Premio Racconti nella Rete 2017 “Oltre il ponte” di Oscar Tison
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017
Dal punto dove si trovava, poteva intravedere il ponte. Avvolto nella nebbia, pareva essere nebbia esso stesso e, come quella, inconsistente e inaffidabile. Sapeva che molti l’avevano attraversato, cercando di non pensare al baratro su cui galleggiava, che si diceva essere più profondo dell’orizzonte. Di loro non si era saputo più nulla. Guardandolo, immaginava le emozioni che attanagliavano chi stava per sfidarlo, riusciva a percepire fisicamente la stretta allo stomaco, la gola che si contraeva per il continuo inghiottire saliva, il tremore del piede che si accingeva al primo appoggio sulle assi dondolanti sul vuoto. Erano persone che fuggivano, traditori della causa e, a volte, delinquenti comuni. Negli ultimi tempi, erano gli sconfitti. Immaginò, e quasi udì, il ponte scricchiolare sotto il loro peso.
Per calmarsi, accese un sigaro. Le volute di fumo gli entravano nelle narici, facendogli prudere il naso, ma, immerso nei suoi pensieri, non ci faceva caso.
Perché a volte giunge presto il tempo dei bilanci: aveva quarant’anni, si sentiva vecchio, la pistola gli pesava nella tasca della giacca e non aveva via di fuga, se non quel ponte che non avrebbe voluto, ma che doveva affrontare. Gli ritornò in mente Anna.
Alcuni giorni prima, sotto la tenda dell’accampamento.
Stava accoccolata tra le sue braccia, avevano entrambi la pelle sudata e il terrore nell’animo.
-”Raccontami una storia.” Gli chiese.
L’unica storia che conosceva era una storia come se ne sentono molte, sdrucita quel tanto che basta per poter essere la sua, e non voleva raccontargliela. Lei si girò sul fianco, girandogli la schiena. Capì che era l’inizio di un’altra fine.
Poi vennero i soldati, da nord, dopo tre giorni di pioggia, giorni che aveva impiegato a cercare di inventare una storia accettabile. Il pensiero fisso sulla sua schiena girata non gli aveva fatto fiutare il pericolo, pensava, e di questo si accusava. Le munizioni erano umide, il terreno fangoso, tutte scuse, si diceva, eravamo convinti di essere al sicuro, ci hanno scovati nel sonno, dormivamo senza scarpe. Questo, un guerrigliero non lo deve mai fare. Molti anni dopo, racconterà, a delle facce incredule e a volte irridenti:
“Correvamo fuori dalla tenda a piedi nudi sguazzando nel fango e nel fango finivamo con la faccia, quel che non facevano le pallottole lo faceva la terra, entrandoci in bocca e nel naso. Soffocavamo di quella terra che tanto amavamo da rischiare la morte per liberarla, ma ci è riuscito solo di morire.”
Rimasero vivi in quattro, forse perché scambiati per morti, forse perché i soldati si erano stancati di sparare sulle sagome infangate, forse perché anche a loro si erano inzuppati gli scarponi e il lavoro era comunque finito. Faticarono a riconoscersi, e si vergognarono di essere vivi. Anna non era uscita dalla tenda, ma questo non l’aveva salvata. Era completamente nuda e il chiarore della sua pelle creava un contrasto irreale con tutto quello che la circondava. Non volle pensare a quel che le era successo. La coprì con la sua giacca e uscì per cercare dei rami abbastanza asciutti per poter accendere un fuoco, solo per essere impegnato. Pioveva, e riuscì solo a bagnarsi ancora di più. Aspettarono due giorni, prima che tornasse un poco di sole, durante i quali raggrupparono i cadaveri, prima uno vicino all’altro, poi sopra, e sopra ancora. L’umidità usciva fumando dai rami, mentre costruiva una catasta, mentre prendeva il corpo di Anna e l’adagiava sopra, mentre lottava con l’acqua e con la pazienza per avviare il fuoco. Ci volle molto tempo. Infine spuntò una fiammella, debole, una piccola luce che lentamente diventava sempre più grande, fin che cominciò ad avvolgere ogni cosa, la catasta e il corpo di Anna, i corpi accatastati poco lontano, e la sua vita, le sue speranze, i suoi ideali. Un odore acre, insopportabile, riempì le narici e le menti. A quel punto se ne andarono, ognuno per una strada diversa.
