Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Terra di Siena Bruciata” di Bona Baraldi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

La piana si apriva inaspettatamente fra colline boscose ad accogliere una ventina di box, tre maneggi all’aperto, un sobrio insediamento come ufficio e un maneggio coperto.

Alcuni cavalli ospitati erano di proprietà di facoltose famiglie della vicina città, altri restavano a disposizione dei soci per imparare a montare o allenarsi per concorsi ippici.

Eravamo in poche persone a frequentare il club, gli stessi proprietari dei cavalli arrivavano di quando in quando: possedere un cavallo per loro era più che altro simbolo di status quo.

Mi permettevo così di andarmene per ogni dove per quanto tempo avessi a disposizione.

Un primo tempo lo dedicai ad imparare a correggere i difetti del mio assetto poi fui in grado di partecipare a qualche concorso grazie al fatto che riuscivo a restare in sella a Vega nei percorsi a ostacoli.

Vega era un mezzo sangue di quasi cinque anni con un caratterino! Nessun altro cavallo poteva starle vicino, ombrosa com’era, scalciava e s’impennava, disarcionava chi osava farla saltare comportandosi come un cavallo selvaggio: ma io l’amavo e lei lo sentiva.

Conquistai la sua fiducia insegnandole con pazienza a non temere le pozze d’acqua, i fagiani che acquattati nel sottobosco spiccavano il volo gridando al suo passare, l’avvicinarsi minaccioso dei grossi maiali in libertà, gl’improvvisi temporali.

Vincemmo insieme corse scapicollate e vivemmo avventure nei boschi accompagnate da Pippo, un basset hound felice di scorrazzare libero senza perderci di vista balzando al di sopra di alte pannocchie di granturco o di intrigati cespugli.

Ci allenammo anche per correre il Palio di Siena in compagnia di colei che era stata la seconda donna fantino in tutta la sua millenaria storia. ‘Rompicollo’ la chiamavano prima e ‘Diavola’ l’avevano soprannominata per l’occasione: con il suo vero nome la intervistai anni dopo per una trasmissione sul Palio per conto di una radio privata.

Avrei voluto essere la terza donna a correre una carriera (l’incoscienza non mi mancava) ma nonostante Rosanna Rompicollo mi assicurasse che ne avrei avute le qualità, ad ogni fine allenamento mi raccomandava anche di non provarci perché troppo rischioso: prendere botte da orbi provenienti dagli altri fantini o dai contradaioli era quasi certo. Lo aveva provato quando nel 1957 aveva corso per la contrada della Torre: ‘tu hai famiglia non te lo puoi permettere’. Tanto insistette con quel ‘Cartago delenda est’ che infine desistei.

Mi dedicai allora alla ricerca di nuovi percorsi.

Le colline circostanti venivano battute seguendo gli scarsi sentieri che per lo più portavano ad antiche ville sedi estive nobiliari o a villaggi medievali semideserti.

Talvolta uscivamo in compagnia di altri esploratori come quel giorno con un cavaliere e il suo Furore in una mattina d’Aprile in cui il sole, dietro le nebbie, non dava ancora segni di risveglio.

Ci eravamo trovati all’alba per ‘lavorare’ insieme i cavalli: il freddo umido era ideale.

Alla stalla i fieri animali scalpitavano eccitati dalla primavera.

Dopo faticosi preparativi a imbrigliare e sellare Vega e Furore, decidemmo di avventurarci nel fitto del bosco. Partimmo.

Conversammo finché la strada fu nota poi ci addentrammo nella vegetazione che infittiva sempre più, in silenzio.

Gli odori del bosco si insinuarono nelle narici di uomini e animali pronte a gustarne le forti essenze di muschi e terra umida arata dagli zoccoli.

Salivamo inerpicandoci fra lecci toccati appena da un tenero verde, corbezzoli ostinati nel mantenere il fogliame antico col nuovo e resinosi pini mediterranei che più che ombrelli parevano giganteschi funghi velati di un bianco lattiginoso i cui filamenti lambivano le edere avvinte a lato nord.

La nebbia batteva sulla pelle come pioggia.

Ad un tratto gli orecchi di Vega si drizzarono e tutto il suo agile corpo si irrigidì.

‘Cosa succede?!’- mi allarmai.

Anche il cavaliere aveva avvertito un cambiamento nel suo Furore e rallentato il passo si era lasciato cautamente avvicinare da Vega.

‘I cavalli si sono innervositi, vedi niente?’ – Negai con un cenno della testa.

Sostammo in attesa che qualcosa accadesse.

