Premio Racconti nella Rete 2017 “Il ragazzo che faceva troppo rumore” di Mario Abbati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Si è seduto nel posto accanto al mio, lato finestrino, alla fermata di Milano Centrale – io provenivo da Torino, diretto a Roma – , un ragazzo sui venticinque anni, uno di quegli studenti universitari che sembrano affidare al caso ogni dettaglio dell’immagine pubblica ma che alla resa dei conti basta rivolgere loro un’occhiata di sfuggita e si capisce subito che dietro quell’apparente sciattezza si nasconde una pianificazione da genio del male: capelli neri spettinati tendenti all’unto, occhiali dalla montatura rettangolare in stile vintage, pantaloni verde muschio e camicia rossa di flanella a quadroni. Se n’è stato una mezz’oretta tranquillo, con la testa reclinata sullo schienale, gli occhi chiusi rivolti al finestrino, immerso in un probabile sonno con la bocca che aspirava e soffiava aria imitando una fisarmonica sfiatata: un respiro così pesante non l’avevo mai sentito.
Finché non si è svegliato, ha raccolto lo zaino che teneva fra i piedi e dopo aver azionato una lampo difettosa che sferragliava sulla cremagliera peggio di una locomotiva del far-west, ne ha estratto un libro. Si è messo a sfogliarlo con mano pesante, facendo strisciare le pagine una contro l’altra, così da produrre un fruscio talmente denso che al confronto il metal-core che piace tanto a mia figlia è un paradiso per le orecchie. Dopo un po’ ho pensato che fosse colpa della carta, sì, la carta più rumorosa che mi fosse mai capitato di ascoltare, addirittura mi è venuto in mente che l’avessero prodotta in una fabbrica dove bisognava essere sordi per superare il colloquio d’assunzione.
Tra una pagina e l’altra ha rimesso mano allo zaino raschiando di nuovo con la zip e tirando fuori una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. A parte il tappo che emetteva insoliti cigolii, il tizio si divertiva ad affondare le dita nell’involucro producendo quell’insopportabile rumore di plastica schiacciata che è secondo soltanto allo striscio del gessetto sulla lavagna, in sintonia con le contrazioni della laringe che somigliavano ai gorgoglii di un lavandino otturato. Al termine del travaso ha accartocciato la bottiglietta con una violenza tale che mi sono venuti i brividi.
A quel punto l’ho odiato di brutto, dai recessi più profondi dell’anima. O meglio, non sapevo se odiare lui o prendermela con gli oggetti che via via toccava e che, stimolati dal suo potere tattile, sprigionavano i rumori più cacofonici che mi fosse mai capitato di mandare giù.
Ma il meglio, anzi il peggio, doveva ancora arrivare. Sì, perché all’altezza di Reggio Emilia, al terzo giro di chiusura lampo difettosa, ha estratto dallo zaino una busta di carta con dentro un panino. Non so dire cosa fosse più fastidioso, se i suoni laceranti che provenivano dalla busta, simili a una radio sintonizzata male, o il battere scomposto dei denti che trituravano il cibo. Denti così rumorosi non li avevo mai sentiti, nemmeno nei cartoni di Braccio di Ferro. Terminato il pasto, ha cominciato a emettere sibili lancinanti, come se scavasse con la lingua negli interstizi per estrarre i pezzetti di cibo che gli erano rimasti incastrati fra i denti, una tortura che mi ha quasi costretto a tappare le orecchie.
Neanche dal cellulare potevo aspettarmi segnali confortanti: durante il viaggio l’hanno chiamato due volte e in entrambi i casi ha atteso che l’arnese strepitasse fino al decimo squillo, ovviamente col volume della suoneria al massimo, una fastidiosa melodia monofonica stile videogioco che non avevo mai sentito prima.
Dio santo, ma se sei convinto di voler rispondere, che motivo c’è di spaccare i timpani al tuo vicino di sedile fino al decimo squillo?
Era evidente che anche chi lo chiamava, all’altro estremo del filo, conosceva a memoria quel vizio insopportabile e perseverava finché lui, superato il numero massimo di squilli, non si decideva a dargli o darle udienza. Quando succedeva e, dopo un sì interrogativo dal sapore un po’ snob, iniziava a parlare, il suo modo di esprimersi mi rendeva idrofobo, non tanto per il volume, no, in fondo lo teneva abbastanza basso, quanto per qualcosa di penetrante nell’accento, nel tono, non saprei dire, forse la tendenza a strascicare le esse, una specie di grimaldello sonoro che forzava i miei sistemi di difesa per pizzicarmi i nervi più sensibili.
