Premio Racconti nella Rete 2017 “Vico Purgatorio ad Arco” di Daniela Simeone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017“Domenico, Domè a mammà. Dai facciamo un gioco. Ora tu ti metti seduto sotto a quel portone e cominci a contare. Io torno subito”.
Uno, due, tre, quattro
Domenico aveva tre anni e conosceva solo i numeri della guerra. Un etto di caffè, due etti di farina, tre sigarette, quattro patate.
“Ma quanto pesa. Quando era vivo pareva nu’ quattr’ ossa, ora pesa un quintale. Sarà tutta la merda che tiene dentro”.
Una calza con la riga dietro, due calze con la riga dietro perché Pasquale ha trovato la compagna alla borsa nera, tre tavolette di cioccolato tirate dai camion, quattro scatolette di carne…….ma quanto so’ belli sti mericani.
“John, Jack, ma come ti chiami!”.
John guardava quella donna dal fondo della piazza. Era sera e se non fosse stato per quella striscia rossa a terra sarebbe stato tutto nero. Gli sembrava una pazza, un cesto di capelli neri che tentava di trascinare quel corpo inerte ma riusciva a fare solo pochi metri.
“Soldato, soldà che guardi a fare! O mi aiuti o mi denunci!”.
Uno, due, tre, quattro, i numeri della guerra cullavano Domenico come una ninna nanna.
Uno, due, tre……..il sonno se lo era preso.
Quando le sirene avevano cominciato a suonare erano le prime luci dell’alba. Tutti erano corsi nei rifugi, nelle centinaia di cunicoli e gallerie sotterranee che attraversavano il sottosuolo di Napoli. E lì, appiccicati gli uni agli altri un po’ per la paura, un po’ per il freddo, avevano aspettato che passasse.
“Ha da passà a nuttata” disse Don Gaetano “io me lo sentivo che avrebbero bombarda
to stanotte. Ieri mattina, mentre passeggiavo sulla spiaggia…….”.
“E già, perché lui la mattina passeggia!” gli fece eco Donna Rosaria.
“E su Donna Rosaria fatelo spiegare” dissero due o tre donne in coro.
“Allora, se mia moglie permette!”.
“Permette, permette” riecheggiarono le donne.
“Ero sulla riva che ascoltavo quello che il mare diceva”
“E che, mò il mare parla”
“Si, eccome! Generalmente parla in napoletano, ma ieri mattina c’era acqua straniera. Me ne sono accorto perché non capivo le parole. E’ vero, ho pensato, quella l’acqua si mescola, va, viene. Una mattina potete trovare acqua locale, altre volte acqua che vie=
ne da più lontano, ma sempre italiana. Ieri invece era proprio straniera, acqua forestie=
ra niente di buono. In un primo tempo ho pensato che forse ero io a non capire bene, ma poi avvicinando l’orecchio mi sono convinto che quell’acqua veniva da molto lontano e che qualcosa doveva accadere”.
Il bombardamento era stato lungo, a Maria pareva che la terra continuasse a tremare anche ora che tutto era passato.
Erano le cinque e la luce del giorno stentava ad arrivare coperta dalla polvere che le bombe si tiravano dietro. Era uscita dal rifugio dove aveva passato gran parte della notte. Respirava a fatica muovendosi tra rovine e cadaveri ai quali non faceva quasi più caso.
“Marì per favore dammi una mano. Stavo camminando per tornare a casa ma si è staccato un cornicione e me lo sono preso diritto in testa”.
Era Ciro, abitava due vicoli dopo il suo. Più grande di lei di almeno dieci anni, l’aveva incontrato qualche volta ma non poteva dire di conoscerlo bene.
“Appoggiati a me, non ti preoccupare. Ce ne torniamo verso casa così ti fai medicare”.
Ciro si appoggiò a lei, la mano sulla sua spalla. Maria notò quanto quella pressione fosse leggera. Pensò a una gentilezza nei suoi confronti, non voleva essere di peso.
E così cominciarono a frequentarsi. Maria non aveva mai conosciuto suo padre e sua madre le aveva sempre raccontato che era morto in una delle tante epidemie di colera quando lei era molto piccola.
