Premio Racconti nella Rete 2017 “Un caffè al Soul” di Monia Politi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Pioveva.
Il manto stradale di pietra creava strani giochi di colori, mescolando le luci dei lampioni con l’acqua…era come se tutta la città avesse deciso di specchiarsi nelle pozzanghere, mostrando i suoi preziosi segreti, nascosti tra le mura dei nobili palazzi. Si sentiva nell’aria quel tipico odore del fumo dei camini, a ricordare che la primavera era ancora lontana.
I negozi stavano per abbassare le serrande e i commessi e le commesse si affrettavano a mettere ordine nei vari locali, desiderosi di ritornare a casa.
Alla fine del vicolo, il caffè “Soul” era aperto e dalla sua porta a vetri filtrava un’atmosfera accogliente.
Il pavimento del locale era uno splendido mosaico a motivo floreale, come quello delle case di una volta, piccole candele bianche erano accese sui tavolini di legno nudo e tremolavano ogni volta che qualcuno entrava nel locale.
Pietro, il gestore del bar dai tempi della sua prima apertura, era un uomo corpulento con oramai pochi capelli grigi in testa , compensati da un gran bel paio di baffi che dominavano il suo viso sempre sorridente.
Pietro indossava un grembiule bianco i cui lacci facevano fatica a rigirarsi sulla sua pancia e con orgoglio continuava da anni a sfoggiare la sua maestria nel preparare tanti caffè contemporaneamente, con una macchina che risaliva ai primi del Novecento e che nella penombra del locale brillava impeccabile di ottone e rame ancora lucenti.
I suoni che accompagnavano quella preparazione erano sempre gli stessi. Pietro batteva sull’asta di legno nel cassetto delle pose di caffè, avviava la macinazione (quale silenzioso aroma si sprigionava da quei chicchi in quel momento!) dava due colpi alla leva per far scendere la polvere e avviava la macchina: lentamente veniva giù quel filo di caffè, tra marrone e giallo per via della schiuma, si sentiva il suono profumato delle dense gocce di caffè che cominciavano a macchiare le tazzine immacolate e rigorosamente tenute al caldo, fino a che erano riempite sino a metà.
Pietro amava ripetere che il caffè racchiudeva in sé la forza dei quattro elementi: l’acqua che permetteva l’estrazione della bevanda dai chicchi macinati con maestria, la terra che era stata la culla dei semi di caffè in luoghi spesso lontani e per questo magici e il caffè ne ricordava il colore intenso, il fuoco che permetteva con la sua energia di sprigionare i profumi corposi e l’aria che ne permetteva la diffusione: era sempre affascinante ascoltare dalla bocca di Pietro questa sorta di favola del caffè!
Quella sera, indaffarato dietro il bancone, Pietro era invece preso malvolentieri dalle chiacchiere di una vecchia signora, che indossava uno sgargiante vestito di seta rosso e col viso goffamente truccato, illusa di poter nascondere le sue rughe solcanti sotto il pesante strato di cerone: era lì a raccontare le sue giovani avventure amorose, quando le giornate di pioggia come quella erano la scusa per rinchiudersi in qualche casa e abbandonarsi sotto le bianche lenzuola di lino nelle braccia di qualche bel giovanotto. Non sapeva essere scortese, Pietro, pertanto continuò ad ascoltare quel triste racconto, tentando di intervenire con qualche simpatica battuta.
Ai tavoli era seduta poca gente, c’era un brusio di voci che non era fastidioso e riempiva piacevolmente gli spazi immensi del soffitto a botte. La musica di sottofondo del locale, sempre a basso volume, proveniva da una vecchia radio in radica di noce che era il vanto di Pietro, perché, nonostante la sua veneranda età, funzionava ancora bene. Sulle mensole alte di legno erano esposti in bella mostra tanti oggetti appartenenti al mondo del caffè: vecchie pentole per tostare i chicchi al fuoco, la storica caffettiera napoletana in alluminio, il macina caffè in ceramica bianca e una serie infinita di tazze di ogni epoca e provenienza geografica.
Ai muri erano appese senza cornice alcune locandine coloratissime dei film di Totò, grande cultore del caffè che lo aveva raccontato, tra risate e lacrime, in tanti suoi film, e alcune tavolette di legno sulle quali erano incise frasi celebri su questa leggendaria bevanda: ”A riempire una stanza, basta una caffettiera sul fuoco”, “Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro”, “Ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè”.
In fondo alla sala, in una nicchia scavata nelle pareti bianche a calce, c’erano pochi ripiani nei quali alcuni libri, di vario genere letterario, e in realtà poco noti, sfoggiavano il loro dorso: non si trattava di un semplice elemento decorativo, che doveva dare un tono al locale, ma spesso accadeva che chi frequentava il bar, si sedesse ai tavolino con una tazza di caffè e uno di quei libri. Quelle pagine facevano compagnia, aprivano la mente a vite diverse, oppure raccontavano di emozioni e sensazioni nelle quali il casuale lettore si riconosceva e tutto questo trapelava dal volto: c’era attenzione nello sfogliare quelle pagine profumate di caffè e dell’odore di tante vite che su di esse si erano soffermate.