Fu allora che il suono di un canto lontano giunse anche alle nostre orecchie.

Ci guardammo interrogandoci con gli occhi ed in silenzio riprendemmo il passo in direzione delle voci.

Qualche raggio del primo sole riuscì a fendere a tratti la nebbia ma nessuno e nessuna costruzione erano in vista, solo una poiana volteggiava in attesa di dirigersi in picchiata sulla preda.

Il canto si faceva sempre più potente, le voci aleggiavano nel paesaggio circostante incuneandosi fra il fogliame come onde dai colori ultravioletti.

Eravamo certi di essere vicini alla fonte del suono ma il fitto del bosco non lasciava intravedere tracce umane.

Il cavaliere impaziente si pose a ragno su Furore lanciato ad un galoppo improbabile e scomposto.

Io invece rallentai ancora per ascoltare quelle note che si alzavano in acuti impossibili: avevo quasi timore che scomparissero nel nulla.

Ma ecco che la vegetazione si ordinò allineandosi a formare un viale: al centro, su un selciato nato come per incanto, spiccava la figura altera del cavaliere che aveva trovato un trotto serrato e si avvicinava ormai allo scenario di fondo: un convento semidistrutto.

Le finestre erano buchi neri senza né vetri né legni: il tetto quasi inesistente. Qua e là, per terra, assi da impalcature maculate di candida calce e rottami di persiane divelte.

Tutto sembrava abbandonato da secoli.

Le voci erano così potenti ora da far accapponare la pelle: ogni acuto era un coltello nelle ossa e un brivido lungo la schiena.

Il cavaliere si era fermato all’attraversare di uno scoiattolo, lo raggiunsi: era pallido in viso e aveva gli occhi spauriti, l’acqua che colava dai suoi capelli formava rivoli in serpentine a delinearne i tratti somatici facendolo apparire spettrale. Fece girare il cavallo su se stesso: per lui era giunto il momento di tornare indietro.

Le voci cessarono di botto.

Furore fece un altro giro e si affiancò di nuovo a Vega. Nel silenzio solo l’ansimare dei cavalli, noi umani non respiravamo.

Un cigolio.

Un bisbiglio all’interno di uno spazio non identificabile.

Da una piccola pesante porta uscì la figura minuta e nera di una suora che ci si fece incontro con un sorriso smagliante e infantile agitando le braccia in aria:

‘Via! Via signori! Qui è clausura! Ma no…no…aspettate…fatevi vedere, non capita mai nessuno da queste parti, come avete fatto ad arrivarci? Chi siete? Da dove venite? Come siete belli! Uh, ma siete completamente bagnati! Non ve ne andate… Quando le sorelle saranno rientrate potrete asciugarvi e visitare la nostra casa…se volete…è bello qui vero?!

C’è molto lavoro ancora da fare ma a me sembra di essere già in Paradiso: a volte mi par di vedere la Madonnina o Nostro Signore Gesù uscire dalle celle disabitate…oppure mi appaiono all’imbrunire fra le intrigate braccia delle querci.”

La sua voce era tanto cristallina che ogni parola pareva si trasformasse in una goccia di rugiada ed i suoi occhi sprizzavano faville ad ogni cambiamento di espressione.

Svelato il mistero ci asciugammo, ci riscaldammo, visitammo il convento.

Uscì definitivamente il sole.

Montammo di nuovo le nostre cavalcature e tornammo da dove eravamo partiti.

Senza una parola.

Poi il club fu invaso.

Un’orda di variopinti impiegati di banca come pecore dietro il montone a far sfoggio di fiammanti quanto inadeguate alte monture si accalcò alle staccionate.

I più si mostrarono atterriti dalla mole degli animali e maggiormente al pensiero che avrebbero dovuto montarli: ma tant’è, dovere inderogabile per tenersi al passo coi colleghi e non sfigurare agli occhi del capufficio.

Captai qualche conversazione: ‘che dici, questo puzzo di animale mica ci resterà addosso?’ o anche: ‘ma guarda che ci tocca fare! Oggi c’è anche la partita in televisione!’

Incrociavo le dita perché Vega non fosse sellata.

Ad uno ad uno i cavalli uscirono dai box ed ogni impiegato trovò la sua cavalcatura.

Montarono anche Vega. Non avevo alcun diritto su di lei.

L’invasione si ripeté ogni fine settimana e poiché Vega tornava scossa e visibilmente soddisfatta a mettere il muso sulla mia spalla, io nutrii la speranza che a causa del suo comportamento non l’avrebbero più affidata a nessuno se non a me.

