Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Il buon regalo” di Patrizia Lazzari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Quel pomeriggio Alfio si svegliò di soprassalto con la sensazione di un pericolo incombente. Da quando lavorava di notte dormiva dopo pranzo per circa due ore, quasi sempre sognava ma raramente riusciva a ricordare cosa. Fissò il soffitto cercando di riportare alla coscienza i particolari del sogno che lo aveva destato ma riuscì solo a definire ed isolare una sensazione di paura. Ripiegò con cura il pigiama sotto il cuscino, riordinò il letto secondo le geometrie preferite e uscendo dalla camera sfiorò Lella con una carezza.
In cucina guardò con disgusto i piatti sporchi di due giorni, stipati nel lavello. La particolarità di quella giornata rendeva inopportuno rinviare ancora la noiosa incombenza. Lavò i piatti, li asciugò e li mise a posto. Pulì il fornello con cura e passò lo straccio per terra. Soddisfatto si versò il caffè ben caldo, forte e molto zuccherato nella tazzina preferita, bianca col rigo dorato un po’ sbocconcellata sul bordo, e schioccando la lingua ad ogni sorso cominciò a domandarsi se la sera avrebbe potuto concedersi il buon regalo.
Il rito della rasatura, più accurato del consueto, durò una buona mezz’ora. Si osservò allo specchio. Era brutto, irrimediabilmente brutto, lo sapeva, ma non gli importava granché, era affezionato alla sua immagine e non avrebbe voluto essere diverso: faccione asimmetrico, occhi marroni inespressivi che un naso sproporzionato e bitorzoluto manteneva troppo distanti tra loro, orecchie grandi e un po’ sporgenti, capelli radi e brizzolati, colorito pallido. Maria glielo ricordava spesso che era brutto scherzando quando dopo l’amore rimanevano a letto a chiacchierare per ore. Ma a lei non importava nulla che Alfio fosse brutto, non era certo per quel particolare che lo aveva lasciato.
Si tagliò con cura le unghie, le limò, le spazzolò e tornò in camera per il momento più bello della giornata. Eccomi qua Lella, bella mia, diamoci da fare finché siamo soli, sussurrò sollevando la fisarmonica dalla poltrona. Si passò le cinghie sulle spalle, accarezzò la tastiera, sganciò i fermi e iniziò a suonare.
Puntuale, alle sette, Alfio arrivò al ristorante, uno dei tanti locali tipici di Trastevere. Indossò il suo costume da suonatore: blusa bianca, gilet color vinaccia, calzoni rossi, corti al polpaccio, calze bianche, scarpe nere con la fibbia. Aldo e Michele, la chitarra e il mandolino, erano già vestiti e mentre accordavano gli strumenti scambiavano coi camerieri battute grossolane. Uno sciame di giapponesi prese posto al tavolone nel centro del ristorante e la serata iniziò secondo il solito copione: bucatini, canzoni, fotografie, risate, abbacchio, bistecche, caldo, sudore, rumore di piatti, carte di credito, una mancia all’orchestra, grazie. Quando Alfio si sentì pronto per l’unico brano che lui eseguiva anche come cantante, fece un cenno al chitarrista, si avvicinò a una donna – di solito sceglieva una bruna, magra, di mezza età – e attaccò “Reginella”, il pensiero d’amore che ogni sera dedicava a Maria: “T’aggio voluto bene a te, tu m’hai voluto bene a me, mo’ nun ci ammamme cchiù ma a vote tu, distrattamente pienz’a me”.
Poco dopo mezzanotte Alfio s’incamminò verso la fermata dell’autobus, stretto nel pesante cappotto grigio, la fisarmonica in spalla, la testa china, il passo lento. Si fermò su un ponte a fissare il fiume. I primi tempi dopo che Maria l’aveva lasciato, aveva pensato che buttarsi nel Tevere poteva essere una soluzione semplice e pratica. Bastava salire sul parapetto, Lella stretta addosso con le cinghie ben serrate alle spalle e alla vita, uno slancio e via, tutto finito, dolore, solitudine, autobus notturno, periferia, odore di povertà, bollette da pagare, piatti sporchi. Ma col passare del tempo Alfio si era abituato alla sofferenza, al senso di vuoto che gli bucava lo stomaco dal mattino alla sera, al dolore fisico che dava concretezza all’assenza di Maria e asseriva il legame con lei. A quella pena, giorno dopo giorno, si era affezionato, e forse, non avrebbe più saputo vivere senza. Poco distante una coppia di ragazzi si fermò a darsi un bacio. Alfio decise di sì: era una sera così speciale che poteva meritarsi il buon regalo. Se lo concedeva solo quando si sentiva abbastanza forte da sostenere, senza troppo patimento, l’inevitabile, deprimente effetto di ritorno.
Cambiò strada, allungò il passo, e dopo una ventina di minuti si appostò nella penombra del viale alberato davanti al bar Sole e Luna, nel solito punto da dove poteva osservare Maria, dentro il locale, senza essere notato.
