Premio Racconti nella Rete 2017 “Canicola” di Alessandro Maradini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017canicola (ant. canìcula) s. f. [dal lat. canic?la «cagnolino» (dim. di canis «cane»], nome dato anticamente, e ancora oggi nell’uso lett., alla stella Sirio del Cane Maggiore.
La metropolitana s’inabissa nel sottosuolo come mai avevo visto prima. Un dedalo in continuo cambiamento con percorsi da imparare, coincidenze da conoscere e scorciatoie non segnalate dalle cartine a linee colorate blu gialle rosse. Un pugno chiuso che cerca di schiudersi nella sabbia.
Con l’autobus risparmio quattro, cinque, a volte anche sei rampe di scale che devo poi risalire per tornare in superficie traslato in un altro punto della città.
Se non mi sono accorto prima della fermata è dovuto al torpore che mi ha portato a utilizzare ripetitivamente lo stesso mezzo con cui sono arrivato dall’aeroporto seguendo le istruzioni dell’uomo che mi affitta casa. Per settimane ho continuato a scendere e salire lo stesso buco attraverso cui ho visto per la prima volta apparire e poi sparire il cielo di questa città.
Della malattia non voglio parlare. Sarò comunque costretto a farlo, di nuovo, con persone che non capiranno dicendo di prendermi tutto il tempo necessario. Non capiranno che non ho bisogno di tempo per ristabilirmi e poi tornare, e non lo comprenderà nemmeno mia sorella che si è ostinata ad accompagnarmi e a rimanere qualche giorno contro il mio volere perché spostarsi da solo nelle mie condizioni sarebbe stata una sciocchezza e non lo poteva permettere. Come se la volontà di allontanarsi dal luogo dove tutto è cominciato non sia comprensibile per le persone che mi sono state vicine per anni. Ad ogni modo nessuno, tranne lei, poteva permettersi di lasciare la vita di tutti i giorni, e allora meglio sconsigliarmi di partire promettendo visite e telefonate.
Il mio rifiuto a un suo soggiorno prolungato è stato netto. La sua presenza avrebbe ostacolato l’apprendimento di questa lingua che mi ero convinto essere la vera cura. Produrre nuovi suoni, sentirli accordarsi sempre più al modo di parlare di questa gente. Ho provato a spiegarlo per telefono al medico, che è un amico, ma si è limitato a sorridere come di fronte a un bambino che volesse curare il morbillo con un pacchetto di Zigulì.
Dopo la partenza di mia sorella il torpore non ha smesso di accompagnarmi facendo di me una specie di turista pigro. Non ho comprato una guida, anche se è rimasta sul tavolino quella utilizzata da lei. I nostri sguardi, miei e della guida, si incrociano spesso durante la giornata. Non ci siamo comunque mai sfiorati e la nostra convivenza ha trovato un perfetto equilibrio, lei rispettando il mio diritto a non portarla in giro e io apprezzando questa sensibilità rara in una guida.
Esco di casa solo per raggiungere i bar delle piazze meno frequentate. Porto con me il dizionario e un libro. Lo faccio ogni giorno e i camerieri cominciano a riconoscermi.
Ho ripreso la metropolitana. A causa dei lavori il normale percorso che porta al binario è stato modificato obbligandomi a passare davanti a un negozietto di cianfrusaglie dove ho comperato uno di quei cubi dalle facce colorate. All’uscita una gitana mi ha afferrato la mano dicendo che solo un pazzo o un ingenuo poteva credere di ricomporre il moto della vita.
Siamo entrati in quella parte dell’anno in cui Sirio sorge e tramonta con il sole. Il caldo lascia la città muta fino alle prime ore della sera. Trascorro i pomeriggi al parco: mi siedo, appoggio il libro su uno dei tavolini e guardo la copertina perdere i suoi contorni naturali. Mi ricorda un gioco che facevo al mare, da bambino. Scappavo da sotto l’ombrellone per cercare una porzione di spiaggia solitaria. Una volta trovato il posto giusto appoggiavo una guancia sulla sabbia bollente per poi chiudere gli occhi aspettando che il sole m’infuocasse le palpebre. Rimanevo immobile fino a quando non ero sicuro che riaprendoli avrei visto tutto in maniera diversa. Era la mia piccola estasi.
