Premio Racconti nella Rete 2017 “Madre di carità” di Fabrizio Chiarini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017È forse qui che posso piangere il mio guerriero? Qualcuno mi dica, imploro, se è questo il luogo, questo è il tempo. Ma ditemelo ora perché le guardie a cavallo che arrivano dalla città delle palme vengono per il mio misfatto e non per il male che lo ha preceduto. Perché la mia colpa debba essere più grande di chi ha fatto del male a me proprio non lo so. Cosi, per carità, ditemi ora perché non ha più argini il mio dolore. Eppure una tenue carezza, qui vicino alle fiamme, rischiara e anestetizza i miei sensi, ora che le braci scaldano e due giovani si stringono inconsapevoli del male brulicante di questo misero posto.
È arrivato con la criniera fiera del leone, l’audacia nello sguardo e una tunica strappata. Poggiava il troppo camminare sull’asta sghemba della sua lancia, il vento sembrava nascere solo per scompigliare i suoi capelli di corvo. Non portava prede, né per la sua fame né per quella altrui, l’unica cosa che poteva sfamare era la curiosità dell’intero villaggio ma non per questo si prestava a spiegazioni di qualsiasi genere. Era un uomo taciturno, profondamente nobile come può essere nobile colui che ha preso molte vite in battaglia. Era un uomo solo e triste se in questo si può scorgere nobiltà. Ma noi umili siamo fatti così, a volte ci accontentiamo della freschezza, a volte ci basta la solita abitudine. Siamo esposti alle voglie strane del tempo, ai suoi umori che cambiano e confondono e a volte ricompongono l’ansia di vuoto e noia.
In questo posto sperduto, dove non più di venti anime vivono raccolte a due passi dal centro più grande, c’era sì qualcuno che riusciva a strappargli qualche parola di più dalle labbra serrate, c’era inoltre chi ascoltava i silenzi e poteva trarre più significato degli altri. Poi c’ero io, quel tipo di donna che attende il suo eroe in cima a una collina di grano, che aspetta di scorgere la figura tremolante nel calore che evapora, capelli al vento, in un qualsiasi pomeriggio ardente ma il peccato più grosso, non per me, era la macchia scura che hanno appeso alla mia anima. Prostituta! Come se una donna che ha già perso due mariti e qualche amante occasionale potesse essere colpevole della propria sventura e della propria solitudine. Non bastano già queste sciagure a far di me una sopravvissuta? Nossignore, non per loro.
Mangio e prego come gli altri, solo un po’ più scostata dal vociare, tiro su la veste dietro il cespuglio quando devo liberarmi, respiro e vomito, esulto e dormo, scelgo un uomo e rido. Proprio come fanno loro. In tutto questo ancora non avevo capito quale fosse il motivo dell’odio nei miei confronti. Nel silenzio delle mie sere davanti ad una striminzita focaccia ora ne conosco la ragione. Colpa di quel… eternamente giovane, con le braccia forti e il rifiuto di parlare. Uomo che arriva dal nulla, passa, lacera la tua vita e vola via in un turbine di vento e foglie che salgono al cielo, dove non posso più scrutare niente altro che il vuoto che resta in me e il sole che arde le pupille accecate dalla meraviglia e dallo sconforto.
Non ricordo se piangevo o facevo l’amore con un viso dimenticato quando un impercettibile tremore fra le travi della mia dimora mi invitò ad uscire alla luce. Subito non successe niente, non c’era nulla di diverso dalla logora miseria di sempre. Angoli vuoti, cani dal pelo rado e qualche pianto di neonato audace nel persistere, nel volere restare in questo mondo. Nulla faceva presagire l’ennesimo strappo nella mia vita, ancora non sapevo che avrebbero marchiato la mia esistenza con una turpe cicatrice invisibile agli occhi. Fatto è che dalla strada che arriva da occidente, la via che solo gli uomini delle merci percorrono con abitudine, giunse un sogno vibrante, una visione, mi dissi con coraggio. Lo vidi sulla cima della debole collina, fra il verde dei campi sbiaditi alla mia vista non più giovane. Sembrava il dio marziale che venerava la madre di mia madre, con le sembianze eternamente in fiore di una bestia famelica annerita al sole.