Dalle tazze di caffè veniva su un fumo corposo di vapore che sembrava quasi cancellare i contorni delle cose e delle persone. Era come se tutto divenisse a un tratto incontenibile, come nelle tele dei pittori impressionisti, e oggetti e persone potessero confondersi nella loro indeterminatezza.
C’erano modi diversi di bere il caffè: chi lo assaporava senza zucchero, chi invece ne addolciva il sapore con quei bianchi cristalli, lo mescolava e poi c’era chi riponeva il cucchiaino sul piattino e chi invece, con la goccia rimasta sul cucchiaino, sporcava il bordo della tazzina, quasi per avvinarla. C’era chi lo sorseggiava, assaporandolo goccia a goccia e chi invece lo beveva in un sol colpo: tutti però erano soddisfatti di quella bevanda e, uscendo, non si dimenticavano mai di dire a Pietro che quello del Soul era il miglior caffè della città.
Elena entrò infreddolita, aveva preso in pieno la pioggia, perché, come al solito, aveva dimenticato in macchina l’ombrello. Salutò con un gesto affettuoso della mano Pietro e fece segno che andava ad accomodarsi.
Si sedette al solito tavolino, vicino alla finestra con le tendine bianche ricamate, dalla quale era possibile osservare la stanco passeggiare della gente per la via. Si guardò intorno e, come sempre le accadeva quando era in quel locale, si sentì a casa, accolta da quelle mura che nel corso di tanti anni avevano assorbito i racconti e le vite di tanti avventori. Era come se ci fosse memoria viva in quei mattoni, presenza umana che continuava a trasudare e che rendeva quel piccolo locale un luogo avvolgente.
Guardò l’orologio…Erano già le otto e Marco non era ancora arrivato….
”Il solito ritardatario” disse fra sé e sé, ma la cosa non la infastidiva perché approfittava sempre di questi momenti di attesa per fare ordine nei suoi pensieri: in quell’angolo di mondo, il tempo si dilatava, era possibile riacquistare il ritmo naturale della propria vita e svuotare la mente dal superfluo.
Poco dopo, la porta del locale si aprì: era Marco che si guardò intorno e scorse Elena al solito posto, ordinò due caffè a Pietro e si avvicinò al tavolino.
“Ciao ben trovata. Come va?” Disse rivolgendosi a Elena baciandola sulle guance.
“Bene grazie!” Rispose lei con un dolce sorriso.
Erano seduti l’uno di fronte all’altra, arrivarono i due caffè e cominciarono a sorseggiarli scaldandosi le mani fredde sulle tazzine bollenti.
Quella di bere un caffè al Soul era una vecchia abitudine di Elena e Marco, che risaliva ai tempi dell’Università: da allora molte cose erano cambiate, i loro visi, il loro fisico ma, come i muri di quel vecchio locale, qualcosa in loro era rimasto intatto.
Esistono luoghi del nostro essere che non risentono del passaggio del tempo, poiché nessuna relazione funzionale li lega al “Potente Signore”: sono luoghi dove la polvere del trascorrere delle stagioni non può penetrare e rimangono così fuori dalla linea del tempo, e lì tutto accade istantaneamente, senza memoria, senza ricordo, perché c’è solo presente.
Ecco lì, in quel cassetto del cuore, tutto era rimasto uguale a se stesso, nel corso degli anni il caffè con i suoi profumi intensi, il suo sapore forte aveva accompagnato le lunghe chiacchierate di Elena e Marco, aveva scandito con la sua presenza tanti momenti della loro bella amicizia, ma, inspiegabilmente, ogni volta, era sempre un nuovo incontro, un nuovo momento.
Avevano deciso di dare un nome a questi incontri: il caffè evolutivo, perché quella bevanda calda rappresentava una scusa piacevole per incontrarsi e parlare della loro vita, che è un continuo cambiamento ed evoluzione dell’ essere umano alla scoperta di se stesso.
Le loro voci erano sempre molto morbide, le parole non casuali, accoglienti e invitavano all’ascolto: a volte la loro riflessione prendeva spunto da qualche frase catturata sulla pagina di un libro ed era divertente osservare come un pensiero scritto da un perfetto estraneo trovasse poi un comodo spazio nelle loro vite…
Entrati in quel posto, era come se a quel posto appartenessero, come una pietra preziosa appartiene al suo scrigno: ogni tanto guardavano le loro tazze, come se cercassero in esse lo spunto per il dialogo, e quelle tazze erano sempre in grado di ispirarli.
