Premio Racconti nella Rete 2017 “File raw” di Martina Rio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Alla fine dei conti sono davvero poche le cose essenziali in questa vita; eppure sono proprio quelle a fuggire facilmente dalla nostra “vista”.
A me piace chiamarle “file raw”; come quell’insieme di dati non compressi, vergini, grezzi, puri, che la nostra mente converte in immagini, sensazioni, sentimenti e che il tempo inevitabilmente modifica a piacimento.
Questa è la storia di chi, durante una formattazione inconsapevole, ha rischiato di perder(si)li per sempre.
I. Quello che non vediamo, non esiste.
II. Quello che non appare, non esiste.
III. Quello che non condividiamo, non esiste.
I.
Quelle parole suonavano nella sua mente come un gong assordante che si ripeteva con cadenza lenta ma incessante; le attraversavano il petto con dolore e a mano a mano che quel suono si faceva sempre più forte, sempre più penetrante, il desiderio di urlare diventava sempre più incontenibile.
Ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo di quiete, quel gong, sordo, intimo, rabbioso, era lì.
Finché una mattina qualunque, neppure piovosa, le lacrime iniziarono a scendere senza un apparente perché.
Un tempo sapeva bene cosa contasse davvero nella vita; sbeffeggiava i superficiali, i catastrofisti e quella strana categoria costituita dai “falsi ammiratori”.
Superbia? Forse.
Eppure, ancora oggi sapeva, perché ne aveva piena cognizione, cosa fosse essenziale, eppure spesso ne perdeva il senso, come se non riuscisse più a percepirlo; come se il programma di trasformazione dei dati immagazzinati non funzionasse più. E il solo pensiero le creava sgomento.
Forse il gong era la sua coscienza che gridava, prima lontana, poi sempre più vicina, per destarla da quel sogno assurdo di mancati attimi e sola fatica; forse voleva solo salvarla.
Seduta in silenzio, in quella dannata mattina, una volta tanto incurante di tutto il peso che aveva ogni santo giorno addosso, in quel caffè vuoto, con uno sguardo apparentemente perso, osservava al di fuori il via vai incessante dei passanti; una danza scomposta e asincrona, ideata da un pessimo coreografo: la fretta.
Dove corrono tutti?
Una domanda stupida per chi, ormai, corre sempre.
Una domanda arguta, da benpensante, per chi non corre mai; o almeno non ha mai avuto bisogno di farlo.
Un tam tam di tutto: di passi, di idee abbozzate, di badge che strisciano e contano il tempo, di foto condivise, di dita sulla tastiera, di eventi e incontri segnati su calendari sempre più fitti, eppure sempre più poveri.
Un mondo di mezze parole, magari anche sbagliate.
Di mezzi rapporti, di mezzi amici.
Un mondo di mezza conoscenza, di approssimatismo, di post o repost su instagram – perché è necessario apparire felici -, di citazioni tratte da libri mai letti, di muscoli e seni ben in vista, di
sentenze di condanna sull’inquisito del giorno, di millantatori di verità assolute e di falsi giudici autoeletti.
Un vomito di nozioni e argomenti incompiuti su tutto e tutti dall’odore così fetido da costringere chiunque abbia ancora un senso sviluppato a cercare tregua per ripulirsi dal senso di colpa.
Sì, dal senso di colpa per l’aver accettato un mondo simile.
Una eterna fuori luogo, troppo vicina e troppo lontana da tutto; estranea al più, intima a ciò che non viene più apprezzato: non superbia, ma follia. Niente anticonformismo, solo ricerca di quiete, autenticità e vita; di quei dati grezzi, eppure completi, non convertiti e distorti dalla società.
Nel susseguirsi di immagini che affogavano la sua mente, la vista ormai “opaca” sulla strada si spostò su un gruppo di ragazzini che si aggiravano, divertiti, intorno ad un anziano non vedente: aveva un cartello “divertente” sul cappotto.
Sì alzò, andò verso l’uomo e tolse delicatamente quello stupido cartello.
Cercò di non destare l’attenzione dell’anziano, invano: la percezione di chi ha perso un senso è molto più spiccata di chi, non curante, ne abusa.
“Grazie, giovane donna”.
Silenzio.
“Ha un passo deciso e leggero, come se dovesse chiedere scusa per la sua forza”. Incalzò.
Silenzio.
“Non mi guardi perplessa. Mi dia retta, non si scusi, gli altri non lo faranno mai.
Mi immagino la sua espressione sbigottita, mentre inchiodata al suolo, mi fissa.
Potrei sbagliarmi, ma sono sicuro che non sia così.
C’è una grande differenza tra correre e andare di fretta, anche se in pochi notano questa lieve e appena accennata sfumatura.
