Premio Racconti nella Rete 2010 “Spettacolare” di Julie Bego
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
Spettacolare. Era quello il solo semplice aggettivo che poteva descrivere il cielo a quell’ora del mattino.
Turchino, lievemente dorato all’orizzonte, a tratti dipinto da ampie fasce di gradienti rosati, porporinati, impercettibilmente sfumanti di bianco.
Erano le cinque, e un’alba cristallina e pulita si stava stagliando in un fresco giorno di maggio su una Rovigo ancora quieta e silente.
Giulia, ammaliata dallo spettacolo del primo mattino, aveva perso coscienza di se e si era librata in una dimensione paradisiaca, scevra dai tumulti della vita quotidiana.
“Tutto a posto?” – la scosse all’improvviso una voce che le arrivò frammentata, ma calda, da una cuffia che teneva appoggiata sul capo, facendola d’un tratto sussultare.
La mente, annebbiata in pensieri sfuggenti e lontani, interrotta da quella domanda, le ritornò repentina al mondo reale, e l’alba infinita che le stava difronte si rimpicciolì a misura dei finestrini del piccolo aereo ultraleggero in cui si trovava seduta, di cui ora poteva scorgere nettamente il quadro comandi e la plancia che, come un fermo punto di riferimento, in un cielo libero e vuoto, la riportavano al contatto con la realtà.
“Tutto a posto.” – sibilò di rimando al pilota che le stava seduto di fianco, sforzandosi di mimare un sorriso.
“Siamo arrivati. Ora faremo un giro attorno al perimetro della città. All’interno non possiamo spingerci perchè le regole ce lo vietano, ma con questo cielo potrai vedere ogni singola strada, ed immergerti in ogni particolare della nostra Rovigo.”
Giulia annuì. Dapprima scossa e titubante, iniziò poi a protendersi in avanti e verso gli oblò laterali dell’apparecchio.
Aveva gli occhi chiusi e respirava velocemente, quasi in affanno, senza avere il coraggio di guardare di sotto.
“Se non apri gli occhi adesso, non li riaprirai mai più.” – le sussurrò di nuovo in cuffia la voce calda, ma questa volta decisa, di Michele, che mentre con una mano armeggiava con la cloche, con l’altra le stringeva alla meglio la spalla cercando di infonderle coraggio.
“Tre, due, uno, zero!” – contò mentalmente Giulia, poi con un guizzo dischiuse le palpebre, e le pupille si lanciarono vorticosamente attraverso i meandri della città, balzando, in un tubinio di emozioni, dalle Torri Grimani e Donà del Castello, alla guglia del Duomo, fino a scorgere l’ampio squarcio aperto trapezoidale creato da Piazza Vittorio Emanuele II, dove poteva riconoscere il monumento al re e la colonna con il leone di San Marco. Nel vederla un flash catturò la sua attenzione, riportandola ai pomeriggi del liceo trascorsi sui libri, e le sovvenne che l’obelisco venne ricostruito nell’ottocento, dopo che i francesi ne avevano abbattutto l’originale.
Più avanti, la volta vetrata arcuata del Palazzo della Camera di Commercio portava lo sguardo, come fosse stato l’occhio di una telecamera montata sul cupolino anteriore dell’aereo, ad inquadrare, in Piazza Garibaldi, la facciata neoclassica del Teatro Sociale, e i due ottagoni concentrici e squadrati del Tempio della Rotonda con accanto il campanile del…Di chi era il campanile? Giulia ripensò di nuovo alle carte sudate della scuola. Ricordò un nome. Longhena. D’altronde i luoghi della sua città la avevano sempre incuriosita.
“Visto, non è poi così terribile.” – riprese tranquillo Michele, vedendola ora respirare con più calma, continuando a navigare pacificamente attorno alla città.
Da cinquecento piedi di altezza, con il sole che iniziava a spuntare fra le nuvole e sbucare fra le vie del centro, Rovigo era tornata a sembrarle ciò che in realtà era: il luogo che l’aveva veduta nascere e crescere.
Da quanto tempo non lo rivedeva?
Una domanda cui poteva rispondere con precisione matematica. Dall’ultimo giorno di agosto di due anni prima.
L’estate quell’anno aveva surriscaldato l’aria a 35 gradi ed i roventi marciapiedi in Corso del Popolo avevano creato miraggi ottici liquefacendo i contorni dei passanti e delle vetrine.
Giulia stava tornando dal lavoro, passeggiando verso Piazzale di Vittorio per raggiungere l’auto, quando fu costretta a fermarsi di colpo.
