Premio Racconti nella Rete 2017 “Gli angeli” di Luca Novara
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Istanti interminabili, come aghi di ghiaccio conficcati nella pelle, gli gelavano il rosso nelle vene fino a causare un tremito irrefrenabile che dalla testa si trasferiva in tutto il corpo e che tramutava le gambe in gelatina. In quegli istanti provava una vergogna infinita da cui era incapace di fuggire e le immagini che scorrevano veloci davanti a lui si trasfiguravano, impedendogli di focalizzarle correttamente.
Allora indossava i guanti per provare il calore necessario a scacciare il freddo che sentiva dentro e i pensieri maligni. Un trucco che non passava mai inosservato e che veniva etichettato da sua madre, come una “stranezza”. Una delle tante di quel figlio, con cui non sapeva più che pesci prendere.
“Siamo arrivati, Gian.”
Gli ci vollero ancora alcuni istanti prima di decidersi ad aprire la portiera e ad affrontare la situazione.
Ormai era più di un mese che veniva portato dalla dottoressa Ermini, e la situazione non era mai migliorata, nonostante quello che gli avevano assicurato la prima volta. Lo avevano illuso, ma non ci era cascato.
Percorse, trascinando i piedi, i pochi gradini che lo separavano dall’ingresso: sua madre, come ogni volta, fu costretta a sospingerlo con falsa delicatezza all’interno di una sala troppo luminosa per i suoi occhi pigri. La porta si richiuse dietro di lui, dandogli l’impressione di udire un sospiro che proveniva dall’altra parte. Un sollievo che non si poteva considerare reciproco e che aumentava la frustrazione di quel ragazzino dagli occhi profondi e le movenze rallentate.
“Buongiorno, Giancarlo. Ti aspettavo.”
La dottoressa Ermini si apriva a un sorriso gentile, che acuiva il malore, come la punta di una lancia che punzecchia una ferita aperta che cerca vanamente di cicatrizzarsi. Giancarlo sapeva che non gli avrebbe più chiesto di togliersi i guanti.
“Non avere timore. Puoi sederti dove vuoi.”
Non voleva avere una scelta, perché non sapeva decidersi e ogni opzione poteva presentare dei rischi: il divano era comodo ma ci si affondava troppo, la sedia rigida lo faceva sentire un pezzo di legno, in piedi gli sembrava di essere interrogato come a scuola.
“Giancarlo, la sedia va benissimo per ora.”
Come sempre finivano per decidere gli altri per lui. E si sentì sollevato.
“Allora, com’è andata la settimana? Sei riuscito a fare gli esercizi di cui abbiamo parlato la scorsa volta?”.
La dottoressa Ermini gli aveva consigliato degli esercizi di respirazione, da fare quotidianamente. Lui ci si era applicato molto, senza comprenderne esattamente lo scopo.
“Abbastanza bene. Li ho fatti, dottoressa.”
Lei lo scrutava senza darlo a vedere, ma Giancarlo se ne accorgeva lo stesso: lo faceva per notare ogni piccolo cambiamento, ogni minimo segno di progresso.
“Non vuoi dirmi qualcosa di più, Giancarlo? Come ti sentivi mentre facevi gli esercizi di respirazione?”
Il ragazzo ci pensò su.
“Un po’ meglio. Non mi dispiaceva farli.”
“E ti andrebbe di continuare? Magari con una piccola aggiunta. Potremmo farne uno adesso, se ti va.”
Giancarlo vedeva benissimo che la dottoressa Ermini cercava ogni appiglio per avvicinarsi a lui, per farlo sentire meno in pericolo di quanto evidentemente si sentisse nel suo studio.
“O-ok.”
“Chiudi gli occhi e cerca di non pensare a niente. Prova a rilassarti.”
Non ci riusciva mai. Come poteva pensare la dottoressa che ci sarebbe riuscito in quello studio freddo e asettico?
“Adesso ti leggerò dei versi. Cerca di lasciarti trascinare dal suono e continua a respirare a fondo.”
“La gloria di colui che tutto
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.”