Maria di uomini ne ricordava tanti la sera a casa sua che andavano a trovare sua madre, visi che andavano e venivano, nessuno che l’avesse chiamata figlia.
Ad un certo punto aveva deciso di non voler sapere e smise di chiedere, tanto aveva tutto il vico ad occuparsi di lei: Tore ‘o sciuscellaro che vendeva le carrube all’angolo con la Chiesa di Sant’Antonio Abate, Ciccio ‘o paternustraro che faceva le corone del Rosario con i semi delle carrube di Tore, che San Gennaro abbia un occhio di riguardo, Peppe ‘o conciambrielle che intorno al collo portava la matassa di fil di ferro per riparare gli ombrelli e Sasà col suo carrettino con la mola che azionava con un pedale a tavoletta, l’ammollafrobbice.
Gli uomini più anziani di lei l’attiravano e per questo aveva cominciato a fare l’amore con Ciro.
Ma dell’amore poco sapeva e meno ancora di figli. Quando rimase incinta Ciro le disse:
“Conosco una mammana che ci può aiutare”.
Ma quando arrivarono a Vico Purgatorio ad Arco, tra i ferri da calza di donna Titina, a Maria sembrò di intravedere le fiamme dell’inferno che l’avrebbero ingoiata se avesse fatto quella cosa.
Disse a Ciro di aspettarla che doveva chiedere consiglio a Lucia. Percorse un tratto di Via dei Tribunali ed entrò nella Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Si diresse all’altare maggiore, dietro c’era una scala ed incominciò a scendere.
Uno, due, tre, sette gradini non si ricordava più quanti fossero. Venticinque, ventisei, ventisette, trenta si inoltrava sempre più nel ventre della terra.
Ora la scala si faceva più stretta, la luce più fioca. Cinquantotto, cinquantanove, sessanta, odore di umido, odore di morte ma di una morte che non fa paura.
Le scale erano finite. Tutto quello che era vistoso sopra era umile sotto, tutto quello che era luce sopra era buio sotto. I morti chiedevano discrezione, volevano essere lasciati in pace ne avevano già fatte di fesserie nella vita , ora volevano riposare. I teschi erano tutti là in uno spazio grande quanto la Chiesa Superiore, piccoli, grandi, interi, fratturati, per tutti una nicchia, un nome e un dolore da ascoltare. Erano stati marinai, appestati, decollati, appiccati, prostitute, i “male morti” abbandonati senza cordoglio.
Maria non aveva paura di tutte quelle capuzzelle, sua madre ce l’aveva portata la prima volta quando aveva solo cinque anni.
“ Non devi avere paura Marì, noi siamo i poveri di qua loro i poveracci di la. Non troveranno mai pace se noi non preghiamo per loro” e le aveva fatto toccare il suo teschio, quello per il quale aveva sistemato una nicchia, una bella nicchia grande quanto due o tre messe insieme.
“ Così sta più comodo e ci protegge meglio” le aveva detto sua madre incominciando a sciorinare le preghiere ad alta voce perché il morto le sentisse meglio.
Nunziatina e Tunnulella erano già lì, in fila prima di lei, per parlare con Lucia.
“E’ cosa di donne scendere qua sotto, gli uomini sembra non abbiano mai nulla da chiedere” si sentì dire da una voce che proveniva da una nicchia sulla destra.
“No, è che gli uomini fanno finta, si vergognano di avere bisogno”rispose un’altra voce da sinistra.
Maria si guardò intorno ,era vicina all’unica parete di tufo senza nicchie ma completamente ricoperta di ex voto.
“Mio marito tiene un’altra donna” e una candela veniva accesa.
“Non riesco ad avere figli” e una collanina veniva lasciata.
“Fammi trovare ciorta” chiedeva Retella al teschio che aveva adottato e che avrebbe intercesso per lei.
“Ha voglia di supplicare quella” disse Nunziatina rivolgendosi a Tunnulella e a Maria.
“Ma non abita in quel basso in fondo a Vico Cinquesanti?” chiese Maria.
“Sì, è lei. Ma chi se la prende chiatta come è. E’ un caso perso” aggiunse Tunnulella con un sorrisetto cattivo.
