Premio Racconti nella Rete 2017 “Sedia di pino” di Giulia Mattola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Rachele:
Quasi riesco a vederti. Stai al solito angolo, quello che improvvisa una leggera divisione tra la cucina e il salotto. Quello che non viene mai toccato dal sole. Stai sulla tua poltrona, la poltrona verde e grande che era di tuo padre. Mi chiedo cosa ci fai ancora li, la tua nuova casa, la mia, è interamente soffocata dal sole. Non puoi più nasconderti. Sarà li quando ti sveglierai al mattino e ti colerà dagli occhi, la sera, quando li chiuderai. Sarà una gioia vivere di luce, te lo prometto.
Poldo:
La poltrona di mio padre. Rachele tu non sai che mio padre, il tuo bisnonno, da quando io sono nato non ha mai dormito in un letto vero, povera mamma, che sopportava sempre le sue lunaticherie. Lo giustificava, raccontandoci che era nato con il vermicello leggermente fuori asse e dunque non era colpa sua. Era una donna istruita, mia madre. Non tutti sanno che il vermicello è quella parte del cervello che aiuta l’equilibrio, ma non credo intendesse l’equilibrio fisico e non credo che mio padre l’avesse mai capita davvero. Egli visse una vita intera lontano dal letto coniugale, lontano da mia madre e lontano dal sonno vero, quello profondo che ti fa sognare, che ti fa svegliare completamente riposato e inspiegabilmente felice. Rifiutava quelle sensazioni. Diceva sempre che se mai le avesse riprovate non sarebbe più riuscito a spaccarsi la schiena a lavoro, ogni ora, ogni giorno e che così io, mia sorella maggiore e mia madre saremmo morti di fame. Era un uomo ignorante mio padre, ignorava tutto, proprio da questa poltrona. Quella santa l’amava troppo per sbatterlo contro un muro e urlargli dritto in faccia che era stanca di sentirlo sbracarsi nel suo comodo e patetico ruolo di vittima, che tutti si spaccavano la schiena e che tutti meritavano sprazzi di felicità, persino lui, persino lei. Ma non osava contraddirlo, viveva nella paura. Sapeva che lui non l’amava più. Non sopportava il suo odore, il suo modo di camminare, i cibi che cucinava, le canzoni che ogni tanto canticchiava, i suoi occhi serenamente gonfi la mattina.
Rachele:
Quasi riesco a vederti. Completamente e indignatamente circondato da sacchi di mobili, libri, pentole e cianfrusaglie che conosci come la tua pelle e che non avevi mai avuto la decenza o la sensibilità di riconoscere, di apprezzare, di vivere in quanto tuoi, in quanto cimeli di una vita che era solo tua e che passava, anno dopo anno, decennio dopo decennio, di fronte alla loro apparente inutilità emozionale. E ora io, ho avuto la strafottenza di schiaffarteli li davanti agli occhi, impacchettati di polvere. Riuniti in quell’unica stanza li vedi per la prima volta. Avrei fatto prima ad urlarti: “Ecco! La tua intera vita può riassumersi in otto metri quadri. Ora deciditi ad alzare quel culone ricoperto di carne cartapestata e vieni via con me, vecchio presuntuoso”. Avresti sputato sulle mie parole con la stessa indifferenza con cui rifiuti da anni gli inviti a cena della vicina: la signora rossa, che alleva lumache e gigli. Ma io non ho parlato, per questo l’apparente rabbia nostalgica che ti ancora a quella poltrona da stamattina dà così fastidio. Sono pensieri che hai partorito tu. Non puoi più nasconderti.
Poldo:
Ho deciso di lasciarla qui la poltrona, in questo stesso angolo di buio. Voglio liberarmi di quel fantasma che vi dimora ancora e che distorce il mio di cervelletto. Mi sembra di vivere la vita di entrambi i miei genitori. La mia l’ho lasciata da qualche parte nell’armadio del corridoio, vicino ai loro gioielli, ai loro cappelli. Forse basterà questo perché il demone dentro di me si plachi, si arrenda a una vita di pensieri comuni, sereni. Una vita dove rammarichi e risentimenti non trovino più spazio in grembo. Forse basterà cambiare casa, cambiare shampoo, cambiare caffè, per sentirmi un po’ simpatico e meritevole di vivere in un mondo dove esisti anche tu Rachele, con quel velo azzurro intorno al collo e la voce da bambina. Perdonami se non riesco a mostrarti un filo di entusiasmo quando sei qui. Quando mi guardi, quando mi parli. Io vivo di quello, vivo delle bustine di te che lasci nel lavandino. Come posso non esser entusiasta di venir a vivere con te? Ma la mia vita, la mia vita bambina mi ha insegnato a difendermi e ora non riesco più a farne a meno. Ho quasi paura che se dovessi cambiar atteggiamento nei tuoi confronti, qualcosa di improvviso salterebbe fuori dal nulla a rovinare tutti i nostri piani. A sgretolare le promesse e i progetti che tu per qualche volere divino, a metà della tua giovane e splendida vita, hai deciso di voler condividere con me. Sei la prima e unica donna che mi abbia offerto una vita.
