Premio Racconti nella Rete 2017 “La parola e il mondo” di Donatella Tognaccini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017C’era una volta … no, scusate, c’ero una volta io che insegnavo alle medie in una scuola di città. Avevo molti alunni, il numero esatto non me lo ricordo perché sono passati vent’anni, però erano tanti alunni più uno, un bambino piccolino, magro, con i capelli neri e gli occhi neri, che stava seduto più o meno al centro della classe. Prima media, primo giorno, un momento importante. Tutti stavano in silenzio, è un momento che non si dimentica, con gli occhi fissi su di me e io che non potevo guardarli tutti negli occhi, dopo un bello sguardo d’insieme e un sorriso d’accoglienza, presi i suoi occhi come punto di riferimento.
La geografia di una classe è difficile da ricostruire, la sociologia poi è una materia difficilissima, la psicologia nemmeno l’ho studiata all’università e in quel momento di silenzio dovevo prendere in mano il mondo che mi stava davanti, decidere di una relazione che sarebbe durata un anno scolastico, farmi conoscere un po’ più in profondità. Capite bene che si trattava di un’impresa eroica e difficile per la sottoscritta, impossibile no, perché questo aggettivo non ha fissa dimora nelle aule scolastiche, ogni tanto compare, con l’aria disorientata, ma per dire – Che ci sto a fare? Scusate, tolgo subito il disturbo!
Il banco del bambino, al centro di questo universo scolastico, era particolarmente ordinato. C’erano i libri di testo uno sopra l’altro a formare una catena montuosa, poi c’era la superficie del banco d’un verde acqua che fa tanto palude, ma anche prato e pavimento. Poi c’erano le penne e gli stavano tutte in mano e il quaderno aperto bianco immacolato. Il bambino stava dritto sulla schiena, lo sguardo sorridente, gli occhi immobili che delineavano una chiara traiettoria con i miei. Contro quest’attimo di sospensione andarono a infrangersi le parole, segnate dalla dura necessità di un atto previsto dalle convenzioni, ossia l’appello, per cui a una data combinazione di lettere corrisponde una persona e non un’altra e i suoni delle parole dilatano lo spazio a nazioni lontane di cui spesso si sa poco o nulla. Il nome e il cognome del bambino-mondo indicava chiaramente che non era italiano. Era quello il tempo dell’arrivo delle prime navi cariche di profughi che si riversavano sulle nostre spiagge e che sembravano essere fatte di persone e non di metallo, di colori e non di minerali, di capelli, occhi, sentimenti e non di vetri, plastica, leghe, bulloni, legno e così via.
Il bambino, come ebbi modo di apprendere in seguito, era un pezzettino di uno di quegli innumerevoli colori ed era fuggito via dalla sua patria. Dimostrava meno dei suoi 11 anni, era all’alba della sua vita e aveva deciso da solo che avrebbe avuto il giorno da attraversare e che come sarebbe stato quel giorno l’avrebbe deciso lui. Certo, fra lui e il giorno c’era di mezzo il mare, ma bastava chiamare il mare giorno, mettersi una maglietta blu, essere il mare e confondere le acque. Fu trovato dalla polizia che stava rannicchiato in una strada di periferia, solo. L’avevano raccolto, un po’ come si fa con una conchiglia che non si trovi su una spiaggia ma su un marciapiede. Ti viene da sorprenderti e da dire – Ma che ci fa una conchiglia in città?
E così anche lui era stato scoperto, mentre si riparava dal sole, tutto rannicchiato sul gradino d’ingresso del portone d’un palazzo, mentre dormiva con la testa tra le braccia che erano il cuscino e nemmeno aveva un volto ma solo capelli neri tutti sporchi e arruffati.
Era stato affidato a una casa-famiglia che gli aveva fornito vestiti nuovi, un bello zaino, cibo a sufficienza, penne, quaderni, belle scarpe nuove e l’aveva mandato a scuola, dove appunto l’avevo incontrato io. Era molto felice della sua nuova vita. Non lo diceva perché non sapeva parlare ancora bene e perché era impegnato nella scalata del linguaggio che è una montagna alta, ripida, difficilissima e con molti trabocchetti. Per questo stava sempre attento a dove metteva i piedi e guardava ogni volta più lontano lungo il sentiero della lezione che veniva tracciato ogni giorno, perché diversamente dai compagni non aveva la fortuna di essere accompagnato dalla lingua madre e lui una casa ancora non ce l’aveva e la doveva costruire passo passo mentre gli altri pensavano già all’arredamento, alle finestre e ai panorami.