Non ebbe molta scelta, solo una pazza come me aveva l’ardire di starsene ferma e spoglia a metà sul limitare della strada e quando giunse a valle, alla distanza di un solo respiro da me, mi chiese (no, non chiese, direi il falso, solo capii) se poteva entrare al fresco della mia abitazione. Gli indicai l’uscio con il dito appeso all’estremità del mio braccio, non avevo parole e non avevo vergogna (non lo capivo allora). Quel che invece avevo era la possibilità di scegliere. E forse scelsi male. Mi accorsi, quando mi voltai che la sua mole copriva i contorni della capanna, quasi che come in un oscuro presagio quell’uomo stesse inghiottendo ciò che mi appartiene, poi in un solo attimo fu la mia casa ad inghiottire lui. Due stomaci che lavorano ognuno per sé, ed ognuno assorbe e uccide e trasforma. E brucia. Ah, se brucerà!
Quindi non ricordo se, entrando, egli trovò lo straccio che asciugava le mie lacrime o l’odore di un maschio dal volto dimenticato aleggiare sul mio giaciglio, io trovai la mia meravigliosa rovina. Come sempre fanno i deboli o gli sconfitti, pensai fosse solo il destino. E al destino non ci si oppone, si accetta semmai con la sottomissione pacifica e confortante di un cagnolino che attende il pezzo di pane secco dal suo padrone.
Il proprio nome lo sussurrò nel fumo del focolare e prima di giungere alle mie orecchie quel suono si gonfiò di umido e calore, entrò nelle mie narici con l’odore acre del legno mezzo bagnato. Gli dissi il mio, allora aveva ancora importanza. Mangiammo qualcosa e lui si addormentò senza prendere nulla più, niente altro di mio. La sua testa giaceva sulla terra ben battuta accanto alla lancia, non avevo mai visto un soldato dormire. La curiosità mi spinse a guardare da vicino l’arma, cercavo tracce di sangue incrostato o l’eco di qualche battaglia, non trovai nulla, solo metallo logoro e legno crepato. Lui dormiva e io non potevo, forse era la paura e l’inquietudine di avere uno straniero, uno sconosciuto, così vicino, forse già mi chiedevo se sarebbe rimasto e fino a quando. Non ricordo molto altro di quella notte ma il silenzio sì, era vero e profondo come il suo sonno. Immaginavo il buio all’esterno e soltanto per un attimo mi sembrò di udire il belare di una pecora, lontano.
Mi risvegliarono il mattino e i suoi occhi che mi fissavano, dapprima vuoti poi grati per il ristoro, non osò bere il poco latte che avevo, attese invece che lo invitassi a farlo, lasciò più di metà ciotola a me e fu gradevole serrare le labbra dove le aveva poggiate lui. Bevevo fissando il suo sguardo attraversato dai raggi che dal mattino di frasche intrecciate entravano nella capanna, vedevo la polvere levarsi senza l’alito del vento e scrollavo di dosso gli ultimi brividi della notte. Quello fu un bel risveglio, dopo tanti anni.
Ricordo anche che finalmente mangiammo carne di agnello ma fu molti mezzogiorni dopo. Il profumo era delizioso, l’odore delle erbe selvatiche scoppiava nelle narici. Ero felice, posso ammetterlo, non ci sono più orecchie che possa offendere, anzi. Ero felice, non gli chiesi mai se provava la stessa sensazione di calma, era piacevole stare chiusi ed uscire all’aperto. Mi offrii e mi prese senza la bramosia e la fretta che pensavo avesse ogni soldato, non fu certo dolce ma attento, quasi premuroso. Se ripenso al suo sudore che distillava dai miei gemiti, le sue mani che mi davano piacere… ma è passato.
Mi disse con poche parole che l’ultima guerra era stata troppo per lui, non voleva più vedere né sentire le urla Forse era stata come tutte le altre ma una di troppo. Capii la sua stanchezza, dietro gli occhi marroni gli anni erano passati anche per lui, nonostante l’aspetto aveva combattuto a lungo e vissuto poco. In questo era molto prossimo a me, e il sentirlo vicino in quei giorni faceva bollire da sola l’acqua sulla brace e volare i tordi sui campi. Non sbagliai quando mi convinsi che il sole sorgeva per causa sua e i ragni tessevano la tela per ringraziarlo di essere sotto lo stesso cielo. Ma quando la causa non è più, allora tutto smette di esistere.
