Premio Racconti nella Rete 2017 “Un uomo rinchiuso e immerso in un barattolo” di Giovanna Buccella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Se qualcuno mi avesse predetto che in un futuro non molto lontano avrei rimesso piede in questo posto, non gli avrei creduto. No, avevo escluso a priori la possibilità di ritornare sui miei passi, e quando prendo una decisione, difficilmente torno indietro. Invece, dopo tre anni dall’ultima volta – alla soglia dei miei quarant’anni – eccomi qua.
Adesso, questo appartamento sembra diverso, perché svuotato di tutto – mobili, oggetti, tende, lampade – ma l’aria che vi si respira è sempre la stessa, nessuno è riuscito a portarla via… e nemmeno a cancellarla con una mano di vernice. La luminosità e la vitalità che risiedevano nel suo corpo e nella sua mente sono rimaste impresse sui muri come carta da parati. E va bene così, davvero. In fondo, sentirla ancora presente è ciò che avevo sperato quando mi sono trovato davanti a questo palazzo, in attesa dell’agente immobiliare.
Sì, perché è da un anno che sono alla ricerca della mia nuova casa. Ho preso questa decisione dopo aver trovato il coraggio di terminare una storia che mi stava stretta, per ricominciarne una nuova. Da solo. Certo, perché a cosa serve rimanere a fianco di una persona se non si ama più? A niente… in questo modo si continua solo a farsi del male a vicenda. L’ho capito tardi, purtroppo.
Scrivere un punto non è stato abbastanza. Ho dovuto cambiare foglio. Avevo bisogno di una pagina bianca, priva di errori, di cancellature e ombre.
Appena sono entrato qui dentro ho avuto la certezza di aver trovato il mio nido. Finalmente, ho messo un punto anche a una ricerca che mi stava snervando. Sarà contento l’agente immobiliare che mi ha fatto visionare chissà quanti appartamenti! Ma nessuno mi aveva convinto. Erano asettici oppure trascurati… e comunque, privi di emozioni.
Giuro che ho avuto la stessa sensazione di un tempo: l’impressione che fosse stato vissuto da una persona che aveva tanto amore da donare al prossimo. Anche se vuoto, è la percezione che si prova girando per queste stanze, con precisione quattro: una camera, un bagno, una cucina e un salotto. Il suo ufficio, la prima stanza cui si accede entrando, adesso è un salotto. È qui che ci siamo incontrati.
In verità, la prima volta ci siamo “scontrati” all’interno del cellulare, addentrandoci in uno di quei giochi che permette anche di chattare. Per lei era la prima volta, non si era mai cimentata né in una sfida con estranei privi di un volto e una voce, né in uno scambio di messaggi innocenti, perlopiù battute. La definì la sua prima esperienza e il suo primo e ultimo esperimento. Sì, perché mi confidò che a molti dei suoi pazienti era capitato di prendersi una sbandata per uno sconosciuto incontrato per caso in rete. “Assurdo”, mi scrisse.
Ah, dimenticavo di dire che era una psicologa. Questo l’ho scoperto dopo tre mesi di conversazione scritta. Non mi aveva riferito questo particolare perché era convinta che avessi temuto d’essere analizzato. Ovvio. Comunque, saperlo non cambiò l’opinione che mi ero fatto di lei.
Non so come potesse essere accaduto, ma dopo la prima battuta scherzosa che ci scambiammo ebbi la sensazione di averla conosciuta da sempre, malgrado abitassimo a chilometri e chilometri di distanza! Solare, vitale, semplice… lei era così. Mi faceva sentire a mio agio. Giorno dopo giorno, l’amicizia andò rafforzandosi. Istintivamente ci cercavamo: ci scambiammo messaggi per raccontarci qualche avvenimento buffo o noioso che c’era capitato durante la giornata, oppure due righe, tanto per fare… un saluto. Senza rendercene conto, divenimmo dipendenti l’uno dall’altro. “Bene, ho scoperto di essere matta!” mi scrisse.
Purtroppo, c’eravamo già spinti oltre. Non potemmo più fare a meno di scriverci, e se per qualche motivo non potevamo scambiare nemmeno una parola, ne sentivamo la mancanza. Eppure, la paura di sentire le nostre voci, di vederci, frenava un nostro incontro. Verrebbe spontaneo domandarsi perché mai, se eravamo diventati “amici”… beh, non era così. Entrambi, pur non essendoci mai visti, avevamo capito che il sentimento che ci legava era diventato qualcosa di più di un’amicizia.
