Premio Racconti nella Rete 2010 “La realtà del virtuale” di Julie Bego
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
“Vai al diavolo! Non ti voglio più vedere! Sei come tutti gli uomini. Insensibile e materialista. Mi fai schifo! Schifooo! La vorrei vedere la tua sciacquetta! Perché so ce l’hai. Ce l’hai come tutti!” – gridai, urlando come una pazza, rossa di fuoco in viso, con gli occhi stralunati nelle orbite, e le labbra contratte in una smorfia di rabbia.
Il brusio del Bar Centrale dove eravamo seduti, ammutolì improvvisamente, e tutti i clienti nella piccola sala si voltarono verso di noi, mentre io giravo i tacchi e me ne andavo, e mentre Stefano rimaneva alla mercè di commenti maliziosi e risate soffocate.
“Te la dovevi scegliere diversa la donna, amico!” – sentii come ultimo commento prima di uscire dal locale, in preda ad una furia maniacale.
Camminavo a passi veloci per una deserta Piazza Vittorio in un pomeriggio afoso che, misto alla furia del momento, ed alle difficoltà che mi avevano braccato nell’ultimo anno, sembrava volermi far svenire da un momento all’altro.
“Ben gli sta!” – pensavo tra me, e avanzavo verso il Corso del Popolo per recuperare l’auto, mentre una strana vertigine mi assaliva, e si propagava verso il cuore, sull’orlo del cardiopalmo.
Arrivai alla macchina quasi priva di conoscenza, molle di lacrime e bruciata dal rancore, e feci appena in tempo a portarmi alla bocca un paio di pasticche di Alprazolam, prima che un attacco di panico mi invadesse del tutto, lasciandomi in pieno centro senza via di sbocco, come mi era capitato spesso negli ultimi mesi.
Mi adagiai al sedile attendendo l’effetto delle pillole per una manciata di minuti, prima di mettermi alla guida e tornare verso casa, in una calma artificiale che iniziava ad infondersi attraverso il corpo e nella mente.
“Che cosa ho fatto?” – iniziai a chiedermi, ora tranquilla – “Con chi ce l’avevo?”
Con Stefano sicuramente no. Amici da una vita. Vicino di casa quando eravamo piccoli, e compagno di banco dalle elementari fino al liceo. Da adulto era diventato il mio confidente più prezioso, sempre presente anche quando la vita ci aveva portato lungo strade diverse.
E lui, da buon amico, mentre tutti intorno a me si volatilizzavano, mi era rimasto accanto anche in quel momento, quando la separazione da mio marito mi aveva tolto tutto: il mio ruolo di moglie, una casa vissuta ventanni, il lavoro nella sua azienda, e la rete sociale che ruotava attorno a questo.
Uomo importante mio marito, proprietario di una delle imprese più floride del rodigino, abilmente affiliata ad un partner americano non appena percepito l’odore di una crisi che qualche tempo dopo avrebbe coinvolto l’intero settore economico.
“Non ti voglio lasciare.” – mi aveva garantito pochi mesi prima, quando il suo telefonino una notte squillò improvviso, mentre lui dormiva come un masso, e mentre io scendevo in cucina, lo recuperavo e leggevo ancora ignara e con le pupille contatte dalla luce del display: “Non sopporto di saperti con tua moglie. Scappa via con me. Me lo avevi promesso.”
Il cuore sobbalzò nel petto, e fu quella la prima volta che mi sentii trasalire nell’angoscia.
Attesi insonne l’alba, in preda ad un’ansia che non sapevo come far uscire senza traboccare, e lo affrontai a colazione cercando di ingoiare aria e saliva per mantenermi calma.
Il protocollo, chissà quante volte collaudato prima di noi, si snodò attraverso punti definiti.
Negazione inziale. Amissione parziale. Conflitto. Ammissione totale. Scenata…Proposta.
Ecco! Quest’ultimo punto non era previsto, e forse mio marito mi avrebbe chiesto un impegno per riprovare insieme…Illusa!