In quell’ultimo scontro aveva abbandonato lo scudo di pelle, le urla dei compagni e il disprezzo del suo generale, era fuggito come presero a dire al villaggio. Le donne cominciarono a guardarlo con il mento serrato e i vecchi ad aver paura. Più volte gli dissi che forse doveva andarsene, ne sarei morta ma lui avrebbe continuato a percorrere le strade di questo mondo. Purtroppo non temeva di essere trovato, io credo che sperasse, in fondo, che da un momento all’altro arrivassero le guardie per prenderlo e compiere giustizia della sua defezione. Gli confidavo la mia paura quando giacevo con lui o quando eravamo chini sulla terra a scavare per raccogliere radici ed erbe amare. Una notte lo spinsi fuori dalla capanna con le lacrime agli occhi, senza dire una sola parola, neanche il suo nome, gettai la lancia ai suoi piedi e il buio era così fitto da togliere il respiro. Sperai di sentire i passi dell’addio e invece lo ritrovai il mattino dopo in piedi davanti alla porta, infreddolito senza un’espressione plausibile sul viso. Lo riabbracciai nella coperta e mi rassegnai a rimandare il distacco. Ma non era ancora dolore, dannato somaro d’uomo. Nell’abbraccio della lana leniva i singhiozzi pettinando con le mani ruvide i miei capelli sporchi di sabbia, mangiavamo rubando le frasi degli altri che passavano e minacciavano di denunciare la sua presenza. C’era sempre un gravare appeso alla mia vita, peso che lui quasi non sentiva o sopportava meglio di me.
Anche quando si prestava ad aiutare i contadini, quando accettava di riparare i muri e i tetti delle altre case, di abbeverare le greggi… anche in quelle occasioni veniva ripagato con un po’ di farina e tanto, troppo, disprezzo. Ma lui continuava, non sembrava turbato, almeno non quanto lo fossi io.
Ebbi persino il tempo di distillare le mie paure fingendo che quei giorni in sua compagnia fossero eterni o quasi,intanto erano passate due stagioni dal suo arrivo, mi dicevo che ormai era salvo, forse che io ero salva e forse il mondo intero con noi. Almeno ebbi modo di assaporare la felicità piena e di conoscere i suoi sorrisi rassicuranti. Peccato solo non ricordare ora troppo bene il suono della sua voce. Sono felice anche se fu un errore essermi dimenticata che la mia felicità disturbava qualcuno, forse tutti, una donna come me andava punita prima o poi: come può una puttana vivere fra gente perbene. Dimenticai, ecco la colpa più grande, che nessuno fino ad allora osò mai alzare un dito su di me, troppa la paura. Dimenticai che un modo per fare del male lo avevano già e non lo avrebbero ignorato.
Fu quando il piccolo ponte di legno e corde si ruppe sotto il peso della figlia del falegname. A quel tempo iniziò la mia fine. Era in acqua fra le grida delle donne che lavavano i panni poco vicino, una sottile stringa di sangue volava sospesa sul suo corpo e gli sguardi sorridenti e maligni dei bambini stavano fissi alla corrente. Lo giuro sul loro dio, ricordo ogni singolo istante. Sembrava svenuta, se non del tutto esanime, e stava immobile nell’acqua. Nessuno osava avvicinarsi. Le grida richiamarono il padre e la madre, la piccola sorella. Nessuno osava avvicinarsi e lei non si muoveva, il suo sangue rivelava ancora un minimo di vita che stava per andarsene. Un palo le era franato addosso nel crollo e la tratteneva, impigliato al vestito, due braccia sotto il pelo dell’acqua. Il mio soldato si gettò, due volte dovette riprendere fiato per spostare la zavorra di legno, neanche il padre di lei si tuffò per soccorrerla, attonito e atterrito, forse. Ma io già li avevo visti, non me ne resi conto subito a causa delle grida e della confusione. Me ne accorsi perché una piccola nuvola di sabbia li annunciava. Il mio soldato lottava contro il tempo e contro l’indugiare dei presenti, sentivo l’aria che aspirava consumarsi dentro i miei polmoni in fiamme, il mio cuore pompava sangue nelle sue vene, il falegname era in ginocchio con le mani sulla testa. Fu la moglie che scese in acqua senza controllare i propri gesti, facendo ancora più confusione, attaccandosi alle braccia del mio guerriero. Ci