Giancarlo inspirava l’aria impregnata del fumo delle Marlboro Light che la dottoressa Ermini clandestinamente consumava, e espirava i residui malinconici delle giornate amare, che trascorreva perlopiù da solo. Aveva riconosciuto nei versi “La Divina Commedia”, senza però comprendere perché la dottoressa avesse scelto la cantica del Paradiso, quando sarebbe stato più appropriato per lui l’Inferno.
Si arrese all’evidenza che sarebbe dovuto ritornare in quel posto ancora molte volte.
Guardando la sveglia appoggiata sul comodino di fianco al letto, Giancarlo vide che mancava un’ora soltanto al momento in cui avrebbe dovuto affrontare una nuova giornata e fu percorso da brividi che conosceva bene. Iniziò a tremare da capo a piedi senza riuscire a arrestarsi, e più si sforzava di farlo, più il movimento del suo corpo aumentava la propria intensità, come se non rispondesse ai comandi del cervello.
Nonostante suo padre avesse cercato di non fare rumore, lui lo aveva sentito rientrare in casa. Si infilava dentro come un ladro, ma Giancarlo percepiva il senso di smarrimento che si portava dietro già quando saliva le scale. Come ci riuscisse non lo sapeva nemmeno lui, eppure non sbagliava mai.
Decise di alzarsi, visto che tanto non avrebbe più ripreso sonno, e ancora tremante andò sul balcone a osservare la città, pronta a riprendere l’attività quotidiana, che la rendeva così isterica ai suoi occhi. Lui odiava la confusione, il traffico e il caos e quel momento di quiete prima della tempesta era per Giancarlo un respiro di aria buona.
Indossò la giacca sopra il pigiama, per evitare i rimbrotti di sua madre nel caso si fosse preso qualche malanno, e uscì proprio mentre i primi raggi di sole facevano capolino sopra le colline.
I guanti non li toglieva neanche per andare a dormire: lo facevano sentire più protetto, per quanto provare una simile sensazione non fosse esattamente consono per lui. Non sapeva quando tutto fosse cominciato, né il perché, ma la consapevolezza di non essere in grado di stare al mondo e il senso di ansia e angoscia che ne erano derivati, lo avevano inondato come un fiume in piena e si sentiva affogare di più ogni giorno che passava.
Giancarlo ebbe l’impressione che la luce arrivasse suo malgrado, come se in realtà fosse sospinta da una forza invisibile che la invitava a compiere il suo dovere. Si sentì immediatamente in simbiosi con quell’alba fiacca e poco appariscente, che non voleva esserci e avrebbe indugiato volentieri, lasciando ancora per un po’ il proprio posto al buio notturno, così come Giancarlo avrebbe lasciato volentieri il suo nel mondo a un altro più volenteroso di lui.
Forse era un segnale. Forse era il momento giusto.
Se Giancarlo aveva qualche possibilità di farla finita, sarebbe stato solo in quella pace e con quella luce.
Vivevano al quarto piano e di sicuro non sarebbe sopravvissuto alla caduta. Timidamente si sporse dalla ringhiera per guardare di sotto e, con una certa soddisfazione, immaginò il suo corpo esile scomporsi e spiaccicarsi.
In fondo avrebbe fatto un piacere a tutti. Certo, i suoi genitori avrebbero sofferto molto all’inizio, ma poi avrebbero potuto ricominciare a vivere senza più l’ansia di un figlio a cui dover badare ogni momento. Certo, la dottoressa Ermini se ne sarebbe rammaricata e l’avrebbe vista come una sconfitta professionale, ma ben presto si sarebbe resa conto che aveva fatto tutto il possibile e che c’erano altri casi ben più meritevoli della sua attenzione e capacità.
Di sicuro avrebbe fatto un piacere a sé stesso.
Non sapeva cosa lo aspettasse dopo, però non aveva paura. Erano le cose terrene a terrorizzarlo e niente poteva essere peggiore di ciò che lo affliggeva ora.
Prese la sedia che adoperava sua madre quando voleva starsene un po’ per conto suo a fumare sul balcone e ci salì sopra. In quel modo sarebbe stato più facile mettere un piede dopo l’altro sulla ringhiera e spiccare il volo.