Ma a furia di pregare e di accudire il suo teschio Retella un marito lo trovò. Oddio non proprio uno intero perché nel vico si vociferava che un difettuccio ce lo aveva, sì sì proprio “quel” difettuccio. Ma Retella si accontentò: meglio un mezzo uomo che zitella.
Lucia però tra tutte le “anime pezzentelle”, quelle dei morti peccatori, a cui le donne napoletane si rivolgevano per una grazia, era la più importante. Il suo teschio piccolo, da ragazza di sedici anni che si diceva morta per amore, era appoggiato su un cuscino decorato con fiori in modo che stesse più comodo. Tutto intorno un prezioso velo da sposa.
“Lucì” disse Maria quando arrivò il suo turno “Ciro dice che questo bambino non ce lo possiamo tenere. I soldi sono pochi e in tre non possiamo campare”.
Il teschio di Lucia reagì facendo spostare il velo leggermente e a Maria la risposta apparve chiara.
Corse verso la scala impervia che collegava il mondo dei morti con quello dei vivi e disse a Ciro cercando di essere convincente anche se aveva più paura di lui: “Ciruzzo noi ci vogliamo bene e un figlio è una santa cosa”.
Ciro non ne voleva sapere ma fece quello che sapeva fare meglio: niente.
Maria ingrassava e si arrangiava facendo la capera in casa o nella bella stagione sul marciapiede davanti al basso.
Un giorno mentre tagliava la treccia bionda di Assuntina (che poi l’avrebbe venduta e qualcosa ci avrebbe di sicuro ricavato tanto erano belli i suoi capelli) sentì un liquido caldo colarle tra le gambe.
“Uè, Maronna mia!” esclamò e la testa di Domenico si fece strada nel Decumano Maggiore.
Il giorno che Domenico lasciò il collegio era una mattina di sole così forte che i raggi si infilavano anche nei vicoli più nascosti, nei bassi più interrati.
I panni stesi sulle corde da un balcone all’altro erano talmente abbagliati dalla luce che pareva non avessero buchi.
Aveva tredici anni e aveva passato gli ultimi dieci in collegio dai preti. Là tutte le famiglie degli Esposito, Scognamiglio, Russo, Donnarumma avevano almeno un figlio. La guerra era la guerra, la fame pure e tutti quelli che non erano stati abbando=
nati nella Ruota degli Esposti dell’Ospedale della Santissima Annunziata vi avevano trovato almeno un pasto al giorno e un letto in due.
Maria, quel giorno di dieci anni prima, aveva raccontato che la mattina si era svegliata e non aveva trovato Ciro. L’aveva cercato ma poi aveva pensato che fosse uscito per cercare di arrangiarsi.
“Ma quando mai, quello è uno sfessato. Non solo non tiene voglia di fare niente, ma nemmeno cerca di farsela venire” le disse sua madre.
Fatto sta che era passato un giorno, una settimana, sei mesi, ma di Ciro nemmeno l’ombra. E così aveva deciso di mandare la creatura, ‘o piezz ‘e core dai preti perché solo col mestiere di capera non ce la faceva a mantenere tutti e due.
Il quartiere era tutto in festa per il ritorno a casa di Domenico.
“Quanto ti sei fatto bello Mimmì” gli gridavano dai balconi.
E pure lui era contento di ritornare a vivere in quel basso di Via dei Tribunali insieme a sua madre Maria e a sua nonna Concetta che però si faceva chiamare Sofia per la venerazione che aveva per la Loren. O meglio Sofì quando la chiamavano da vicino e Sofi…aaa quando la chiamavano da lontano.
Quando la “a” arrivava a destinazione sua nonna aveva come un sussulto tanta era la forza che la vocale aveva acquistato passando di bocca in bocca, di vico in vico, di basso in basso.
“Ch’è stato” diceva lei con una nota di preoccupazione nella voce.
“Domenico, noi andiamo. Tu vieni?”.
A chiamarlo erano Ciciotto e Furtunato, i suoi migliori amici del quartiere.
Da quando era tornato a casa erano già passati due anni e lui aveva cominciato ad integrarsi bene. Certo all’inizio era stata dura.
