, non ricordo affatto il suo suono, il mio moto, il palpitare del fuoco e dei presagi, non sono altro che un contenitore vuoto alla coscienza quando per me, per mezzo di me, Egli parla all’uomo. Neppure il buio dell’antro, i pieni respiri dentro il cerchio di adoranti, può entrare in me quando io non ci sono, quando la mia consapevolezza è altrove e immemore. Niente in me, come nessun uomo potrà mai essere in me. Non sarei degna, non potrei essere pura come l’oro o l’acqua di fonte, il fiocco di neve iperborea prima che tocchi il fango, fango e creta è quel che siamo. E io sono anche il vuoto. Quella è la forma della mia anima più che del mio corpo caduco e mortale.
È difficile spiegare lo sguardo delle donne, quella strana luce che vedo non appena apro gli occhi dopo che la Sua volontà se n’è andata per lasciare spazio ai miei desideri di essere umano. Difficile, sì, ma anche semplice riconoscere l’invidia. Mi asciugano, mi sorreggono indagando e ignorando i pudori, sento le loro mani sul mio corpo fin dove non dovrebbero osare, sento che vorrebbero essere me anelando l’unione con la divinità, come se quell’unione fosse un amplesso di carne e sudore, morsi e turbamenti oppure dolci e maturi abbracci. Stupide, non sanno che io non conosco né l’abbraccio dell’uomo né quello dell’onnipotente! Due assenze uguali e contrarie, due coscienze disunite. A volte in contatto per mio tramite.
E sono passati anni, ho visto fiorire il mio corpo nell’assenza, ho odiato, come persisto oggi, la pienezza a metà della mia vita, questi seni pieni e inutili, il ventre, il mio ventre sfiorato dalle ancelle al bagno. Non sono neanche sposa di Lui come le stesse ancelle e le servitrici bisbigliano dietro i veli del tempio. Ma è la strada che ho trovato, non ho fatto altro che raccogliere sassi lucidi e bianchi sulla strada che ho trovato già tracciata, alcune notti penso che i passi sulla polvere non siano miei ma… Pensieri, nulla più, ho imparato che tanto mi basta.
Ho imparato che devo vedere il mondo con gli occhi degli altri, con l’occhio strabico della schiava anatolica, la vecchia che mi sorregge fino alla fonte dove lavo il sudore del cieco incontro divino, devo vedere con la cupidigia della sacerdotessa, la stupidità della giovane vergine appena condotta al santuario, con la fierezza delle sorelle che mi hanno preceduta immolando la loro giovane età alla bramosia rapace degli adoranti. Devo guardare il mondo con i loro occhi e mi sta bene, non mi servono gli occhi per vedere l’essenza che dal centro di queste pietre odorose si spande oltre il recinto, oltre il bosco e la fonte, oltre le mura della città, laggiù, ben oltre il trono e le orge di corte. E non mi servono occhi per vedere l’assenza.
Hanno tutti ragione, hanno tutti il loro scopo e le loro ragioni, perfino l’astuzia e la violazione hanno ragione d’essere, la malvagità ha il suo ruolo. Fino a ché Lui parlerà per me e la sua voce disporrà delle azioni degli uomini, persino delle loro voglie.
È venuto il re a chiedere la sorte della sua guerra, aveva l’aria spavalda dell’irruenza e dell’ignoranza. Per me ha parlato il divino e la voce si è tramutata in parole che dalla sacerdotessa sono giunte a lambire gli orecchini d’avorio e la sottile corona d’oro. Gli ha ricordato che le sorti della sua guerra non sono altro che il destino del suo popolo, la sua sconfitta non è la perdita dell’onore e della dignità regali ma il fato tremendo di donne e bambini, gli occhi chiusi di vecchi in sangue sui campi di farro, le dita callose strette nel pugno della morte di giovani che non respirano più sogni futuri. Ma non capirà, i suoi occhi vedono il mondo come un suo divertimento, il suo popolo come suo schiavo, le sue donne come le sue concubine obbligate a compiacere i sontuosi istinti. Eppure egli ha ragione, come potrebbe vedere con gli occhi di ciò che non è, che non può essere? Deve guardare il mondo così, deve affacciarsi dal balcone della sua stanza e scrutare l’orizzonte con gli occhi di un re. Non può permettersi vita diversa.