Un giorno seppi che l’avevano convinto a telefonare a casa, ai suoi genitori, per avvertirli che era vivo, sano e salvo. L’aveva fatto, anche se non gli faceva piacere questa cosa di tornare indietro, togliersi la maglietta blu, ritrasformare il giorno in mare e mettere di nuovo una distanza ai sogni. Indietro non sarebbe più tornato. Probabilmente aveva chiuso gli occhi su qualcosa che non gli faceva piacere ricordare. La violenza è quando sei violato, quando qualcuno prende la macchina e attraversa il tuo cuore e chissà se così era successo a lui, se anche lui aveva le impronte degli pneumatici sul cuore da parte a parte ma non le voleva guardare e gli occhi per fortuna stanno in alto e hanno un diverso punto d’osservazione.
Dopo alcuni mesi in cui facevo piovere parole e forse le impronte degli pneumatici si vedevano un po’ meno e gli assistenti della casa-famiglia dipingevano dappertutto strisce pedonali geometriche e perfette, decisi di assegnare il primo compito in classe di italiano. Avevamo approfondito il significato della parola “cultura”, così detti loro da svolgere il tema: “Spiega cosa significa per te la parola cultura”.
Il bambino quella mattina, come al solito, dispose sul banco libri, quaderni e penne secondo la sua particolare geografia del mondo: palude o pavimento o prato, penne, libri-montagne e foglio protocollo bianco immacolato. Impiegò un po’ a scrivere con una bella calligrafia il titolo del tema, poi iniziò a pensare. Non era in grado ancora di scrivere nella nostra lingua e così pensò per un’ora buona sempre con lo sguardo sorridente e gli occhi immobili. Poi scrisse e consegnò il tema, impiegando altri dieci minuti a indicare sulla colonna del foglio piegato nome, cognome, materia, scuola, classe, data.
È un tema che ricordo bene perché si componeva in fondo di una sola parola, che il bambino aveva trovato dopo lungo pensare e che era frutto della sua esperienza. Come tutte le cose vere, aveva una sua forza di gravità ed era nata per restare. “Per me – scrisse – la parola cultura significa rispetto”.
Era una parola che si guardava intorno e guardava avanti, certamente si accompagnava alla fiducia perché il bambino sapeva bene quello che voleva fare. Dopo le medie si sarebbe iscritto a una scuola tecnica e avrebbe trovato un lavoro.
Forse il mondo non è un luogo troppo grande né certe parole sono diverse da larghi divani su cui accomodarsi e io, su questa parola, mi distendo ancora volentieri, in molti momenti di riposo. È una parola che resta, un arredo necessario.
Poetico e potente. Bravissima !
Donatella,
come il racconto dell’ormai amico di penna Raffaele de Leo, anche il tuo scritto apre uno squarcio sul mastodontico compito che la società assegna agli insegnanti.
Un lavoro duro, difficilissimo, che, sono convinto, sia fonte di immense responsabilità ma anche di grandi soddisfazioni.
Su questo sfondo hai dipinto con consapevolezza e carattere (oltre che con una bellissima prosa) il tema, sempre più attuale e spinoso, dell’integrazione razziale.
La dico con parole tue: mi auguro vivamente che un giorno, magari non troppo lontano, cultura e rispetto divengano sinonimi.
Complimenti.
Racconto molto denso. Mi piace molto il suo stile, le parole vanno dritto al cuore. Mi piace molto come descrive le sensazioni, i sentimenti dell’ insegnante nel primo giorno con una classe nuova. Mi rimarrà dentro questo bambino e questo suo tema.
Molto bello questo racconto, originale la prosa, delicato e profondo il contenuto. Sei davvero un’insegnante Donatella?
Donatella, scopro qui un mondo di insegnanti che lascia tracce di una vitalità non riconosciuta alla scuola. “Tutti stavano in silenzio, è un momento che non si dimentica, con gli occhi fissi su di me e io che non potevo guardarli tutti negli occhi, dopo un bello sguardo d’insieme e un sorriso d’accoglienza, presi i suoi occhi come punto di riferimento.” Queste tue parole sono, secondo me, le più significative: i punti di riferimento rassicurano chiunque e vanno cercati e offerti in uno scambio reciproco di esperienze e conoscenze. La cultura del rispetto, appunto.