“Ma guardatelo, con quelle gambine secche e bianche pare un pollo” dicevano ridendo i ragazzi del quartiere.
Ma lui che colpa aveva, dai preti portava il vestito da seminarista e le sue gambe il sole non l’avevano visto mai.
Ora però era il migliore attaccante della sua squadra, lo Spaccanapoli calcio.
Sopra il suo letto, nella stanza che divideva con sua madre, aveva attaccato i ritagli di giornale che parlavano dei suoi idoli: Hasse Jeppson detto “’o banco e Napule” perché l’avevano pagato la bellezza di centocinque milioni di lire e Luis Vinicio “’o lione”.
Un giorno, durante l’ultimo incontro della stagione calcistica dello Spaccanapoli, una luce abbagliò il portiere della squadra avversaria e la palla entrò in rete. Il pubblico gridò al miracolo.
“A Maronna ‘a fatto a grazia!”.
Nell’euforia generale si vide avanzare Domenico splendente nella sua divisa, calzoncini bianchi e maglietta azzurra. Nonna Sofia, per la quale la “lustrità” era fondamentale, aveva compiuto il miracolo.
“Con le pezze a culo ma brillanti” amava ripetere.
La squadra avversaria tentò di far annullare quel gol ottenuto con l’abbaglio, ma non ci fu niente da fare. Il gol fu convalidato, lo Spaccanapoli era salvo.
Domenico ‘o sistimato, come fu soprannominato dai fans da quel giorno per l’impeccabilità della sua divisa, fu portato in trionfo ed ebbe il suo momento di gloria.
Non si stava mai fermi in Via dei Tribunali. La gente usciva da un basso e entrava in un altro senza nemmeno bisogno di annunciarsi tanto le porte erano vicine. Domenico dalla sua cucina vedeva Cicciotto mangiare e in estate, con tutto spalancato per il gran caldo, riusciva anche a parlarci come fossero allo stesso tavolo.
Quello che però Mimì detestava dell’estate era la rassegna dei film di Sofia dalle 12 alle 13.30 a casa della signora Catarina che era l’unica del vicolo ad avere la televisione perché il marito faceva il contrabbando.
“Domenico aspetta che ora le chiede di sposarlo” diceva sua nonna quando lui verso l’una le si avvicinava perché moriva di fame.
“Ma chi?”.
“Cari”.
“Ma a chi?”.
“A Sofia”.
Di tutti i film di Sofia “Un marito per Cinzia” era il preferito di sua madre e di sua nonna ed era anche l’unico in cui la riga nera sull’occhio destro di sua nonna mostrava un cedimento, un leggero rigagnolo nero che scendeva fino al collo.
“Ah! Quant’è bella Sofia. Pare ‘na sfugliatella”sospirava sempre sua nonna alla fine del film.
Non gli restava che andare alla friggitoria di Lucariello, quella a San Gregorio Armeno
“Domenico, a che punto siamo?”chiedeva Lucariello vedendolo entrare.
“Le sta chiedendo di sposarlo”.
“Ah, allora mancano almeno venti minuti. Che ti do?”.
La rassegna estiva lo costringeva ad una dieta di panzerotti, pastecresciute e scagliuozzi.
Gli anni passavano e Domenico era diventato lungo come una pertica e secco secco. A sua madre e a sua nonna non assomigliava di certo tanto erano più larghe che lunghe.
Una volta aveva sentito dire a Marittella mentre parlava con Catarina nella cucina del suo basso: “Pare proprio Ciruzzo suo padre, fatto e finito”.
Mimì aveva provato a chiedere notizie su di lui ma sua madre rispondeva sempre allo stesso modo: “Un bel giorno è sparito, così dall’oggi al domani. Non vale neanche la pena di cercarlo tanto era un uomo di niente” e l’argomento veniva chiuso, anzi sigillato.
Ma Domenico non si voleva rassegnare. Vedeva i padri dei suoi amici fare il tifo alle partite e allora pensava che anche al suo sarebbe piaciuto e che forse gli era successo qualcosa che gli impediva di tornare.
Pensando e ripensando era arrivato al suo diciottesimo compleanno.
Maria ne aveva acconciato di teste per potergli fare quel regalo. Ricce, lisce, ondulate.