Mentre il treno bucava l’Appennino fra Bologna e Firenze e lui sfogliava il libro producendo a ogni voltapagina quel frastuono assordante – tant’è che a un certo punto mi sono chiesto se l’oggetto su cui strisciava le dita non fosse fatto di carta stagnola – ho avvistato in lontananza il carrello delle bevande, sospinto da una coppia di hostess tutt’e due confezionate dall’uniforme rossa della compagnia ferroviaria. Ho pensato che uno spuntino mi avrebbe temporaneamente distratto dal bombardamento acustico che scaturiva dal mio vicino di poltrona.
«Cosa avete di caldo?» ho domandato alla fanciulla, non appena si è affacciata oltre il poggiatesta della fila davanti.
«Tè o caffè» mi ha risposto con cortesia.
Ci ho riflettuto qualche secondo.
«Un tè» le ho sorriso. «Con qualche biscottino. E se possibile uno spicchio di limone».
Alla parola limone il ragazzo si è girato e, da dietro gli occhialoni squadrati, mi ha rivolto uno sguardo intermedio fra il biasimo e l’indignazione. Ha sfoderato l’indice in versione eretta e si è sfiorato la punta del naso.
«Shhhhh!»
Cioè, mi ha sibilato di stare zitto. Lui, che da quando era montato sul treno non aveva smesso un secondo di sprigionare rumori molesti, ora pretendeva che fossi io, reo di aver esternato un paio di frasi idiote, a fare silenzio. Il senso di rabbia mi ha stritolato le budella a tal punto da reprimere qualsiasi velleità alimentare, ho fatto segno alla hostess che il tè non mi andava più e lei ha spinto il carrello verso le file successive.
Per fortuna è sceso a Firenze.
Quando ha varcato la frontiera col vagone successivo e gli sportelli si sono richiusi in uno sbuffo alle sue spalle, ho tirato, anzi i miei timpani hanno tirato, un sospiro di sollievo.
Mi sono trasferito nel posto di finestrino, dov’era seduto lui. Pochi secondi e l’ho visto transitare sulla banchina, i capelli arruffati ad arte, gli occhiali con la montatura in stile vintage, lo zaino in spalla, pieno di tutti quegli oggetti che facevano un dannato rumore. Di colpo si è fermato, ci ha pensato su qualche istante poi, per aggirare la massa di viaggiatori che avanzavano a passo di formica verso l’uscita, ha deciso di prendere la scorciatoia attraversando incautamente il binario accanto. Non si è accorto del Frecciarossa che a velocità ridotta, silenzioso come un’astronave, proprio in quel momento stava entrando in stazione. Quando la locomotiva l’ha schiacciato, nonostante il finestrino facesse da schermo, si è sentito con chiarezza il suono acre delle ossa che si spezzavano. Decisamente le ossa più rumorose che mi fosse mai capitato di ascoltare.
Divertente perché immaginiamo benissimo la scena, è successo a tutti di impazzire per un compagno di viaggio molesto e irrispettoso. Finale cinico ma ci sta.
Impressionante per l’aderenza alla realtà, i rumori molesti esasperano fino alle peggiori reazioni.
Impressionante per il finale che coglie di sorpresa. Un tema e un trattamento decisamente originali 🙂
Hahaha …caro Mario, se tu potessi sentirla, di certo sarebbe una risata che non hai mai sentito prima!!Bravissimo
Racconto estremamente sensoriale con un finale inaspettato e… rivendicativo. Davvero esilarante.
Ciao Mario, sai anche a me capita di non sopportare i rumori delle persone che mi sono accanto. Spesso capita in ufficio. Il rumore dei tasti pigiati sulla tastiera del pc o quando frugano nella borsa, quindi ti capisco, però addirittura punire con la morte…
Però il racconto anche se ha una fine tragica a me ha fatto sorridere è una storia simpatica.
Mario,
sfortunato il tuo protagonista: é noto che noi toscani siamo i peggiori compagni di viaggio! 🙂 🙂 🙂
Scherzi a parte e domandando ai miei compatrioti di non aversene per la battuta :-), il tuo racconto è ironico e dissacrante, veramente divertentissimo.
Il finale, poi, è davvero “uno dei più belli che mi sia mai capitato di leggere”!
Bravissimo.
Ciao Mario, il tuo racconto mi ha davvero divertito. Il finale cinico è in perfetta sintonia con la storia, come quando una mosca fastidiosa arriva al limite dell’intollerabilità e viene schiacciata senza pietà! ;-D
Racconto scritto benissimo, scorrevole e ironico. Il finale inaspettato è una vera esplosione 😀