Rachele:
Quasi riesco a vederti. Mentre ti alzi rifiutando, persino nella solitudine, l’aiuto del bastone. Ti vedo aggrappato al termosifone. Ti vedo alla finestra. Ti chiedi se rivedrai più il banco di frutta di fianco alle elementari. Ti chiedi se mancherai davvero al fruttivendolo Yassin, che ti sei fatto tanto amico. Ti rammaricherai poiché a te mancherà. Ma poi scuoterai la testa e ti convincerai che la tua vera preoccupazione sarà quella di non sapere più quando le teste di carciofo sarebbero state offerte a tre euro al chilo. E con chi ti lamenterai di quei nanetti biondi che urlano e corrono e sognano, proprio vicino al tuo cortile? Con chi? Se non Yassin. Poi ti rammaricherai ancora, al pensiero che non avrai più di questi disagi. Il posto in cui ti trasferirai è silenzioso, riposante. Nessun marmocchio e nessuno scarafaggio ti importunerà più, nei tuoi momenti di intense riflessioni, solo per chiederti un biscotto. Il posto in cui ti trasferirai è pulito, comodo. Nessun rumore di pipì che cola dai tubi vecchi, di fianco al tuo letto, ne litigate tra ragazzini che ti svegliano in piena notte interagiranno con le tue letture, il posto in cui ti trasferirai è isolato e discreto. Nessuna vicina che profuma di fiori ti chiederà come stai la mattina, nonostante il tuo pessimo carattere renda prevedibili le risposte sgarbate e pateticamente distanti che provi a dare. Nessuna vicina che alleva lumache saprà mai quanto apprezzati in verità, fossero i suoi inviti. Il posto in cui ti trasferirai è triste e troppo lontano. Non puoi più nasconderti.
Poldo:
Ci sono volute tre generazioni di rifiuti prima che questa scorbutica corazza comparisse. C’è voluta una vita intera, prima che tu cadessi dalle braccia di Dio per trovarmi buono e accettabilmente premuroso. Tu sei nata donna per fortuna, il tuo cuore è forte e profondo e profuma d’argilla. Hai la terra e il sale nelle ossa. Mio figlio, tuo padre, non riesce a perdonarmi, come io non sono mai riuscito a perdonare il mio. E io, riuscirò a perdonare me stesso? Riuscirò a perdonare questo babbuino che urla e piange di nascosto? Questo bambino che inciampa nel corpo di un vecchio e che non è mai riuscito a dire alla vicina che l’amava con tutto il cuore, per paura di non ricevere più i suoi gigli. Nutro nuova speranza, forse riuscirò a dire almeno a te che sento la tua voce nella voce degli sconosciuti, che vedo nei tuoi occhi gli stessi occhi di mia madre, che ti vedo come una santa. Che per te e per tutte le colazioni della tua vita rinuncerò ai gigli e a Yassin, l’unico uomo che abbia mai compreso (nonostante non parlassimo la stessa lingua). Non ho bisogno di pensarci, anche se ti ho fatto attendere la risposta a lungo. Volevo solo che tu ne fossi sicura, sei la prima e unica donna che mi abbia offerto una vita.
Rachele:
Poi ti volti e se non fosse per la sciatica tireresti un calcio a tutti questi pacchi, che a ogni tuo passo fanno rumore e puzza di plastica. Che ti frega di pensarci? Sono solo cose, sono solo persone. Strascichi di vita che possono evaporare in un pomeriggio, se lasciati al sole, come quelle lumache sul terrazzo. Che ti frega se ‘odore di gigli’ le ha piante tre notti intere? Tu non sei come lei. Sei un uomo che affronta la realtà ogni giorno e che non si abbatterà certo per il fatto di cambiare casa. Infondo lo fai per me. La tua unica nipote. L’unico cimelio che riconosci.
Poldo:
Per te rinuncerò agli schiamazzi dei bambini che mi tenevano compagnia e di cui tanto mi sono lamentato e dimenticherò la mia tarda età che tanto enfatizza la burrasca che i cambiamenti troppo radicali possono portarsi dietro. Permetterò che tu possa portar via da qui questa mia vecchia vita racchiusa in otto metri quadri. Tutti questi oggetti emotivamente inutili che ora per la prima volta assumono un qualche significato poiché toccati da te. Scelti come miei cimeli. Prendi quello che vuoi Rachele, impacchettami come una vecchia sedia di pino e portami dove vuoi. Ogni cosa è tua.
Giulia, è meraviglioso questo racconto visto nello specchio di due anime una in fronte all’altra, un riflesso di sentimenti abitudini e quotidiane meraviglie.
Caldo, vero,scritto con una straordinaria potenza narrativa, con una trama che si intuisce soltanto ma che regge le storie di molte vite.
Bravissima!
Giulia,
ha già detto tutto il sempre acutissimo Gianluca.
Aggiungo solamente che la struttura da te scelta conferisce al racconto un quid pluris che lo rende unico nel suo genere.
Complimenti.
Poldo è un personaggio molto interessante. Una storia tosta che non fa sconti. E sono tante le vite così, cui non va in soccorso la poesia aspra di Giulia. Bello, grazie!