L’aria, opprimente ed afosa, le era diventata irrespirabile, e i polmoni le sembravano andare in deficit d’ossigeno. Il cuore aveva preso a martellare violentemente contro la gabbia toracica ed un dolore fortissimo le aveva attanagliato il petto, costringendola a lasciarsi scivolare contro il parapetto di confine dei giardini pubblici.
“Sto morendo.” – aveva meccanicamente pensato, mentre tremori fini e formicolii avevano iniziato a viaggiarle per il corpo come squadre di piccole termiti in viaggio attraverso la rete circolatoria e linfatica.
“Sta avendo un infarto! Chiamate un’ambulanza!” – sentì vagamente una voce gridare allarmata accanto a lei.
Diagnosi smentita qualche ora dopo al Pronto Soccorso. Non stava morendo – “Lei ha solo avuto un attacco di panico.” – aveva cercato di rassicurarla il medico, sortendo forse la reazione contraria.
Quando capitò? In quell’agosto funesto e caldo oltremisura.
Caldo perché alla Tv avevano parlto di temperature record.
Funesto perché soltanto dieci giorni prima di quell’incidente era morto suo marito…
E quella fu l’ultima occasione in cui vide Rovigo.
Il giorno successivo le bastò far seguire una raccomandata a ritorno ad una telefonata per lasciare il posto di lavoro. Il suo appartamento nel Quartiere Commenda lo aveva già abbandonato la sera prima, mandando Michele a chiuderle scuri ed imposte. Mentre lei si era subito trasferita a Villadose, dove abitava la sua famiglia d’origine, modificando in una giornata l’intero assetto della sua vita.
Qualcosa dentro di lei si era repentinamente modificato e non le consentiva di affrontare i posti della memoria: della sua infanzia, dell’adolescenza, dell’età adulta.
Era come se dentro di lei avesse prontamente avvertito che se le fosse capitato di solcare ancora certe strade, di muoversi per certe piazze, entrare in certe chiese, quell’orribile sensazione d’ansia sperimentata quel giorno, avrebbe potuto coglierla nuovamente, lasciandola, questa volta, senza via di scampo.
Per questo Michele, amico da una vita, a distanza di due anni, l’aveva invitata a riprendere in mano la situazione. “Se non ti riesce di affrontare la città dal basso” – l’aveva rassicurata – “proveremo l’effetto che ti farà dall’alto. E se starai male , giuro che sarò pronto a fare marcia indietro e riportare il mezzo alla base.” – e così dicendo l’aveva invitata a bordo del suo aereo da volo sportivo.
Erano partiti di buon ora, dalla pista erbosa di volo di S.Apollinare, e in un paio di minuti erano giunti sopra alla città.
“Ce l’ho fatta!” – pensò Giulia una volta rimessi i piedi a terra. In effetti aveva provato un leggero groppo alla gola mentre con il velivolo si librava sui quartieri e sulle strade di Rovigo, ma in fondo non le era sembrato niente di inaffrontabile.
Mesi e stagioni si erano frapposti fra lei e la perdita del suo compagno di vita, ed ora, aveva concluso, poteva guardare al suo passato con una nostalgia benevola, e non più con l’angoscia dettata da una separazione subita da un destino avverso e crudele.
Quel mattino Giulia sentì la forza scorrerle di nuovo nelle vene, irrorandole i vasi sanguigni.
“Sono pronta a ritornare.” – aveva confidato all’amico.
“Fallo con calma.” – la riprese lui, quasi come avvertisse i segni di un presentimento – “Lasciati andare a piccoli passi, in modo naturale.”
Ma quel giorno Giulia si sentiva fuori di se dall’eccitazione e l’aver superato quella che da due anni era diventata una parte spaventosa del suo pensiero inconscio, la caricò di un’energia che non riusciva a bloccare, e congedato Michele le divenne immediato recuperare l’auto e puntare verso la città.
Che tutto sarebbe funzionato a meraviglia lo aveva intuito mentre percorrendo la Tangenziale si portava verso il centro. La strada non le dava problemi, il cuore trotterellava a frequenza costante e regolare
– pum-pum pum-pum – e lei si sentiva serena oltremodo, pronta a riaffrontare indulgentemente i luoghi che erano stati pilastro della sua vita, e con la sua, anche di quella di Andrea, conosciuto a scuola, e mai più abbandonato.
Dal lettore Cd le note di una soave Illogica Allegria di Giorgio Gaber, si spandevano soffuse per l’abitacolo, regalandole un senso di illimitato benessere.