Ci eravamo riconosciuti. Ci piacevamo, e ce lo siamo anche confessato… ma io non potevo mettere a rischio la mia vita, ero sposato, e lei, fidanzata. Nessuno dei due aveva nascosto l’esistenza del proprio partner. Nonostante ciò non riuscivamo a separarci, e la curiosità di vederla era forte, insopportabile. Divenni suscettibile, scontroso. Per porre fine al tormento che mi stava divorando, di mia iniziativa decisi di incontrarla. Ovviamente non le avevo detto niente, e nemmeno doveva essere una sorpresa.
Feci una ricerca sul web e trovai il numero di telefono del suo studio. Chiamai con la scusa di prendere un appuntamento. Per un giorno sarei diventato un suo paziente. Un altro nome, una nuova identità. Cosa le avrei raccontato? Non mi ero preparato. Dopo tre ore di strada arrivai a destinazione. Durante l’attesa – ero arrivato con venti minuti di anticipo – sfogliando una rivista vidi un’immagine che ispirò la mia fantasia: un uomo, rinchiuso e immerso in un barattolo mezzo pieno di acqua, rannicchiato si riposa tenendo tra le dita una sigaretta accesa. Sì, diventò il mio “sogno ricorrente”. Lei, da psicologa, avrebbe avuto il compito di studiare il mio inconscio. Si bevve la scusa! Mi fece una serie di discorsi sulla mia infanzia, sul rapporto con mia madre, ecc, ecc… non la stavo nemmeno ad ascoltare. La osservavo e basta. Era davvero bella… ma pericolosa. Ebbi paura. Per quella donna stavo davvero perdendo la testa.
Una volta uscito dallo studio, non la rividi né le riscrissi. Lei tentò di contattarmi più volte, ma io non risposi a nessun messaggio. Dovevo allontanarla da me, cancellarla dalla mia testa. Non fu facile. La lontananza era dolorosa, ma non potevo fare altrimenti perché non ero pronto a mettere la mia vita in discussione, anche se, in cuor mio, sentivo che era la donna giusta per mandare tutto all’aria.
Non ho mai smesso di pensare a lei, ma avvicinarla dopo la separazione da mia moglie – avvenuta nei due anni seguenti – non sarebbe stato giusto. Non sapevo che fine avesse fatto… magari si era sposata o aveva un nuovo compagno e mi aveva dimenticato, oppure mi odiava… no, non l’avrei sopportato.
Solo quando l’agente immobiliare mi ha presentato l’appartamento sono venuto a conoscenza della sua morte. Un tumore. L’anno successivo al nostro “incontro”. Mi sono maledetto. Lei stava soffrendo e io non le ero vicino, anzi, con il mio comportamento le avevo procurato un dolore in più.
‹‹L’appartamento è stato messo in vendita dal fratello… se le interessa, ha lasciato qualche quadro››, mi disse.
Oggi ho visionato questi quadri. Sono rimasto sorpreso quando ho preso tra le mani una cornice di vetro con dentro un’immagine ritagliata da un giornale: un uomo, rinchiuso e immerso in un barattolo mezzo pieno di acqua, rannicchiato si riposa tenendo tra le dita una sigaretta accesa.
Ho sorriso mentre le lacrime mi velavano gli occhi.
L’ho letto con piacere, giusta misura (in tutti i sensi). Mi è piaciuto il senso del “devo/non devo”, “giusto/non giusto”… intriganti i risvolti casuali di vita che forse casuali non sono.
Giusta osservazione! Mi fa piacere che sia risultato gradevole. Grazie
Giovanna,
questo racconto mi ha messo K.O. in senso positivissimo.
L’immagine dell'”uomo rinchiuso e immerso in un barattolo” rappresenta al meglio lo stato d’animo del protagonista, che, per paura di perdere la sua acqua tiepida ed il fumo della sua sigaretta, distoglie l’attenzione sulle meravigliose opportunità che pullulano al di fuori della gabbia di vetro che lo intrappola.
Il finale, bellissimo, è un gancio che va dritto al mento del lettore, facendogli assaporare il gusto amaro dell’irrimediabile.
Bravissima.
L’intento era proprio quello. E l’immagine realmente esiste: ha provocato in me una sensazione di costrizione tale da non immaginare nient’altro che una situazione irreparabile.
Giovanna, un racconto composto, ma che alla fine ti spiazza e ti lascia l’amaro in bocca.
Grazie