Appena Alfio intravide la donna il suo cuore sventagliò un raffica di battiti che gli si schiantarono contro la gabbia toracica poi, con la forza cadenzata di un maglio, colpi violenti e cadenzati gli rimbombarono nel petto. Maria indossava una maglietta rosa. Strano, non le è mai piaciuto il rosa. Sarà un regalo di quello là. Ancora non li conosce i gusti di Maria? Gli sembrò dimagrita e stanca. Come al solito lavorava troppo.
Si asciugò le mani sudate nelle tasche del cappotto. Adesso Maria scherzava con alcuni clienti e rideva. Alfio adorava il sorriso di Maria, rassicurante, inaspettato, allegro, la faceva sembrare una bambina per via delle due fossette ai lati delle guance, lui si sentiva sopraffatto dalla tenerezza e di slancio sovrapponeva un bacio al sorriso della sua donna.
Entrare nel bar non è poi una cosa complicata, si ripeteva Alfio. E’ lì davanti, basta fare qualche passo, spingere la porta e oltrepassarla. Solo cinque minuti, il tempo di bere una birra, oppure un caffé. Cinque minuti possono bastare per un saluto, farle gli auguri, parlare come due buoni amici. Sapeva a memoria – perché le aveva provate tante volte a casa, persino davanti allo specchio – le parole da dire a Maria e il tono, affettuoso, sì, ma anche distaccato, da usare nel pronunciarle. Prima di domandare qualcosa di lei, per non sembrare invadente, le avrebbe chiesto notizie del padre, malato di Parkinson, e poi del piccolo Nino, il figlio di sua sorella che quando la mamma era di turno in ospedale passava la domenica con loro. Alfio amava i bambini e avrebbe voluto averne almeno tre da Maria. Fu un brutto colpo per lui – ma cercò di non farsene accorgere – quando Maria gli spiegò che purtroppo non avrebbe mai potuto restare incinta: anni prima aveva subito una isterectomia totale per un sospetto tumore all’utero. Da quel momento Alfio non parlò più di bambini, ma era molto felice quando Nino passava la domenica con loro.
Devo pensare che sia un gioco, io sono la luna che esce dall’ombra e va verso il sole, si diceva per cercare di placare il cuore che continuava a squassargli il petto. Prese un gran respiro, deglutì e attraversò la strada. Ma a pochi metri dalla porta di Sole e Luna il cervello ingranò una rapida retromarcia. Entrare nel bar non era affatto una buona idea. Per l’emozione non avrebbe saputo dire niente di tutto ciò che si era preparato, riuscendo solo a balbettare frasi sconnesse; e poi, dentro il bar poteva esserci quell’altro e incontrandolo lui sarebbe stato travolto dall’ira, e come l’altra volta, forse lo avrebbe colpito con un pugno, e allora Attilio lo avrebbe pestato a sangue, qualcuno avrebbe chiamato la polizia e Maria si sarebbe ancora arrabbiata con lui gridandogli di non farsi vedere mai più e di uscire per sempre dalla sua vita che già gliela aveva rovinata abbastanza.
Si sforzò di resistere alla tentazione di scomparire ancora nel buio e restò fermo in mezzo alla strada, inerme e solo come il gabbiano che poco prima aveva osservato galleggiare sul fiume. Doveva mantenere la calma. Non voleva fare scenate. Dopo tante ore passate lì davanti nell’ombra a guardare il sole, a immaginare e tormentarsi, stasera finalmente poteva riuscire a conquistarlo davvero il premio di incontrare Maria.
Il cielo era nero, senza luna, formicolante di stelle. Ne cercò una, quella che lui e Maria avevano eletto dal lucernaio della sua camera a talismano del loro amore, e battezzata Lucentina. La trovò, al solito posto. Un brivido di coraggio, in traiettoria di caduta elicoidale dal cielo, lo percorse da capo a piedi e d’improvviso si sentì forte e lieve. Con lo sguardo fermo davanti a sé mosse, quasi senza accorgersene, i sette passi che lo separavano dalla soglia del bar. Non aveva cavallo, né armatura, né schiere di soldati ai suoi piedi ma per qualche istante Alfio ebbe le sembianze di un cavaliere della Tavola Rotonda. Maria si voltò verso la porta nel momento stesso in cui la mano del cavaliere, protetta da un guanto di maglia metallica, si poggiò sulla maniglia. L’espressione della donna perforò il vetro, attraversò i caratteri della scritta Sole e Luna, accecò Alfio come un flash sparato nel buio e restò in bilico, per un tempo infinito, sospesa tra il distendersi in un sorriso o distorcersi in una smorfia.
Alfio sussultò, indietreggiò di qualche passo, lo sguardo incollato al viso di Maria, impietrita dietro il bancone. Quando lei mosse appena una mano nell’inizio di un gesto, forse di saluto o forse di paura, Alfio si aggrappò alle cinghie della fisarmonica e scappò di corsa, veloce, lontano, via, via, via.