Al parco ho fatto amicizia con uno dei cani che gironzolano nei pressi del lago. Al collo porta una targhetta con la scritta Guinefort. Quando mi vede si viene ad accucciare sotto la sedia e ci rimane fino al momento del mio rientro.
Arrivando dal museo la prima via che porta alla grande piazza è Calle Postas ed è lì che ho incontrato Rubén. La piazza è sempre affollata da artisti che cercano di dividersi le monete dei turisti. Rubén li accoglie con un repertorio di numeri bizzarri prima che la loro attenzione si scomponga lungo il porticato del quadrilatero o nei contorni di una delle nove porte d’accesso. Quando l’ho visto stava eseguendo il pezzo del gatto nel cassonetto. Finito lo spettacolo si è avvicinato indicando il libro che tenevo tra le mani e mi ha detto che lui l’autore l’aveva conosciuto, che erano della stessa città. Mentre impacchettava la sua roba ha iniziato a raccontare cose che non sempre capivo e alla fine ci siamo trovati a bere sangria in un bar di cui non conoscevo l’esistenza. Per accedere bisogna scendere una scala di pietra che conduce a un’ampia sala fumosa e senza finestre. I camerieri vestono una giacca rossa e hanno l’aria di non essere mai usciti da quella grotta. Tra i frequentatori alcuni sono artisti e tutti conoscono Rubén. Nelle sere più ubriache fa un cenno al pianista prima di sparire per qualche minuto. Una musica da cabaret si diffonde per la sala e Rubén ricompare in costume da androgino. I sessi ostentati e la dolcezza dei visi. Dice che è il suo numero migliore e che non lo eseguirà mai al di fuori di queste mura.
Ho preso l’autobus e fra i volti degli anziani saliti a una delle fermate del quartiere residenziale alle spalle del mio è apparso il profilo di una ragazza. Lo sguardo fisso oltre il finestrino. Ho cercato un sedile libero qualche fila avanti a lei, nel lato opposto, pensando che da questa posizione sarei riuscito a vedere il viso per intero, ma il sole inondava la sua parte trasformando il vetro in una superficie incapace di riflettere.
Alla fermata successiva due signore corpulente e chiassose hanno preso posto di fronte alla ragazza creando un muro visivo e sonoro che impediva ogni contatto. Ho cominciato a leggere, alzando lo sguardo solamente durante il tragitto in cui l’autobus costeggia il grande parco. Adesso era la mia porzione a essere immersa nel sole.
Dopo aver superato Puerta de Alcalà l’autobus è arrivato al capolinea e tutti si sono alzati. Ho aspettato che anche lei scendesse per vederne finalmente il volto, ma non ha funzionato. Ha continuato a guardare nella stessa direzione, come se seguisse mentalmente una meta che non contemplasse la presenza di palazzi, negozi, incroci.
Come la maggior parte dei passeggeri si è diretta verso Puerta del Sol. Appena prima della piazza ha svoltato a sinistra, in una delle vie che salgono evitando la massa di turisti in coda davanti ai ristoranti.
Ho cominciato a seguirla assecondando il movimento delle mie gambe, senza pensare né sentire altro che la copertina calda e rigida del libro. Le gambe della ragazza si bilanciavano nel saliscendi delle vie più periferiche del centro passando accanto a gatti e bambini immobili nelle macchie risparmiate dal sole. Avanzava inavvertita, come fosse un’ombra o avesse la stessa consistenza della luce bianca di quell’ora. Il movimento dei piedi sembrava originarsi nel profondo, al di sotto della lastra di cemento infuocata sopra cui ogni giorno migliaia di uomini non cessavano di agitarsi.
La seguivo per vie sconosciute che più volte avrei voluto imboccare, ma che il torpore mi aveva precluso. Camminavo senza comunque mai sentirmi perso, percepivo che al di là di una fila di palazzi o di una chiesa c’era una strada che avevo già percorso dal mio arrivo.