Aveva indicato a molti il sentiero per il ponte, a volte li aveva accompagnati, incitati ad affrontarlo. Si avviò da solo questa volta, e poco dopo bestemmiò: i sigari erano bagnati. Camminò fino ad arrivare ad una radura, voleva mettere i sigari al sole, ma anche l’erba era ancora bagnata. Allora si sedette su un sasso ad aspettare, aveva davanti tutto il tempo che voleva, tutto quello che gli serviva per scacciare i ricordi e ridimensionare i rimorsi. Aveva uno zaino e un fucile, una pistola, un po’ di pane raffermo e umido anch’esso, era solo e aveva troppi nemici, troppa rabbia in corpo. Quando li sentì arrivare, stava pensando ad un modo indolore per farla finita e si sentiva vigliacco per questo. Ridevano, parlavano a voce alta, erano i vincitori e cantavano, si sentivano invincibili e non si curavano di nascondersi. Si avvicinavano senza fretta di arrivare, la gloria li avrebbe aspettati. Andavano a presidiare il ponte. D’un tratto seppe cosa avrebbe fatto. Controllò che la baionetta fosse ben affilata. Pregò, lui che era ateo, che le munizioni fossero abbastanza asciutte.
In montagna bisogna saper camminare, bisogna esserci nati per sapere come mettere il piede, evitare radici, forre ed intralci per andare veloci e costanti, correre mai. Lui c’era nato, in montagna. Una montagna cattiva come quella che lo sovrastava, spietata anche con chi l’amava. Guardò in alto: come sempre, il sentiero procedeva a zig zag. Si mosse rapido come faceva da ragazzo, tagliò due tornanti, si riparò dietro un masso e armò il fucile. Li guardò salire, erano dodici, puntò quello che stava ridendo, guardando in alto, e premette il grilletto.
“Questo per quando avete requisito i due muli di mio padre:”
Esclamò. I soldati smisero di cantare.
Sparò ancora. Cadde un secondo soldato.
“Questo per mia madre morta di fatica.”
Il terzo lo dedicò a suo padre morto di crepacuore. Ne restavano nove.
I soldati sparavano a casaccio. Presi di sorpresa, non l’avevano ancora individuato. Rientrò nel bosco e tagliò altri due tornanti, e poi un terzo, fin che trovò quello che cercava: dei massi in bilico. Grandi abbastanza, ma non tanto da impedirgli di spostarli. Attese: li vide avanzare guardinghi, scrutavano in alto e inciampavano sulle asperità del terreno, guardavano in basso e avevano paura. Attese fin che furono sotto di lui e quando gli parve il momento spinse i massi sotto, prima quello più grande che aprì la strada e poi gli altri, tutti quelli che trovava, a rotolare sulla vita. Un soldato guardò in alto, inciampò e venne colpito in pieno.
“Questo per la fame che ho patito dopo che avete razziato tutto quello che c’era in casa.”
Li guardò muoversi scompostamente, non cantavano e non ridevano più, catturava col respiro la loro rabbia e la loro paura, chi ha detto che la vendetta non ripaga, chi l’ha detto? Si sentiva forte come un dio, come un dio onnipotente e crudele. Si alzò con lentezza, con una calma assurda riprese il cammino.
Aveva la sensazione di essere lui, ora, invincibile e immortale. Arrivò in alto e si sedette su un masso da dove poteva intravedere il ponte. Avvolto nella nebbia, pareva essere nebbia esso stesso, evanescente come una promessa di libertà, incerto come la speranza. Nell’attesa accese un sigaro, mescolato agli altri più comuni, era l’ultimo dei tre che gli aveva regalato un compagno che diceva di aver stretto la mano a Fidel. Gli altri due li aveva divisi con Anna. “Sono sempre in ritardo,” – pensò – “ma questa è la storia che avrei voluto raccontarle.”
Aspirava il fumo, guardava il ponte, pensava ad Anna ed ascoltava il rotolare scomposto dei sassi disturbati da passi inesperti che si faceva sempre più vicino. Si alzò, sali su un sasso per vederli meglio, per farsi vedere da loro. Non se l’aspettavano, stavano attenti a dove mettevano i piedi, non alzavano lo sguardo. Allora gridò, emise un urlo roco, animale, lui stesso non riconobbe la sua voce. Lo videro, raccolsero la sfida e accelerarono la corsa. Lui si diresse verso il ponte, con passo calmo, quasi sfottente. Iniziò ad attraversarlo evitando di guardare in basso.
I soldati apparvero dal sentiero quando lui era già oltre la metà dell’attraversamento e spararono qualche colpo senza convinzione, erano stanchi, ma lui era là, era solo, ed era solo un uomo. Ancora poco e sarebbe finita. Ansimanti per la salita, respirarono a fondo e corsero sul ponte. Cominciarono a dondolare sul vuoto e d’istinto rallentarono i passi, guardandolo arrivare alla fine della passerella.