Alla nuova rototaria di Viale Tre Martiri, Giulia prese a sinistra, verso Piazza D’Armi, che ogni anno in autunno accoglieva il luna park della tradizionale fiera d’ottobre.
Quante volte al marti franco era stata alle giostre con Andrea e avevano sciorinato fra le bancarelle che partendo dall’Ippodromo, raggiungevano le due piazze, diramandosi poi per l’intero Corso. Era un appuntamento cui ogni anno non potevano mancare.
Il ricordo le giunse tranquillo, e la avvolse di calore come una coperta di lana in un inverno durato troppo a lungo.
Giulia continuò a camminare, attraversando la piccola rotatoria che portava in via Fuà Fusinato e da lì al Tempio della Rotonda, e puntò diritta per via Silvestri, verso Piazza Garibaldi. Poco prima, la chiesa di San Francesco, la riportò indietro nel tempo di quindici anni, e le ripropose, come in un filmato d’epoca, le sequenze del suo matrimonio.
Un sorriso le illuminò il viso quando nel piazzale della chiesa le sembrò di rivedere Andrea in abito blu inciampare nel velo del suo abito da sposa dando vita a scatti esileranti che il fotografo aveva inserito alla fine del loro album di nozze.
Poco più in là, il Teatro Sociale, le rimandava note di concerti e spettacoli vissuti a due, sempre seguiti dal tradizionale caffè consumato in uno dei bar prospicienti le piazze.
Giulia continuò la sua passeggiata per Rovigo felice di poter finalmente riaccogliere dentro al cuore gli echi della sua città, e si portò volutamente verso quel punto del Corso del Popolo dove due anni prima si era interrotto il suo rapporto con il passato.
L’aria di maggio questa volta era frizzante e freschissima, e le vetrine non sembravano rincorrerla come nel momento in cui si era sentita male.
“Posso riallacciare i ponti con me stessa.” – pensò finalmente convinta, e si sentì rassicurata dall’essersi spinta nella sua zona d’ombra senza essere stata nuovamente colta da quella terrifica sensazione di sgomento. Pochi minuti aveva ripreso a camminare in senso inverso per cercare di riportarsi verso l’auto.
Lentamente, senza fretta, aveva ripercorso i portici di Piazza Vittorio, ricordando di quando ragazzi, studenti al liceo classico, lei e Andrea andavano a studiare nelle sale dell’Accademia dei Concordi, lanciandosi sguardi complici, e a tratti maliziosi, fra una versione latina di Seneca, ed una traduzione di Platone dal greco all’italiano. La memoria la fece sorridere, arrossendo.
Quando però trascorrendo leggera, invasa di immagini che non le facevano male, era arrivata alla piccola rotatoria che doveva riportarla in Via Tre Martiri, e da lì nei pressi della caserma dei vigili del fuoco, dove aveva lasciato l’auto, Giulia, quasi come catturata da un magnete, imboccò invece sulla destra Via Oroboni.
Spinta da una forza più grande di lei, che come un enorme sole la risucchiava al suo interno, attraversò, ciondolando, il compendio immobiliare che ospitava la videoteca, la banca, e il bar, dove molte volte si erano fermati al mattino per caffè e brioches, e continuò ad avanzare, mentre la sua serenità si andava progressivamente trasformando in un inquietante ed indefinito stato di tensione.
Ci vollero cinque minuti perché Giulia potesse capire dove la sua mente la stava riportando, quando cominciò a vedere la bianca recinzione del camposanto.
“Andrea!” – aveva urlato fra se, stranita dentro a se stessa.
Da quanto tempo non lo veniva a trovare?
Mentre varcava la soglia del cimitero Giulia, come salita su una macchina del tempo, fu subito proiettata in un mattino di due anni prima. Il giubbino bianco che indossava si scurì all’istante e si tinse di nero, e si sentì improvvisamente sorreggere da una teoria di mani ed abbracci cui non fu in grado di dare un volto definito ed un nome. Invasa di lacrime si ritrovò a dondolare lentamente lungo un percorso prestabilito. Ecco dov’era. Stava accompagnando nell’ultimo viaggio il suo compagno di una vita. E mentre si ricalava pur senza volerlo nei meandri di quella scena già vissuta e all’istante rimossa, riproduceva esattamente gli stessi gesti compiuti il giorno del funerale. Avanzò oscillando, vibrante di terrore, fino a che corpo e mente le si fermarono e la lasciarono sola davanti alla foto di lui, dolcemente sorridente, sopra un foglio di marmo chiaro, poggiato nel verde.