“Marì, li voglio belli lisci con la frangetta”.
“Marì, li voglio cotonati come la Lorèn”.
“Marì, fammi……….”.
Quella volta non ci vide più, quando è troppo è troppo.
“Senti Titina, i tuoi capelli sembra che abbiano fatto un suicidio di massa. Tu tieni quattro peli in testa, che vuoi che faccia!”.
E fu così che dovette lavorare un mese in più perché Titina cambiò parrucchiera. Se ne andò da quella pacchiana di Melina che aveva il basso in vico Fico al Purgatorio e che quando uscivi pareva che fossi stata in riva al mare in una giornata di scirocco tanto erano cotonati, una testa che pareva un grattacielo.
Ma un mese in più di lavoro ne valeva la pena per quell’orologio col cinturino di pelle nera che bello era bello per i diciotto anni di Domenico.
Certo Annarella a suo figlio l’orologio glielo aveva regalato per la comunione come da tradizione, ma lei non ce l’aveva fatta.
La medaglina, quella d’oro con la Madonna per il battesimo, quella sì, ma l’orologio aveva rimandato e ora non voleva fare brutta figura.
La festa fu bellissima, tutti passarono a trovarlo e a vedere quell’orologio.
“Marì, ti sei superata!” disse Sofia commossa alla figlia.
Maria era stranamente agitata, proprio lei che per smuoverla ci voleva solo un cataclisma. Camminava avanti e indietro nella cucina offrendo caffè a chiunque entrasse ma con lo sguardo sempre rivolto verso la stanza che divideva con Mimì.
Ad un tratto, come dal nulla, si sentì la sua voce chiedere a Domenico:
“Mimì, bello ‘e mammà, mi vuoi pigliare il ventaglio che sta nel primo cassetto del comò in camera? Fa un caldo che si schiatta”.
I presenti si guardarono: era gennaio e tutto faceva tranne che caldo.
“Certo mammà!” rispose Domenico che non se la sentiva di contraddire sua madre.
La fotografia era proprio in alto, in bellavista tra fazzoletti e mutande.
Quel cassetto Domenico l’aveva aperto migliaia di volte ma quella foto non l’aveva mai vista. Ritraeva una Maria sorridente e giovane insieme a un giovanottone in divisa che sembrava allevato a burro di arachidi e disciplina. Sul retro della foto un nome e un indirizzo di Roma.
Domenico per prima cosa pensò di chiedere spiegazioni a sua madre, ma ripensando alle sue risposte degli ultimi quindici anni decise di far finta di nulla. Le portò il ventaglio, lei lo squadrò in cerca di una domanda che non sarebbe arrivata, almeno quella sera.
Domenico non riuscì a chiudere occhio quella notte e non perché Maria come sempre russava che pareva la pentola del ragù della domenica, ma perché non riusciva a fare a meno di guardare l’uomo della foto in cerca di una qualche somiglianza.
Si alzò all’alba per sparire prima che le donne di casa si alzassero e gli impedissero di partire.
Prese il primo treno della mattina e non ebbe difficoltà a trovare l’indirizzo segnato sulla foto. Chiese il piano al portiere, che lo scrutava sospettoso dalla guardiola, e una volta di fronte alla porta bussò più volte senza ottenere risposta. Non aveva ancora finito di pensare che aveva fatto un viaggio a vuoto che la porta si aprì leggermente con un gran rumore di chiavi.
“Cerchi qualcuno?” gli chiese la donna che si trovò di fronte.
“Buongiorno, mi chiamo Domenico e sto cercando il signor Stoner, John Stoner”.
“E’ mio marito. Se ti vuoi accomodare te lo chiamo subito” e spalancò la porta per farlo entrare in una stanza in fondo al corridoio, uno studio in leggera penombra.
Domenico si sentì avvolgere da profumi sconosciuti, da un calore che dalla punta delle dita dei piedi risaliva piano piano al viso facendolo diventare tutto rosso.
Un uomo era lì, appoggiato allo stipite della porta. Lo fissava e quando Domenico si voltò i suoi occhi sembrarono offuscarsi come richiamati da un passato diventato improvvisamente presente.