“Senti Anna…” – inziò a sussurrare, pispigliando frasi che non riuscivo a scandire.
Stavo sentendo male? Davvero mi stava dicendo ciò che mi stava dicendo? Non potevo crederci, ma era così.
Mi stava informando, con tono pacato e voce calda, che era innamorato di una ragazza di diciotto anni più giovane di me, mi stava comunicando che non l’avrebbe lasciata mai, ma mi stava anche assicurando che niente sarebbe cambiato tra me e lui, e che io avrei potuto, e dovuto, continuare ad essere la sua donna ufficiale e di facciata.
Era un incubo? Era davvero mio marito quell’uomo che stava parlando? Era quella persona che aveva dormito con me per oltre un ventennio? Che aveva mangiato con me ogni giorno? Che aveva lavorato con me una vita?
“Da quanto?” – chiesi balbettando, ormai disorientata.
“Da cinque anni.” – rispose comprensivo, avviato sulla strada della verità.
Fu quello il preciso istante in cui la mia vita cominciò a crollare trascinandosi appresso ogni certezza, e fu quello il momento in cui iniziai a rivedere come in una pellicola girata all’indietro mille scene della mia vita a due cui avevo dato un determinato significato e che ora ne acquisivano un altro del tutto diverso.
Tentai caparbia la via della riconciliazione, fino a che non mi resi mio malgrado conto di quale delle due fosse la persona amata da mio marito, e racattato tutto il coraggio di cui potevo disporre, lo lasciai, rifugiandomi da mia madre.
Anche lui si rifugiò. Ma nei migliori avvocati senza scrupoli della città.
Ed io rimasi coinvolta, quasi senza accorgermene, in una separazione che mi lasciò…senza.
Senza marito, senza casa, senza lavoro, e isolata dalle nostre amicizie, che si schierarono dalla parte di chi aveva conservato un ruolo: un dirigente d’azienda, una poltrona in politica, una giovanissima donna accanto. A me, quaranticinquenne, per ricominciare, restò un assegno di cinquecento euro mensili, assegnatomi sulla base di dichiarazioni dei redditi ostentatamente false.
Urgeva reagire. Eppure, nel preciso momento in cui mi ero accorta che dovevo prendere in mano la situazione, mi parve che mi mancassero le forze per farlo, ed iniziai a darmi tempo, scivolando in una noia lieve e quasi impercettibile, che lentamente si stava prendendo quel che era rimasto di me.
Stefano quel pomeriggio mi aveva invitato in quel bar per darmi una mano, ed io gli avevo risposto picche, sfogando con lui tutta la rabbia che non ero riuscita a vomitare su mio marito, ancora incapace di calarmi nella situazione.
D’altronde ero talmente scossa da non aver opposto resistenza alcuna alle decisioni degli avvocati di mio marito, che accettai incondizionatamente per evitare un peso che sentivo di non poter affrontare.
Quando quel giorno tornai a casa, rabbonita dall’effetto del calmante, deviai lo sguardo interrogativo di mia madre, e mi fiondai al computer, inserendo, tra le stringhe dei motori di ricerca, parole che avrebbero dovuto darmi empatia: “donne abbandonate, senza scopo. donne al margine.”
Fino a che, non so dopo quante ore, Google mi propose la descrizione di un social network, che andai a visitare inizialmente senza voglia e senza convinzione.
“Profilo…Foto…Video…Trova amici.” – mentre distrattamente consultavo le opzioni proposte dal sito, progressivamente le possibilità della rete si spiegavano davanti a me, iniziando a stuzzicarmi la mente, fino a che il cervello elaborò le informazioni, e gridò convinto: “Eureka”
”Eureka! Ecco la via per scampare al dolore, per trovare amici, appoggio, comprensione!”
Mi ci vollero pochi minuti per creare un nome, inserire qualche foto, inventarmi una personalità, ed iniziare a giocare con un turbinio di volti, di caratteri, di vite, di menzogne e verità, dispiaceri ed allegrie.