Rincasò che erano quasi le due di notte infreddolito e avvilito, trasformato in pochi attimi da intrepido cavaliere a cane bastonato. Era finita, non sarebbe mai più tornato al Sole e Luna. Mai più nessun buon regalo per lui, basta, chiuso, finito. Tutto finito. Non aveva ormai più nessuna speranza di trovare il coraggio di entrare nel bar di Maria. Se non ne era stato capace nemmeno stasera, col miracolo dell’energia diffusa da Lucentina, non ce l’avrebbe fatta mai, e mai come stasera si era avvicinato tanto, mai così vicino a Maria. Ma adesso era finita, il buon regalo da concedersi nelle sere speciali non c’era più, era svanito, come un desiderio o un bacio di addio, come un saluto con la mano di un bambino dal cavallo di una giostra. Codardo, uomo da niente, vigliacco, per questo Maria l’aveva lasciato, sì, per questa sua nullità, e aveva fatto bene a lasciarlo e a preferirgli Attilio, tutto muscoli e coraggio. Le donne amano gli uomini forti e decisi che le fanno sentire al sicuro, protette, difese. Lui era debole, insicuro, perdente.
Una lunga doccia bollente gli concesse un po’ di calore ma nessun sollievo dalla sua pena. Tolse dalla tavola lo spuntino di festeggiamento che si era preparato prima di uscire, quando aveva sperato di celebrare l’apertura del buon regalo: noci e fichi secchi, una fetta di panettone, un mandarino, un bicchiere di spumante.
Indossò il pigiama e il vecchio e pesante maglione verde – un regalo di Maria -, sistemò Lella sulla poltrona in camera, la salutò e spense la luce.
Guardò oltre il lucernario ma erano arrivate le nubi a nascondere ogni stella.
Si tirò le coperte sopra la testa, chiuse gli occhi e augurò a Maria buona notte e buon Natale.

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3 commenti »

  1. Un personaggio struggente, immerso in un mondo tutto suo, in cui oggetti, bar e persino stelle sono ribattezzate dalla sua dolce visione del mondo. Bello!

  2. Patrizia,

    mi hai fatto davvero un “buon regalo” con questo racconto.

    Tantissimi temi (amore, disincanto, arte, precarietà economica) e tantissime emozioni per uno scritto che sembra veramente portar dentro l’anima triste di una fisarmonica.

    Suggestivo ed affascinante lo sfondo trasteverino; accurate ed impeccabili le descrizioni.

    Ho letto con moltissimo piacere.

  3. Mi è piaciuto molto come rappresenti uno squarcio di vita di quest’uomo comune, mite e un po’ pusillanime che tuttavia ispira subito simpatia. Hai descritto bene il tema della solitudine e l’ossessione per l’amore perduto; bella anche l’ambientazione romana e notturna.
    Complimenti!

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