La ragazza aveva ai piedi un paio di scarpe sparite ormai da anni dalle scaffalature dei negozi, difficili da vedere perfino sulle bancarelle domenicali del Rastro. Ero sicuro di aver già seguito quelle scarpe, anche se non riuscivo a ricordare dove e quando.
Mi è parso di capire che si dirigesse verso il quartiere che dal centro scende fino a Puerta de Toledo. I passanti si sono fatti ancora più rari, le vie completamente deserte e per paura di essere scoperto ho rallentato il passo.
Al centro delle viuzze il sole disegnava con l’ombra una linea che la ragazza percorreva obbligandomi, per non rendermi visibile, a camminare come un equilibrista.
Ho continuato a procedere ipnotizzato dietro a quelle scarpe.
Due sudamericani scaricavano un furgone occupando quasi completamente lo spazio fra due file di palazzi. La ragazza ha scartato l’ostacolo a sinistra facendomi perdere per qualche secondo il contatto visivo. Oltrepassato il veicolo non sono stato più in grado di vederla. Il cuore ha cominciato ad accelerare.
Superata la curva ho scoperto che la strada finiva col formare un cortile. Ho esaminato rapidamente le pareti, certo di incontrare il portone di un palazzo che invece non ho trovato. Gli unici edifici erano un negozio ancora chiuso e una galleria d’arte.
Mi sono diretto verso la galleria. Sono entrato sicuro di vedere la ragazza di fronte a una tela con lo stesso sguardo assorto che aveva sull’autobus. La sala, lunga e stretta, era più grande rispetto a quanto l’esterno facesse pensare.
La ragazza non era da nessuna parte.
Al centro della stanza, in fila, a un paio di metri l’una dall’altra, erano disposte quattro statue. Riproduzioni contemporanee in cera o silicone.
La prima statua, le spalle rivolte all’ingresso, si trovava sulla traiettoria di chi una volta entrato avesse deciso di proseguire per tutta la lunghezza della sala. L’ho superata, senza voltarmi, intento a cercare la ragazza nella stanza vuota.
Mi sono avvicinato alla seconda. Lo stesso uomo, in cammino verso il fondo della galleria. Un leggero scarto del capo, come a volersi voltare.
La terza statua continuava il movimento rivelando maggiori particolari del viso, ma l’aver riconosciuto ai suoi piedi le scarpe che avevo seguito fin lì mi aveva stordito a tal punto da dover distogliere gli occhi dalla riproduzione.
Ora ricordavo dove avevo visto quelle scarpe. Erano le mie, di quand’ero ragazzino.
Ho sentito il torpore abbandonarmi, sciogliersi in una luce calda. Quando ho rialzato lo sguardo sapevo già quello avrei visto.
Penso di essere il primo a leggere la sua storia. Che atmosfera strana e inquietante, thrilling quasi… potrebbe essere il racconto di un sogno. Bello il finale, interessante anche perché dice e non dice. Ma la storia dice tutto bene, con particolari sorprendenti e godibili. Mi è piaciuta molto.
Bella!
Anch’io trovo che il tuo racconto abbia un’atmosfera insolita, particolare. Lasci molti particolari irrisolti e questo lo rende ancora più interessante. Mi piace moltissimo il titolo e il doppio riferimento al cane (il protagonista che insegue se stesso?) e la stella che fa da contrappunto alla vicenda del tutto umana che racconti. Magnifica poi la Madrid che fa da sfondo. Un racconto da rileggere, sicuramente.
Gentile Alessandro, il suo racconto mi affascina. L’atmosfera, le descrizioni di chi prende l’autobus, il vagare nella città, si ha tanta voglia di andare a vedere come finirà. La fine quasi dà i brividi e una chiave di lettura per capire tutto il racconto.
Alessandro,
concordo con Ugo: un racconto di atmosfera e suspense, quasi la ricerca di un senso ad un sogno dal senso incompiuto, ma, proprio per questo, ricco e palpabile agli occhi del lettore.
Fantastica l’ambientazione.
Bravissimo.
Ugo, Chiara, Ivana (giusto si tratta di Madrid!), Dominique, Lorenzo: desidero ringraziarvi per l’attenzione mostrata verso il mio racconto, sono contento che vi sia piaciuto.
Grazie.