Non me ne accorsi, ma in breve, i minuti che dedicavo alla rete divennero sempre di più, e dopo qualche mese la notte si trasformò in una piazza virtuale dove incontrare milioni di persone.
Era tutto meraviglioso, e mi sembrò che l’angoscia che mi stava annichilendo da molti mesi, lasciandomi come via di scampo solo repentini e terribili attacchi d’ansia, si stesse dileguando.
Dieci amici, venti, cento, trecento amici…la mia rete allargava, e le mie personalità cambiavano in base a chi mi stava davanti, facendo emergere tratti nascosti di me stessa.
Non ero più “Anna la separata, Anna quella senza”, ma ora ero “**uragano_64**”, single in cerca di amicizia.
E non ero nemmeno una bambina, per cui potevo cimentrami con discorsi discorsi filosofici e pensieri sul mondo, potevo soffermarmi sulla psiche delle persone che mi contattavano, o giocare con le battute maliziose di chi nella vita sapeva presentarsi solamente con un “ciao bellissima!”, o con un ancora più sterile “ti amo”, messo insieme guardando per pochi istanti un’immagine vecchia di due anni.
Durò qualche mese. Ma proprio perché non ero una ragazzina, quella possibilità infinita che sembrò volermi regalare il social network, mi si dissolse piano fra le mani, che attraversavano sempre meno la tastiera per comporre, guidate dalla mente, nuovi messaggi.
Avevo raggiunto quota ottocento amici, ero diventata un buon utente, avevo crediti, le mie parole erano sotto i riflettori…eppure non avevo niente.
Cosa sapevano di me quegli amici?
Cosa facevano, la sera, mentre io, guardando l’album del mio matrimonio, mi maceravo nella disperazione, e mi tormentavo di perché sul mio fallimento?
Dov’erano, di giorno, quando piena di speranza, consegnavo il mio curriculum ad aziende che non lo avrebbero mai consultato?
Ma fatalmente, in quella circostanza, quella realtà era migliore della mia, per cui perseveravo ogni sera nell’accendere con un gesto automatico il computer, anche quando già mi era sembrato tutto sterile ed inconsistente, e rimanevo, solamente, a guardare i passaggi degli altri, crogiolandomi nell’idea che tante vite scorrevano attorno alla mia: non ero sola!
Vinti dai miei silenzi, anche i miei ottocento amici avevano smesso di inviarmi messaggi, lasciando vuota l’omonima casella.
Un giorno, quando ormai ero sicura che non avrei trovato posta nel mio profilo, vidi un piccolo 1 sull’icona “messaggi”.
Lo apersi controvoglia, convinta che non vi avrei trovato nuova linfa vitale, scoprendo con meraviglia il nome del mittente: “**raggio di sole_64**”.
“Ciao, mi sono soffermato a lungo sui blog contenuti nel tuo profilo, ho vibrato nel sentire la rabbia che li permeava, e sussultato percependo lo sgomento che li attraversava. Ho osservato le tue foto. Ho scavato nei meandri dei tuoi occhi, ingrandendo con lo zoom le pupille per entrare nel profondo del loro intimo. Ho aperto nel lettore le canzoni che hai inserito, soffermandomi su ogni nota ed ogni singola parola, alla ricerca di quelle emozioni che sapevano regalarti. Ho pianto, di gioia e tristezza, ascoltando quei brani che ti avranno accompagnato negli istanti fondamentali della tua vita, così come quelli che ho nel mio profilo sono stati la colonna sonora della mia…”
**raggio di sole_64** aveva fatto qualcosa che gli altri prima di lui non avevano osato: mi aveva cercato; e aveva cercato me, non un uno dei milioni di contatti presenti nel web.
Non si era accontentato di quotare due, tre blog faceti che avevo confezionato ad arte per attirare visitatori, ma era andato a leggersi lunghissime note che raccontavano la mia storia, fino ad allora mai aperte e prive di commenti.