Si era sempre chiesto cosa si provasse a volare. Invidiava gli uccelli e la loro capacità di arrivare lontano senza dover rendere conto a nessuno; avrebbe dovuto nascere con le ali, magari si sarebbe addirittura trasformato in un angelo, la creatura che più di tutte l’aveva sempre affascinato.
Si aggiustò i guanti perché non voleva perderli durante la caduta; gli erano sempre stati compagni fedeli e trovava giusto che rimanessero al loro posto fino alla fine, come soldati accanto al loro generale.
Giancarlo pose il primo piede sulla ringhiera e ebbe un momento di esitazione inaspettato. Un rumore lo aveva distratto. Non comprese esattamente da dove provenisse, fin quando non si accorse del camion della spazzatura, fermo proprio nella via sottostante. Un uomo sul lato del guidatore gesticolava in modo animato, sbraitando in direzione del collega che stava spostando i cassonetti.
Giancarlo li fissò imbambolato per una decina di secondi, prima di sentirsi sollevare da una forza sconosciuta. Gli sembrò di librarsi in aria e istintivamente chiuse gli occhi, spalancando le braccia per farsi issare dal vento e trascinare verso paesi sconosciuti, da ammirare alla distanza di sicurezza che le sue nuove ali gli avrebbero consentito.
Quando riaprì gli occhi si trovò sul balcone, con suo padre che senza dire una parola lo stringeva forte a sé, come non aveva mai fatto prima di allora.
Un calore nuovo cominciò a propagarsi nel suo corpo e Giancarlo ebbe la vivida impressione che il ghiaccio che lo avvolgeva, stesse cedendo e iniziasse a sgretolarsi.
D’impulso fece scivolare i guanti a terra e posò le mani sulle spalle del padre per assicurarsi che si trattasse veramente di lui. Fu allora che sentì che il ghiaccio si trasformava in acqua e scivolava giù verso quel vuoto che era stato pronto a accoglierlo.
Nella via un uomo, spingendo un carretto di gelati, fischiettava una canzone d’amore.
Luca Novara
Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati…caro Luca , hai dipinto molto bene sensazioni che conosco benissimo.In particolare , quella dell’orrore , del fastidio, della noia del quotidiano. Dell’assenza. dell’aria pura e terza del silenzio mattutino. E credo negli angeli, come ci credi tu.Molto bello.
…ovviamente volevo dire terSA , con la esse…(accidenti ai correttori).
Un mancato suicidio in cambio di un ritorno alla vita. Bello come descrivi lo straniamento del ragazzo e il suo tornare alla vita tramite il calore paterno che scioglie il ghiaccio nel quale è racchiuso. Un racconto che parla di sofferenza e di come l’amore riesca a guarire. Mi è piaciuto leggerlo e devo dire che sono rimasta piacevolmente spiazzata dal suo epilogo positivo.
Luca,
scelta coraggiosissima la tua.
Argomento ostico, quasi intoccabile il mal di vivere, ancor più se fatto filtrare dagli occhi di un adolescente problematico.
Sei riuscito a plasmare la psiche di Gian con eleganza e tatto, adoperando parole profonde e misurate, che avvolgono il lettore nel “ghiaccio” esistenziale che intrappola il protagonista.
Bellissimi i particolari del guanto e dell'”esercizio dantesco”.
Complimenti.
Un racconto toccante che svela quanto bisogno d’amore abbiano i figli… essere “visti” a volte salva la vita. Il tuo racconto mi ha dato l’opportunità di rifletterci su, grazie!
Grazie mille per i vostri commenti, il racconto è in realtà un estratto di un racconto più lungo che però superava i limiti richiesti e che comprende altri personaggi che si intrecciano alla vita di Gian tra cui la psicologa e suo padre. Mi fa comunque molto piacere che il racconto sia stato apprezzato anche nella sua versione “breve”.
Caro Luca, consentimi il caro.
Ho letto il tuo racconto e mi è piaciuto.
Non ho altro da dire se non: brividi. Mi è piaciuto molto il finale, positivamente inaspettato. Inoltre ho apprezzato molto la delicatezza con cui hai affrontato un argomento così difficile. Complimenti! Un racconto che ti fa rimanere attaccato allo schermo!