Quella di Marco ed Elena era una storia come tante: si erano conosciuti all’Università , erano stati compagni di corso a medicina e tutti e due avevano studiato e lavorato duramente per raggiungere l’agognata laurea, ma non per questo avevano rinunciato a qualche pausa, ritagliandosi degli spazi tra una lezione e l’altra e tra un esame e l’altro per godersi un po’ la vita: questi momenti erano fatti di semplici cose: una passeggiata, un film al cinema, ma soprattutto un caffè al bar. Quella bevanda era entrata a fare parte della loro vita, come accade spesso per gli studenti, per esigenze di studio notturno, era stato un aiuto per rimanere svegli.
Nel corso degli anni aveva però piano piano assunto un ruolo diverso nella loro vita: era divenuto piacere del gusto e dell’olfatto, ospite e testimone sempre gradito delle loro chiacchierate, rappresentandone il motivo conduttore.
In quella bevanda c’era vita, storia, era quasi una pozione magica grazie alla quale l’anima delle persone riaffiorava e si sedeva comodamente a quei tavolini per ricordare che la vita non è rincorrere il tempo per tentare di bloccarne l’inesorabile avanzamento, ma è seguirne il fluire senza accelerazioni.
Marco ed Elena non erano mai stati insieme, se non come amici, non era scattata la molla dell’amore, ma avevano condiviso e continuavano a condividere momenti delle loro vite, nel naturale trascorrere delle loro esistenze. Quello del caffè da Pietro era uno degli appuntamenti a cui non rinunciavano mai. Non sapevano spiegarsi il perché, ma in quel posto, con quelle luci e quei sapori e profumi discreti, si erano sempre trovati a loro agio per parlare.
Quei momenti al “Soul” erano uno spazio quasi sacro per Marco ed Elena, era una tranquilla parentesi di tempo durante il quale si poteva parlare, dando alle parole il tempo giusto per essere formulate e per essere comprese.
I due rimanevano lì per un paio d’ore ogni sera prima di ritornare a casa, e quel modo di stare insieme li rendeva felici: a quel tavolino, il caffè fluidificava le loro vite, snodava le situazioni ingarbugliate, eliminava gli attriti.
Quando le campane della vicina chiesa suonarono le dieci, Marco ed Elena si alzarono dal tavolo e si incamminarono verso l’uscita.
Quella sera aveva smesso di piovere …
Bellissima “era come se tutta la città avesse deciso di specchiarsi nelle pozzanghere, mostrando i suoi preziosi segreti, nascosti tra le mura dei nobili palazzi” come tutto il racconto. Molto compatto, solido, i dettagli ben definiti, e alla fine quella nostalgia che volevi imprimere al racconto l’ho sentita. Bella anche la frase sul tempo.
Ti ringrazio per la piacevole lettura.
Monia,
complimenti.
Una capacità descrittiva davvero sopra le righe, puntuale ed accurata, che non suscita noia nel lettore (rischio sempre dietro l’angolo quando si parla di descrizioni), ma anzi lo esorta ad andare avanti e lo rende partecipe di un contesto caldo ed accogliente.
Come il primo sorso di un buon caffé.
Il locale di Pietro mi ha ricordato la cioccolateria del film “Chocolat”, un luogo appartato, al riparo dal mondo, in cui i clienti riescono a lasciarsi andare quel tanto che basta per ritrovare se stessi.
Proprio brava :-).
Il caffè protagonista del racconto e le vite della gente come satelliti uniti da questa meravigliosa bevanda.
la lettura stessa di questo racconto ricorda il piacevole e caldo caffè che coinvolge tutti i sensi tatto, la calda tazzina, olfatto, vista e ovviamente gusto.
Ma c’è qualcosa di più, quasi un riferimento filosofico ai quattro elementi aria, terra, acqua, e fuoco, caffè come elemento essenziale alla vita sociale e spirituale.
Scritto meravigliosamente bravissima!!
Già il nome del locale è un programma, un bel programma. In questa storia di due anime che sanno come ritrovarsi mi sono ritrovato un poco anch’io, anche se con un velo di malinconia. E forse questo è proprio l’effetto desiderato. Bellissimo racconto 🙂
“Esistono luoghi del nostro essere che non risentono del passaggio del tempo”. Un racconto bellissimo.
Monia, mi hai fatto riassaporare il gusto di tanti caffè bevuti durante il Liceo, l’Università, l’età adulta, sempre con la mia compagna di scuola, quella con cui si ripete il rito non appena il tempo lo permette; mi hai fatto ricordare le discussioni con mio cognato sul caffè dolce o amaro; mi hai fatto risentire le mie dita congelate che, d’inverno, si avvolgono alla tazzina… insomma, ora mi berrei un caffè!