“Andrea. Andrea!” – gridò accettando per la prima volta che la persona che più aveva amato non fosse più con lei – “Andrea!” – urlò di nuovo a pieni polmoni. E mentre ingoiando aria cercava di strozzare il pianto che usciva a fiotti, quella orribile sensazione che l’aveva catturata due anni prima di ritorno dal lavoro, la invase di nuovo, paralizzandola.
Tremando, iniziò a girare vorticosamente su se stessa, perdendo ogni contatto fisico con lo spazio e con il tempo. Il cuore si era lanciato in una corsa furiosa, ed il braccio sinistro le si era quasi bloccato, irradiandola d’un dolore pungente ed intenso, che si propagava verso il petto.
Giulia venne men e svenne.
Ma questa volta non era stato un attacco di panico.
Quando si risvegliò? Di preciso non poteva dirlo.
Le sembrò di aver dormito a lungo, per molti giorni, e nei radi momenti in cui le capitava di essere presente percepiva suoni vaghi e lontani, e veniva colpita da luci colorate che non riusciva a distinguere.
“Signora, mi sente? Lei è in ospedale.” – le parve di sentire improvvisamente una mattina.
Gli occhi, dapprima annebbiati, le si apersero su uno scorcio di mondo insolito, ovattatto, circoscritto.
Che cosa colse da uno sbattere di ciglia durato pochi minuti?
La vista andava e veniva, confusa e sfuocata come quella di un obiettivo con il diaframma ancora da tarare.
Disarmata, aveva preso ad aprire e serrare in un tic frenetico le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco la situazione.
Vide un uomo vestito di bianco, un medico. Vide una stanza dalle pareti bianche con vetri oscurati da veneziane azzurrine: una camera d’ospedale. Vide numeri lampeggianti uscire da macchine cui stavano collegati spire di cavi che si allungavano fino al suo braccio destro: le pompe dei flebo. E vide dei led aranciati pulsare incessantemente da una sorta di centralina che emetteva suoni ritmici e regolari. Dalla consolle usciva un tubo di plastica grosso e frastagliato. Giulia vi si concentrò con gli occhi e provò a percorrerlo. Il tubo la seguiva, arrivava fino a lei, entrava dentro di lei, le insufflava aria…Aria! Aria!
Giulia splancò completamente gli occhi, sbarrandoli come un cane inferocito di fronte ad un pericolo imminente: era intubata, non poteva respirare autonomamente!
Le pupille le rotearono violentemente nelle orbite, senza dare ascolto ai consigli buoni che la voce dell’uomo vestito di bianco stava tentando di darle: “Signora si calmi. Lei è in ospedale. Ha avuto un infarto. Ma l’abbiamo ripresa per i capelli. Tra pochi giorni la estuberemo e sarà trasferita nel reparto di cardiologia.”
Era nella camera di rianimazione, ora poteva distinguerlo chiaramente.
Si alzò leggermente, col capo pesante un’incudine: era in quella stessa stanza dove due anni prima aveva salutato per l’ultima volta suo marito, qualche ora prima che la sua anima volasse altrove.
Lo ricordò devastato di cavi, collegato anche lui alla macchina che lo faceva respirare artificialmente. Ricordò che i medici lo svegliarono per pochi minuti, affinchè lei lo potesse salutare.
“Sono qui amore mio.” – gli aveva mormorato, mentre lui apriva gli occhi lucidi di morfina e benzodiazepine – “dormi sereno questa notte. Io rimango qui, vicino a te.”
Ma invece fu costretta ad uscire, rispettando lo scrupoloso protocollo del reparto, e non potè essere al suo fianco, mano nella mano, quando Andrea il mattino dopo partì per il cielo, lasciando in quella camera solo il suo corpo depauperato dalla leucemia.
Mentre con la mente ripercorreva questa scena, il cuore di Giulia tornò a fibrillare, e la macchina cui era collegato attraverso cavi ed elettrodi, iniziò preoccupata a gridare urli d’allarme al server della sala controllo.
Vinta dallo stress Giulia abbandonò la voce ora concitata del medico che suggeriva il da farsi alle infermiere arrivate al suo capezzale, e si allontanò in un sonno pesante.
“Giulia, girati, sono qui.” – le sussurrò dopo un periodo di tempo che non potè calcolare, una voce conosciuta e famigliare.
Giulia girò la testa verso il punto che le sembrò essere la sorgente del suono, aprendo gli occhi.