Non fu così. Vega aveva ormai sette anni e molte qualità, buoni tempi in corsa, validi percorsi a ostacoli: doveva solo essere resa più docile, meno imprevedibile e bizzarra.

Ci riuscirono.

Non ressi alla vista della ‘mia’ Vega rassegnata al ruolo di ronzino: arrabbiata, addolorata e impotente la salutai e me ne andai: non misi mai più piede al club.

L’avere un rapporto simbiotico con un cavallo però mi era entrato nel sangue. Mi mancava. Mi mancava anche il ‘puzzo di animale’.

Era settembre, vagai per la campagna con i miei due cavalli vapore alla ricerca di quell’odore: l’olfatto presto mi annunciò l’avvicinarsi della meta.

Accostai al muro di cinta di una grande casa colonica e senza indugio suonai il campanello.

L’uomo che venne ad aprire la porta rimase di stucco alla mia immediata richiesta di montare a cavallo. Un po’ frastornato e quasi incredulo mi comunicò che stava giusto cercando un fantino ma che non avrebbe mai ingaggiato una donna.

Era il proprietario di un allevamento di purosangue, non dava cavalli in affitto lui!

Lo pregai di mettermi alla prova: se non fossi stata all’altezza avrebbe potuto allontanarmi senza problemi.

Superato un primo momento d’imbarazzo, acconsentì. Mi accordò un appuntamento di lì a pochi giorni.

La pioggia insistente mi tenne ore col naso spiaccicato contro il vetro delle finestre dello studio nella speranza che cessasse. Cessò solo il giorno stesso della sfida: immaginai il terreno come un viscido acquitrino e la pista sicuramente impraticabile. Non sarebbe stata una prova semplice da superare.

Mi recai all’appuntamento.

Il proprietario mi presentò il cavallo che avrei montato: Orti Oricellari. ‘Morde’ mi avvertì l’allevatore ‘e sono mesi che nessuno lo lavora’. Orti era un baio di quattro anni reduce da competizioni con buoni piazzamenti ottenuti e qualche vittoria ma ormai scartato dalle piste perché soffriva di coliche renali. ‘Essendo nato qui lo abbiamo ripreso per affezione altrimenti sarebbe andato al macello ma per noi è solo un peso…sono diventato troppo romantico’.

Mi avvicinai al muso di Orti che curiosava dal box: scosse la testa e mi sfiorò la spalla con le labbra, senza morderla.

Me ne innamorai all’istante: due stallieri lo sellarono e lo accompagnarono fuori dal box con circospezione. Era molto bello: fiero il portamento, piuttosto compatto (ottimo per un buono sprint alla partenza) potente l’incollatura ma troppo magro. Si lasciò montare dopo qualche capriccio e tentando, allora sì, di mordermi lo stivale sinistro mentre girava su se stesso.

Gli stallieri si allontanarono rapidamente e l’allevatore saltò sulla sua jeep da dove mi indicò il percorso che aveva scelto: qualche chilometro di terreno misto di campagna, salti e guadi, strada asfaltata fra agglomerati di case e così via. Lui mi avrebbe tenuto d’occhio seguendomi a distanza.

Superai la prova alla grande tanto che l’allevatore avrebbe voluto assumermi con un buono stipendio se mi fossi presa la responsabilità di addestrare due puledri di due anni e due fantini che non avevano molta esperienza.

Non avrei potuto impegnarmi così tanto: rifiutai il denaro ma assicurai la mia presenza per qualche ora a giorni alterni.

Per prima cosa mi occupai della salute di Orti. Cura immediata con pastone appropriato, uscite mirate al ripristino della muscolatura.

In sei mesi recuperò sessanta chili e un’ottima forma. Neppure una colica!

I puledri intanto avevano imparato a non cedere alle paure e a lasciarsi guidare dagli uomini e i fantini ormai se la cavavano discretamente.

Giunse la primavera e la splendida campagna senese si arricchì di colori con le prime foglie verde Veronese sgargiante, l’erba nuova più carica di caldo giallo punteggiata di fiori spontanei variopinti in netto contrasto con il verde-nero dei sempreverdi e il rosso-bruno della terra umida.

Si avvicinava il periodo delle corse…forse, chissà, anche Orti avrebbe potuto parteciparvi di nuovo. Questo pensiero mi divenne un’ossessione, un preciso traguardo da raggiungere.

Raddoppiai l’impegno e finalmente ottenni il nullaosta per il primo rientro di Orti all’ippodromo.