Domenico scattò in piedi e pensò di non assomigliare per niente all’uomo che aveva davanti.
“Buongiorno, mi chiamo Domenico. Sono il figlio di Maria”.
“Lo so chi sei. Ho sperato fino all’ultimo che tu non venissi”.
In quel momento il silenzio tra di loro si fece così spesso che nemmeno il ritmo lento della musica di Sidney Bechet che proveniva dall’altra stanza riusciva ad assottigliare.
Poi John disse al ragazzo:
“Ti prego, siediti sarà un lunga giornata”.
Domenico obbedì e si lasciò cadere sulla poltrona dietro di lui.
“E’ difficile trovare le parole per raccontare questa storia. Maria le ha cercate per tutti questi quindici anni senza trovarle”.
Fece una leggera pausa.
“Non sentivo tua madre da tantissimo tempo, direi da circa quattordici anni. Poi improvvisamente qualche mese fa mi telefona. Non so come abbia fatto a trovarmi ma mi dice che proprio non ci riesce, che tu continui a chiederle di tuo padre ma lei non trova le parole adatte a spiegarti, a farti capire senza perderti. Mi chiede di aiutarla un ultima volta, di essere io a farlo”.
“A farmi capire cosa. Cosa sa lei di mio padre?”.
La voce di John si fece più profonda, sembrava venire da lontano:
“Era il maggio del 1943. Mi trovavo a Napoli al seguito dell’esercito americano e quella sera avevo finito il mio turno di guardia e facevo un giro prima di ritornare al mio alloggio. Era buio quando arrivai in quella piazza, pochi lampioni ad illuminare uno spazio così grande ma d’altronde eravamo in guerra”.
Si fermò un attimo a riprendere fiato.
“Ad un tratto le urla disperate di una donna”.
“Se gli metti ancora le mani addosso ti ammazzo, sei un bastardo!”.
“Poi il pianto di un bambino e ancora colpi sordi e grida di donna. Poi una risata che pareva non finire mai, maschile, metallica come i colpi di una mitragliatrice. Di colpo un tonfo seguito da un lamento e un rumore di sassi lanciati”.
“Domenico, Domè a mammà. Dai facciamo un gioco. Ora tu ti metti seduto sotto a quel portone e cominci a contare. Io torno subito”. Uno, due, tre, quattro.
“E’ stato allora che l’ho vista, che ho visto tua madre trascinare quel corpo, tuo padre. Mi chiese aiuto, non ce la faceva a trascinarlo da sola e io non riuscii a negarglielo tanto mi pareva disperata”.
Di nuovo si fermò. Domenico era impietrito, respirava appena.
“Lo trascinammo per un bel tratto fino alle macerie di un palazzo che era stato bombardato la sera prima. Si era creata una grossa voragine nel terreno e noi vi gettammo il cadavere dentro e lo ricoprimmo con le macerie. Con tutti i morti di quei giorni un corpo in più o in meno non avrebbe fatto differenza. Tu ti eri addormentato nell’androne di quel palazzo dove tua madre ti aveva lasciato. Ti ho preso in braccio e vi ho riaccompagnato a casa. Maria piangeva in silenzio, non ho avuto bisogno di chiederle niente. Era una calda serata di primavera e tua madre portava una camicetta a fiori con le maniche corte. Le braccia erano piene di lividi e graffi.
Quando vi ho lasciati mi ha chiesto come mi chiamavo. Ci siamo rivisti nei giorni successivi. Passeggiavamo senza bisogno di parole e in uno di quei giorni abbiamo fatto quella foto. Poi io sono tornato negli Stati Uniti, mi sono sposato con una donna italiana e sono ritornato a vivere a Roma. Non ho saputo più nulla di voi fino a qualche mese fa”. La voce gli si strinse in gola, le parole imprigionate per sempre.
John guardò Domenico: era tutto rannicchiato su quella poltrona, le ginocchia strette al petto, piangeva e improvvisamente la sua voce si fece bambina.
Uno Maria
Due Maria e Ciro
Tre ci sono anche io con loro
Quattro quattro maggio 1943, una striscia di sangue in terra, l’unico ricordo che ho di mio padre.