Nel letto accanto al suo si stagliava la figura di un ragazzo dai lineamenti morbidi e caldi.
“Andrea!” – chiamò, senza sapere se la voce le stesse davvero uscendo dalla bocca, vibrando nelle corde vocali.
“Per prendere l’aereo bisogna aver imparato a volare.” – le rispose il ragazzo sorridendo, e dal letto dove stava disteso, le allungò la mano, che lei accolse con la sua, tremante e trepidante.
Il contatto creò lampi, tuoni e scintille, mandando il tilt per una frazione di secondo l’intera rete elettrica della sala di rianimazione, che subito si riaccese alimentata dai generatori di corrente.
Andrea strinse la mano di Giulia che gliela avviluppò con la sua, serrandola strettamente per non lasciarselo ancora una volta sfuggire.
“Ora mi hai salutato. Adesso lasciami andare. Ritorna a vivere. Lascia la mia mano, e osservami tranquillo allontanarmi da te. Vai. Ora, immersa nelle acque gelide dell’oceano, naufraga nella tempesta che abbattè la nostra nave, sciogli la mia mano dalla tua che ancora pulsa di vita, e osservami affondare sereno verso gli azzurri abissi del mare, fino a scomparire. Guardami andare via. Questa volta non partirò senza salutarti.”
Giulia si sentì invasa di un tepore che le regalava una rassicurante sensazione di equilibrio.
“Non cercarmi più fra la folla, io non ci sarò. Nel cuore. Piccola. Cercami nel tuo cuore.” – disse Andrea sorridendo, fissandola col suo sguardo, a tratti azzurro cielo, a tratti verde acqua.
Giulia fu colta da un lacrima che le trapassò il viso, poi guardò per l’ultima volta Andrea che ora era diventato pallidissimo, aveva smesso di parlare, ed aveva socchiuso gli occhi.
Anche lei gli sorrise teneramente: “Ti amo” – pispigliò, e poi allentando la stretta, lasciò scivolare lentamente la sua mano, e lo vide scomparire, piano, lontano da lei. Questa volta per sempre.
La corrente ritornò con un ronzio elettrico, ed i generatori smisero di funzionare.
Quando Giulia si risvegliò, questa volta definitivamente, la gola era libera da quel tubo pesante e corrugato che le invadeva la trachea, e l’aria entrava ed usciva dal suo corpo autonomamente.
“Si sente meglio signora?” – domandò, scandendo le parole, la voce buona che l’aveva seguita nei cinque giorni passati in camera di rianimazione.
Giulia lo fissò. Il camice bianco, lo stetoscopio colorato di giallo appoggiato alle clavicole.
“Si. Si, dottore, mi sento molto meglio.”
“Domani sarà trasferita in reparto. Ancora pochi controlli, e potrà tornare alla sua vita.”
Giulia annuì con il capo, poi si voltò istintivamente verso il letto accanto al suo.
Era vuoto, ma sopra alle coperte era adagiato un bocciolo di rosa giallo, il colore preferito di Andrea.
Giulia guardò di nuovo al dottore, con volto interrogativo.
“Questa notte è morto un ragazzo, qui vicino a lei. Il fiore lo avranno portato i suoi famigliari.”
Un mese dopo Giulia abbandonò la piccola casa che aveva acquistato a Villadose accanto a quella dei suoi genitori, e tornò nel suo appartamento in Commenda che, senza chiedersi troppi perché, non aveva voluto vendere.
Poco dopo prese di nuovo contatti con Michele.
“Voglio imparare a pilotare il P92!” – trillò squillante un mattino al telefono, memore delle parole di Andrea.
A dicembre di quello stesso anno, da cinquecento piedi di altezza, Rovigo era tornata a sorriderle, immersa in una bianca cortina di neve, che la rendeva candida e brillante.
Era Natale e Giulia aveva imparato a volare, da sola, e non aveva più alcun timore di guardare di sotto. Spettacolare.
Il racconto non scorre lineare e sembra che stenti a trovare un iter narrativo.Le modalità espressive sono quotidiane, direi quasi sciatte e comuni. Se l’autrice fosse più attenta nella scelta dei vocaboli e delle espressioni avrebbe sicuramente più possibilità di farsi apprezzare.
Tengo in modo personal-viscerale a questo racconto. Pur non descrivendo un reale momento di vita, in qualche punto rappresenta alcune mie emozioni molto vissuta. Però accetto volentieri, come spunto di riflessione e di crescita, le critiche sulla narrazione.