Avrei voluto vivere quell’esperienza da sola ma l’allevatore impose la presenza dei due fantini ed i puledri: sarebbe stata la prima volta per loro.

Partimmo in formazione per un lungo tragitto con lo scopo di affaticare i cavalli. Salimmo viottoli di collina incontrando animali selvatici, costeggiammo case coloniche sparse nel territorio rispondendo ai saluti gioiosi dei bambini e trattenendo le cavalcature allo sciamare delle oche, delle galline, agli abbai dei cani.

Rasentammo lo steccato di un altro allevamento dietro al quale i cavalli pascolavano tranquillamente. Al nostro passare però i pigroni incuriositi si accalcarono alla staccionata nitrendo e scalpitando. Orti rispose al saluto con balzi e testacoda intavolando una piacevole conversazione mentre i fantini stanchi di dover combattere ad ogni piè sospinto, fecero dietrofront rinunciando a proseguire.

Orti Oricellari sembrò capire che era un momento solenne per lui: fremeva ed allungava l’incollatura come per dirmi ‘lasciami andare ora, sento che sta per succedere qualcosa’. Lo tranquillizzai accarezzandolo e bisbigliandogli all’orecchio.

Giunti ormai all’apice della collina, la vista si aprì sull’ippodromo. Giaceva sul fondo valle: le due piste erano occupate da prove di velocità e le staccionate dagli allevatori accalcati che gridavano incitando i loro cavalli.

Immediatamente Orti s’impennò e nitrì: avrebbe voluto precipitarvisi senza di me, non mi sopportava più, non mi riconosceva più: lo costrinsi a percorrere quel miglio in un tempo infinito.

Il pericolo maggiore fu attraversare la strada statale asfaltata e piena di traffico: Orti trottava e galoppava restando sullo stesso punto, più volte rischiammo di scivolare.

Finalmente entrammo dai cancelli che ci furono spalancati in vista di qualche possibile danno che avremmo potuto arrecare: avvistati da tempo era stata liberata per noi la pista grande. Il mio allevatore che aveva seguito fino a quel momento il nostro avvicinarci con cenni di approvazione, ebbe un attimo di sgomento quando entrammo in pista andando di quarto.

Quello era il momento tanto atteso da Orti, con stupore lo sentii riprendere forza e vigore.

Dopo alcuni giri a passo forzato passammo al trotto ed infine provammo un galoppo molto trattenuto ma la sua falcata si allungava sempre più…ora ero io che non lo riconoscevo e questo suo nuovo aspetto m’inebriava.

Passammo e ripassammo davanti agli allevatori che ci incitavano urlando e alzando le braccia, probabilmente tenevamo già un buon tempo ma io trattenevo ancora Orti.

Quando vidi il mio allevatore far scattare il cronometro allentai le redini e mi immedesimai con Orti, ora contava solo correre.

Affrontammo a velocità di rischio la curva ovest e cacciai Orti in dirittura, riuscimmo miracolosamente a superare la curva est e di nuovo cacciai Orti ‘Vai! Vai! Vai! Si vola Orti si vola!’ Di nuovo la curva ovest e la dirittura a tutta velocità ma quando ci trovammo a ridosso della curva successiva non c’era modo di affrontarla senza rovinarsi.

Saltare la staccionata? Con il terreno molle c’era il rischio di una brutta caduta.

Gettarmi da cavallo? Da solo ce l’avrebbe fatta di sicuro.

No. Lo fermai seduto sui posteriori. Si rialzò calmo.

Lo carezzai grata e uscimmo dalla pista al passo. Smontai e mi assicurai che Orti stesse bene. Tutto ok. Eravamo sudati stanchi e felici.

Mi dissero che il tempo ottenuto era stato ottimo, tutti gli allevatori si complimentarono per la decisione presa riguardo al non aver continuato la corsa ed al modo con cui avevo ottenuto il bloccaggio del cavallo senza che ne subisse conseguenze. Mi avrebbero voluto ingaggiare in molti. Il proprietario di Orti fu fiero di me.

Tornata a casa mi resi conto che per non rovinare in bocca Orti mi ero beccata una brutta tendinite al polso destro che mi costrinse a non usarlo per mesi.

Ebbi modo di riflettere. La passione per i cavalli mi stava travolgendo: famiglia e studio di pittura, il mio lavoro, ne stavano risentendo negativamente.

Pur sapendo che tali emozioni erano parte integrante del mio nutrimento, presi la decisione di non passare più nelle vicinanze di un allevamento.

Fu l’ultima volta che montai a cavallo.

 

 

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.