Chi corre, scorre velocemente ciò che gli sta intorno rischiando di perderne l’essenza, la completezza; chi va di fretta, invece, non ne percepisce neppure l’esistenza e tutto gli scivola semplicemente addosso, non resta niente.
Chi corre è disposto a sorridere, anche se distrattamente; chi va di fretta, no.
Chi corre, può fermarsi e volgere lo sguardo al tramonto o ad un vecchio stanco come me.
Chi va di fretta, non nota neppure il calar del sole, il passare del tempo, il perdersi dell’affetto e lo scorrere della vita.
La ringrazio per aver tolto quello stupido cartello; lo fanno spesso, ma nessuno ha mai il coraggio di dirmelo. Lo toglie mia moglie quando torno a casa, e nei suoi gesti lenti e incerti sento il suo dispiacere. Ma io la rassicuro, sa? «Ciò che non vediamo con gli occhi, non esiste. Ma ciò che percepiamo, anche se non lo vediamo, esiste eccome ed è più reale di qualsiasi immagine oscurata e resta lì, in attesa di essere trasformato in qualcosa di migliore; come il tuo amore per me».
In quanto a lei, la smetta di chiedere scusa e riprenda a sentire”.
II.
I clacson erano assordanti, i motori delle auto in coda un mormorio frastornante, le urla della fretta delle lame affilate.
Salutato l’anziano, turbata, riprese a camminare; e a mano mano che si allontanava dalla via principale sentiva il passo rallentare spontaneamente, il viso distendersi, l’olfatto acuirsi: fu allora che sentì l’odore intenso del salmastro.
Svoltò per un paio di vie, corse sulla sabbia e non curante del freddo si sedette sulla riva.
Quello che si stagliava per chilometri avanti a lei era un mare stanco, esamine, uscito da una snervante tempesta; non invitante.
Eppure era come se lo vedesse, dopo tanto tempo, per la prima volta.
Spesso ci si ferma ad osservare la “forma” e se a prima vista non ci piace, passiamo oltre.
Una foto per essere condivisa ed avere tanti like deve essere bella, far provare piacere, far desiderare a chi la guarda di voler essere lì; magari invidiarti.
Con il filtro giusto è sempre tutta un’altra storia.
Amare la fotografia, però, non vuol dire necessariamente amare l’immagine.
La condivisione di ogni attimo di intimità, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, rende la vita attuale un susseguirsi di immagini più o meno belle, più o meno ben fatte, ma pur sempre pixel rielaborati destinati ad esser sputati nel web; non nobili dati grezzi destinati a rendere un concetto, a rubare un’anima o cogliere un attimo unico ed infinitesimale di una esistenza.
L’immagine è altro dalla fotografia e la fotografia è solo in parte immagine: è un concetto, un pensiero, una sensazione, è carta stampata che si possiede e si tocca, è vita colta con rispetto e irriverenza.
E così un like dietro l’altro, le immagini finiscono per prevalere sulle parole, sulle idee, sui sentimenti, sulla realtà.
Era questo che pensava, mentre il vento, ancora ostile al mare, strascicava inutili volantini, pieni di parole vuote.
“Avevo perso gli occhi per la meraviglia”. Disse ad alta voce.
Eppure, passata la tempesta, il mare regala incredibili sorprese; l’aria è pura, il cielo di un azzurro più intenso, l’attimo di quiete che si crea tra uno sprazzo di vento e l’altro, silenzio immenso.
Se si guarda oltre, c’è molto di più. Lo aveva scordato, così come aveva scordato il giorno in cui ne aveva percepito l’essenza.
“Chi si ferma ad osservare la forma e chi guarda oltre; chi si sofferma a scorgere l’orizzonte e intravede quell’impercettibile spazio che si frappone laggiù, in un non luogo, dove cielo e terra non si incontrano mai. Chi scorge quella linea si sente inadeguato davanti alla grandezza del mondo perché ne percepisce l’intensità e non riesce a tradurre tanta grandezza”.
Un pensiero scarabocchiato, rielaborato da un celebre libro, che portava sempre con sé e che aveva perso di senso.
Ciò che non appare, non esiste; finché l’epifania non ti entra dentro ed è più reale di uno schiaffo ben assestato.
III.
Su quella spiaggia bagnata e sudicia aveva ritrovato la sua vecchia strada per riconquistare il “senso”.
L’aveva messa da parte per sopravvivere a quella inadeguatezza che permeava nella sua mente e che voleva combattere con sgomento. Troppi dati da rielaborare, troppi “livelli” da gestire, troppi grigi da convertire in colori, troppo… sentiva troppo e per quiete aveva scelto di non sentire più.