Quando mise piede sulla roccia solida, si fermò a guardarli. Aspettò che avanzassero fino al punto in cui non avrebbero più potuto tornare indietro e solo allora estrasse la baionetta. Erano a metà del ponte quando tranciò la prima delle grosse corde che lo reggevano.
-”Questo è per Anna!” Gridò.
Poi tranciò la seconda, e la terza. L’ultima cedette da sola, le tavole precipitarono sbattendo contro le rocce, rimbalzando più volte, scrollandosi di dosso gli uomini che si aggrappavano e si dimenavano su di loro come formiche in divisa, finché scomparvero nel vuoto. Rimase qualche secondo ad osservare la calma che si era riformata sul paesaggio ormai diverso e che mai più sarebbe stato quello di prima, poi rimise la baionetta nel fodero. Sopra di lui dei corvi gracchiarono, alzandosi in volo. Fu certo che era un segno di approvazione e con calma riprese il cammino, oltre il ponte, cercando l’uscita dalla nebbia.
Ciao Oscar, il tuo racconto triste, drammatico ma intenso. E’ vero non è vero che la vendetta non ripaga.
Oscar,
mi piace molto il tuo stile descrittivo, che non appesantisce per niente il racconto ma, anzi, ne valorizza fortemente la trama, rendendola quasi visibile e favorendo la partecipazione del lettore.
Non a caso, credo che il quid pluris del tuo scritto sia proprio l’ambientazione fumosa ed evanescente, magistralmente escogitata, che si combina alla perfezione con i due temi, guerra e vendetta, che hai deciso di trattare.
Secondo me sarebbe un’ottima base anche per un cortometraggio.
Complimenti.
Condivido l’opinione di Lorenzo:il tuo racconto, così denso di dettagli descrittivi, potrebbe diventare una sceneggiatura…
Molto, molto bravo.
Complimenti.
Oscar,
il primo che ho letto e su cui volevo scrivere qualcosa, ancor prima di essere anticipata. Molto bello l’incipit con quella nebbia che domina dentro e fuori e che rende incerto un mondo già di per sé dominato da una precarietà a tutt’oggi purtroppo tangibile e spinosa. Mi piace lo stile asciutto, descrittivo. Concordo sul corto citato da Lorenzo Garzanelli. E grazie ad entrambi per il commento al mio racconto.
Paola Dalla Valle
Elvira, Lorenzo, Mariangela e Paola, grazie per avermi dedicato il vostro tempo e dei vostri commenti positivi. Un cortometraggio? sarebbe bello!
“In montagna bisogna saper camminare”. Nella vita fare delle scelte. E’ un racconto che emoziona, giusta dose di amarezza e vitalità. Ero convinto di trovare un racconto ironico e ne sono uscito spiazzato. Fossi stato un portiere davanti ad un calcio di rigore ci sarei rimasto di merda, come lettore ne sono contento.
L’ho sentito molto vicino. Lo stile, l’ambientazione vaga ma non imprecisa, il protagonista. L’ho letto con piacere, sarà forse che le vicende dei vinti e degli sconfitti mi hanno sempre affascinato, vicende di chi resta malgrado da solo a fare la storia, la sua proria.
Oscar, avevo già letto il tuo prezioso racconto e mi riproponevo di esprimerti infinita ammirazione ma purtroppo mi hai preceduta commentando il mio.
Ho amato il tuo stile e, ti dirò, faccio parte anch’io del comitato PERFETTO PER UN CORTO.
Mi sono trovata avvolta dalla nebbia e ho seguito, rapita, il protagonista dentro e fuori di sé.
Complimenti davvero, per questa metafora, neanche poi così celata, del tagliare i ponti con un passato di atroci battaglie. E poterne sopravvivere e raccontare negli anni della senilità.
Un racconto molto intenso. Trovo anch’io che sia molto cinematografico, nel senso che mentre lo leggi, “vedi” proprio il film. Però mi piace molto come è scritto e mi sembrerebbe un peccato non averlo letto.
Oscar
ho apprezzato il tuo racconto! La guerra e la vendetta, senza riferimenti temporali, narrate con uno stile chiaro, insieme descrittivo. La guerra è un tema che riaffiora in tanti racconti, ed è molto sentito. Condivido quello che hanno scritto: potrebbe essere il soggetto di una sceneggiatura.