riuscì! Esultai per lui e per me, esultai in un Alleluia! che non avevo mai pronunciato fino a quel giorno. La teneva così stretta a sé che quasi provai gelosia, vidi i capelli di lei carezzare l’acqua e la piccola ferita sulla tempia, era meravigliosa e muta, lui immenso. Riuscì a trascinarla sull’argine scosceso, prese per i capelli anche la madre e la tirò in salvo. Si chinò sul volto della giovane tanto che quasi temetti volesse baciarla, questa aprì un poco gli occhi poi gli tossì l’intero fiume sulla faccia. Il falegname si avventò su di lui, la sua vergogna e il senso di inettitudine colpirono il mio uomo con un pugno sul mento, il mio soldato si ritrasse sorpreso… gli gridò di non toccare sua figlia, che era già un uomo morto. Non capii nulla, ero turbata e arrabbiata, però subito s’incendiò un’immagine che ho ancora fissa nella mente, vidi esplodere la figura di una guardia a cavallo riflessa nell’iride del mio soldato. Io mi voltai e sentii solo dire che erano lì per lui, che qualcuno li aveva avvisati della sua presenza sgradita e dannosa. Rispose loro che non era importante, che tanto gli era bastato per poter dire di avere alla fine vissuto e, in tutta onestà, vissuto di una vita piena. Gli intimarono di allontanarsi dalla ragazza, lo legarono, gli serrarono le mani giunte sul davanti nell’atto di una preghiera forzata. Mi baciò per l’ultima volta mentre un calcio gli ordinava di muoversi e, in atto di fede, chiese alla mia carità di badare alla ragazza perché il padre sembrava corroso da un rimorso che solo adesso mi è chiaro ma che lui aveva di certo intuito lì sull’argine. Fu quel giorno che lo portarono via per far giustizia di un’empietà, ma di quella sbagliata.
Da settimane fisso il cielo per guardare gli uccelli là in alto senza una meta precisa, cerco di indovinare il loro mistero. Mi domando perché Dio non ha fornito di ali il mio soldato per poterlo salvare, farlo volare via, in alto tra i ricami degli altri uccelli, il vento mi risponde da giorni che ora è così, che ora anche lui ha le ali che lo portano in alto lontano dalle frecce e dalle lance degli uomini. So che è solo un misero placare del mio animo, una consolazione di carità che concedo a me stessa.
Eppure, con il trascorrere dei giorni il mio dolore divenne muto. Lo sentivo addosso come una seconda pelle infiammata e lo trascinavo gridandolo al cielo, tra le aride valli. In me. Tentavo, dapprima, di grattarlo via con le pietre aguzze del grande fiume ma ottenevo solo un dolore più sopportabile e questo non mi piaceva, vedevo graffi e tagli che distoglievano solo un poco la disperazione e fissavano invece il mio pensiero sul ricordo di lui.
Ci misi un po’ a capire che a ucciderlo non fu il suo ma il mio amore e il loro odio cieco che mai avevo conosciuto. Lo misero a morte i miei morsi privi di vergogna, i miei gemiti, lo condannarono loro per uccidere me. In tutto e per tutto esseri maligni e spregevoli.
Passarono settimane e mesi durante i quali vedevo il mio volto riflettersi nella bacinella dell’acqua sempre con la stessa espressione vaga, anzi, era quel volto che fissava me rosso d’ira sulle guance, con più vita. La mia, quella mi aveva ormai abbandonato senza trovare, forse, un altro corpo da occupare atterrita dal mio stesso sconforto. Ma non ero ancora vinta, avevo bisogno di tirare avanti un altro po’. Un continuo rumore lontano assediava le mie orecchie, quel che è peggio è che l’abitudine a quel fastidio tardava ad arrivare e tardava sempre più la sera che, unica capace potente, stroncava i miei giorni inutili strozzandoli nel sonno privo di sogni.
Mentre vomitavo la mia bile nella profonda solitudine mi accorsi che i vicini mostravano ora compassione. Per me. Per me? Certo, ora la loro sete di giustizia era stata soddisfatta, non provavano più schifo e disprezzo nei miei confronti. Adesso sì, il villaggio era stato mondato, la frutta sarebbe cresciuta gonfia e dolce sui rami, la pioggia avrebbe fecondato i campi con un seme d’oro. Il balsamo della giustizia calmava i bruciori della loro pelle. Ma io volevo che fossero le loro anime a soffrire.