Si era adattata a quel mondo assurdo, che avrebbe voluto rifare da capo, per essere forte per
tutti, per sorreggere anche chi non aveva il suo stesso coraggio, scagliando lontano il resto.
“Il mondo non è fatto per la gente come noi. Devi scegliere se sfruttare il tuo potenziale, la tua capacità di percepire, oppure alleggerirti; non puoi riuscire a gestire tutto, rischi di implodere”.
Quelle parole, pronunciate da una persona adulta, molti anni prima, tuonarono nella sua mente come un presagio.
Un maledetto presagio.
E così, alla fine, in tutto quel vagare, in tutte quelle ore insonni, comprese di essere ancora capace di percepire l’essenza delle cose, di captarne le tonalità e le sfumature più recondite. La sua mente lo aveva sempre saputo, era solo il suo cuore a non sentirlo più.
Analizzava troppo ciò che percepiva deviando il pensiero originario, puro. Sviscerava qualsiasi cosa non riuscisse a comprendere e ne cercava una risposta, ma nel risultato finale, nonostante gli sforzi, continuava a mancare sempre qualcosa.
Era arrivata al punto di chiedersi se non fosse più semplice convertire la luce in buio: meno dati erano percepiti, meno dati dovevano essere rielaborati.
Se si percepisce “troppo”, quando lo slancio manca e i dati continuano ad accumularsi, uno sopra all’altro, in maniera disorganizzata, continua, incessante, il rischio di implosione, preceduto dal gong, diventa un pensiero concreto, una via di fuga dal tutto.
Il suo compito adesso, aggiustato il “sensore”, era quello di eliminare un passo alla volta i dati superflui e rielaborare solo i dati grezzi, puri; solo quelli davvero essenziali.
In un attimo di improvvisa quiete, come se il vento avesse partecipato ai suoi pensieri, prese l’ultimo respiro e chiuse gli occhi per fotografare tutta quella bellezza che la invadeva e che le dava piacere.
Asciugate tutte le lacrime mai liberate, riconquistato il senso, si alzò e riprese ad indossare il suo rossetto preferito: il sorriso.
***
La giornata si concluse bene tra amici entusiasti e un po’ alticci che avevano premura di condividere sui social la loro – vera o falsa che sia – felicità.
Nessuno sapeva che cosa aveva evitato quella mattina qualunque, lontano da tutto e da tutti.
Ciò che non condividiamo, non esiste: forse.
Cara Martina, non so come questo bellissimo (e non facile, anzi .. ) racconto mi possa essere sfuggito …hai dipinto ed illustrato stati d’animo e fallimenti e resilienze in una maniera inconsueta, direi alla Camus. Disperata ma non sconfitta, direi.Il mare, poi, Inconscio liquido materno che ci riporta in quello amniotico di GIBRAN ..’.e un’altra donna mi partorirà..
FORSE??
Carissima Laura,
la tua analisi è meravigliosa: quasi più bella del racconto stesso.
Onorata di averTi ricordato cotanti scrittori: amo Gibran in particolare.
Il racconto di per sè è una visione interiore di un mondo basato sulle apparenze e sull’utilizzo inconsapevole e spasmodico dei social network: una critica costruttiva ad un utlizzo consapevole, ad una ricerca di ciò che davvero conta.
Se la protagonista, infatti, parte sconfitta, all’esito del racconto, riconquistata la consapevolezza, ne esce vittoriosa, “rinata” e più disincatata: quasi distaccata da chi non va oltre l’apparenza perdendo il senso delle “cose”.
Grazie per avermi dedicato del tempo.
Martina
Bellissima riflessione!
Molto arguta e pungente, mi ricorda una serie televisiva intitolata “black mirror” in cui viene mostrata l’alienazione quasi più totale che il genere umano ha verso la propria tecnologia.
In certe “immagini” di quest’epoca si evidenzia quanto non siamo noi a possedere gli smartphone e gli account social, ma che siano loro a possedere noi.
Caro Granit, felice di leggere le tue parole. Martina.
Martina, che originale il tuo racconto. Una commistione tra saggio e narrativa, un’idea nuova e giovane. Non confuto nulla, anzi, tesi ben sostenute e confermate… come volevasi dimostrare… ma con la passione e il trasporto del cuore. Brava!
Martina, sei bravissima! Un grande in bocca al lupo!
Maria Cristina, Ti ringrazio per la tua gentilezza. In grande in bocca al lupo a te!
Cara Marcella, leggo con grande piacere il tuo commento.
Sono contenta che Tu abbia compreso e sentito la passione che ho messo in questo racconto.
Un caro saluto,
Martina.