Cliccai sull’icona **raggio di sole_64**, e anche io andai ad esplorare il profilo di quello che accettai subito come nuovo amico: l’ottocentocinquantacinquesimo…il primo, in realtà.
Nessun nome a chiarire il mistero del nick scelto in rete, nessuna foto a svelare la persona che si celava fra le vie del social network.
Ma a me decisamente le immagini non servivano, perché le sue parole erano più eloquenti di mille istantanee.
Per tre mesi continuammo a scriverci alle ore più strane del giorno e della notte, facendoci compagnia quando tutto fuori sembrava deserto, parlando delle nostre impressioni più vive, raccontandoci le nostre paure più terribili, e lasciandoci talvolta scivolare in battute leggere che ci innalzavano l’animo.
**raggio di sole_64** aveva la capacità di leggermi dentro con poche domande, e più io gli scrivevo, più lui mi rispondeva, e minore era l’angoscia che mi stringeva nel petto, e maggiore era il desiderio di provare a riappropriarmi della mia vita.
Un giorno rischiai di più, e sicura della persona che avevo di fronte, proposi un passo avanti.
Attivai la chat, mezzo più diretto, e incalzai: “Vorrei incontrarti. Anche se è come se ti conoscessi da sempre. Da poco ho perso un caro amico, ed ora, in te, ho trovato un nuovo tesoro.”
L’appuntamento fu fissato nel tempo di poche battute.
Ci saremmo incontrati a Rovigo, proprio a quel Bar Centrale dove pochi mesi prima avevo dato mostra di me.
“Venerdì sera. Per riconoscerci, una rosa gialla, tu tra i capelli, io nel taschino della camicia.” – suggerì.
“Sabato mattina alle dieci” – replicai io, da poco assunta come commessa in un negozio di abbigliamento.
Quando quel mattino fui davanti al bar, straripante di clienti intenti a concedersi la prima colazione, compii un giro a trecentosessantagradi sui presenti, voltandomi col capo a destra e a sinistra per individuare la mia rosa gialla.
Mi girai verso l’esterno, allungando il collo e lo sguardo sul piccolo gazebo, poi puntai all’ingresso, ed inquadrai il banco, scorrendo uno ad uno i ragazzi che sorseggiavano la loro consumazione…Niente.
Forse, come un’adolescente, mi ero illusa, e **raggio di sole_64** era solo un cavo in una rete globale più intricata di un gomitolo di lana impazzito e infeltrito.
Tentai ancora, facendomi varco tra la gente.
Guardai sfiduciata ai tavolini appartati in fondo al locale: un uomo beveva un caffè, accanto, una donna, centellinava una brioches, mentre un vecchio spulciava notizie di cronaca locale da Carlino e Gazzettino…finchè… la vidi…”Eccola! La rosa gialla!” – E mi cimentai in una smorfia misto stupore e meraviglia.
Feci cenno al fiore spillato fra i miei capelli, mentre lui, facendo spallucce, alzava il suo, sistemato alla meglio sull’orlo del taschino d’una terribile camicia fiorata.
“Spero di averlo fatto entrare un raggio di sole, fra i tuoni della tempesta che ti ha squassato quest’anno…caro uragano 64! D’altronde un vero amico non se ne va nel momento del bisogno! Ricordalo. Un amico rimane. Sempre. Anche quando sei così diperata da mandarlo via.” – mi riprese, ordinando allo stesso tempo un decaffeinato macchiato, come ero solita prendere io.
“Dovevo immaginarlo.” – proruppi mentre mi sedevo, e giravo il mio caffè – “Sai cosa sei tu? Tu sei Sei…Sei…Tu sei davvero la persona più rara che mi sia mai capitata…Stefano! Grazie!”
E scoppiammo in una fragorosa risata, come quando eravamo bambini e rubavamo la cioccolata dalla dispensa di casa.
Abbastanza scontao, non molto narrato