I bambini ora giocavano alla guerra vicino alla mia porta, la figlia del falegname attendeva il suo amato di nascosto, al riparo della mia capanna (quello lo presi come un affronto ma degno di rispetto, privo di quella misura macabra che ha invece il disprezzo). Le donne stendevano i panni al sole vicino ai miei senza badare alla prossimità di quei vestiti impuri e depravati, quasi la morte del mio soldato avesse potuto lavarmi degli eccessi di troppa vita, del sudore impuro, dei dolci incontri di dattero proibiti, immorali. E mi guardavano con pietà, mi squadravano con ignoranza, mi fulminavano i loro sguardi di desiderio, rimpianto e invidia. La pazza veniva a sfregarsi sulla sabbia del mio piccolo orto, strofinava il suo ventre inutile sul legno della mia catapecchia nella speranza di rubare i miei coiti passati. E intanto anche lei mi odiava di vuota imitazione.
Decisi che il mio mondo finiva lì: quando la causa non è più, allora tutto smette di esistere.
Sparsi la voce che volevo lasciare il villaggio, spesso mi rispondevano sorrisi soddisfatti e sospiri di sollievo. Dissi che avevo intenzione di riparare la capanna per lasciarla ad una sorella che non è mai esistita. Pagai il falegname, anche giacendo con lui, perché rinforzasse le assi e costruisse una nuova porta in grado di reggere l’urto di un esercito, ci vollero due settimane di lavoro. Comprai olio pregiato e vino scambiandoli con tutto il mio raccolto, lavai panni ogni giorno per poter comprare un capretto. Raccolsi erbe aromatiche e fasci di rami secchi. Alla prima luna calante invitai l’intero villaggio nella mia capanna. Dissi ai due amanti di approfittare dell’occasione per rimanere appartati. Cucinai dalla sera prima per riempire tutte quelle pance, per far sentire i miei ospiti rispettati e a casa loro. E vennero tutti! Cosparsi i muri di legno con l’olio profumato, interrai i fasci secchi un palmo sotto la sabbia. Li feci sedere tutti in cerchio mentre il capretto fumava ancora e le erbe malsane saturavano l’aria di un presagio disgraziato e velenoso. Il vino scorreva dall’otre per offuscare le menti e legare le volontà, le donne ridevano orribili risate e gli uomini vomitavano bestemmie pulendosi gli angoli unti della bocca sugli orli delle tuniche. La mia capanna sembrava ora una corte di luride maschere, di anime sporche e maleodoranti. Il peggio del mondo intero, convenuto al cospetto della mia vendetta, era invitato ad un ultimo banchetto. Li odiavo e commiseravo. Uscii al buio, c’era ancora il rumore che mi dava il tormento ma sapevo che sarebbe finito di lì a poco, appiccai il fuoco dall’esterno e neanche la luna poté essermi testimone perché coperta da un velo di nuvole. Sprangai la porta, la puntellai come puntellai ogni singola trave con un palo robusto e una pietra appoggiata al terreno. Corsi mille volte attorno alla mia penultima dimora avvolgendovi una spessa corda caritatevole. Poi bruciarono sotto un cielo buio, tutti insieme, ridendo e gridando, implorando e maledicendo. Morirono tutti e alla fine il male fu giustiziato.
Adesso che egli è morto, ora che bruciano le carni dentro quella che fu casa mia, sento solo il silenzio. Per questo motivo ho voluto sopravvivere al sacrificio: non per viltà o paura ma per poter godere di questo silenzio che finalmente affoga e carezza, come madre di carità, il mio dolore. Solo ho lasciato che vivessero i due giovani amanti che venivano ad abbracciarsi al riparo della mia capanna, e forse sono ancora stretti l’una all’altro ignari d’ogni altra cosa. Ho avuto cura della vita che il mio guerriero ha salvato e lasciato in pegno alla mia coscienza. I loro baci non fanno rumore. La sua ultima preghiera è stata esaudita. Ora capisco il sacerdote che nel rosso del sacrificio ascolta il mondo diventare muto dopo l’ultimo assordante pianto del capretto. Qui, oggi, per me, l’enorme si placa.