Alla fine penso che la voce che non sento sia solo per me, l’unica che non la può udire, però l’unica che la può intendere. Allora perché, mi chiedo, tutta questa devozione, tutto questo timore? Forse, fino a quando ci saranno donne come me, loro (loro tutti) non dovranno preoccuparsi di guardare il vero, non saranno obbligati a pensare in modo diverso da quel che sono: un asino è pur sempre un asino, un sasso solo un sasso. Voglio dire, a condurre l’animale e inciampare sulle pietre del cammino c’è l’uomo.
Tutti scaricano sulle mie spalle il dovere di saper guardare con occhi diversi, il doversi mettere nei panni dell’altro. Sono io che compio il dovere per tutta la comunità e fino a quando Egli sceglierà una sola donna da far vibrare al suono della sua voce non ci sarà bisogno per loro di adeguare i propri occhi alla realtà. Io devo vedere il vero per loro, io sacrifico me stessa per la libertà idiota di tutti loro: la libertà di non rispettare, la libertà di rimanere ottusi e complici.
Vi dico qual è il sublime sacrificio: ero bambina quando spiegavo a mia madre che quella voce non era mia e non aveva un’origine che potessi invece spiegare a me stessa. Nei suoi occhi pieni di sorpresa e cupidigia ho visto formarsi l’immagine dell’improvviso abbandono, era per lei la rivelazione di una fortuna inaspettata già che mio padre chissà chi era, chissà dov’è e che strade ha percorso. Le promisero, ricordo quasi come un sogno vaporoso, bestie da accudire e macellare quando sarebbe giunto il momento, frutta degli alberi che crescono dentro il recinto sacro del tempio, le giurarono che nessun uomo avrebbe osato toccare la mia carne… e così fu. Dannati! Doveva solo darmi a loro, al dio. So che mia madre ha una degna capanna al limite del villaggio, so che le donne la guardano ammirate e gli uomini macchiano la lama delle loro falci per contendersi il suo letto. La radice di questo risiede in quella voce che non è mia, che proviene, sì, dalle caverne mucose del mio corpo ma ha origine altrove, in un posto che esiste altrove dove gli uomini non possono far penetrare la loro ragione, la tenue scintilla della loro intelligenza. Questo è: lei un giaciglio sempre caldo, io una voce che mi penetra e prorompe per il piacere di altri.
In tutto questo, persino nei brevi percorsi che compio fuori del recinto proibito, scortata dal corteo di supplici adoranti, vedo che l’uomo mi teme. Fra l’oro nelle pieghe delle loro vesti sacerdotali io vedo e so, leggo la tremenda reverenza, la dolce paura che infiammo nelle loro anime miserabili, persino il loro sentirsi sollevati grazie alla mia funzione. Io placo il mio desiderio fra i veli della portantina, con il palmo della mano nascosto nel sudore ma prima di tutto nell’enorme misura dell’unico che in qualche modo è dentro di me, io vergine più penetrata di queste donne. Più in profondo, nel più intimo e intangibile. Per questo non ho paura nell’osare che io stessa divento, seppure senza averne coscienza, la dea, io sono divina quando non c’è il mio spirito e sono una cosa sola come nell’amplesso. Di più, io so che nel pieno dell’assenza, mentre sono altrove e un’immane volontà assedia, vince ed occupa il mio corpo, io compio atto di adorazione. Ho la certezza che seppur priva di coscienza io adoro. Perché è nell’assenza, nel vuoto e nella mancanza che io divento quel che sono, compio il mio destino, la mia funzione, ed apro i miei occhi al posto degli occhi della nazione adorante. Oltre la soglia. Nella mancanza il mio corpo e il mio essere si riempiono dell’immane e, da me, Egli pervade il mondo del suo riflesso assoluto. Per me sola, nel vuoto, il mio desiderio di pienezza viene appagato. Per me sola.