Premio Racconti nella Rete 2017 “Le avventure del signor G. “di Andrea Proietti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Per giudicare un uomo bisogna almeno conoscere il segreto del suo pensiero, delle sue sventure, delle sue emozioni.
[Honoré de Balzac]
I
Era la sera del 15 maggio, mancavano tre settimane esatte alle elezioni.
«Questa sera, signori, ho capito perché le sue cene sono diventate leggendarie. È la prima volta che partecipo, finalmente, e ammetto che Giampiero è davvero un mito!», esordì il Sindaco del capoluogo tra gli applausi divertiti degli oltre duecento commensali. L’atmosfera era perfetta, come il padrone di casa l’aveva studiata durante i lunghi giorni di gestazione e ripassata durante i brevi sonni notturni.
«Ci troviamo di fronte – proseguì il Sindaco, ammiccando i presenti con il bicchiere in mano –all’unico territorio in Europa dove ancora oggi si batte moneta: il Gregorelli d’oro». E giù risate e applausi, che di lì a pochi giorni si sarebbero trasformati certamente in voti, vittorie, successi.
Gregorelli, il gran cerimoniere, teso al punto giusto, con un sorriso frenato dalla concentrazione, abbracciò il Sindaco e forse, per un attimo, pensò che sì, una moneta con la sua effige vi sarebbe stata proprio bene. Era però il momento di andare avanti. Doveva ancora presentare gli altri protagonisti del banchetto: il presidente della Provincia, di nuovo in corsa, del resto aveva fatto molto bene durante il suo primo mandato, i sindaci da riconfermare, poi ascoltare il saluto del direttore, del senatore, di questa e di quest’altra autorità, tutto secondo un ordine prestabilito nei minimi dettagli. Ognuno era seduto a tavola, si muoveva, interagiva secondo un copione che Gregorelli aveva scritto e ora dirigeva con la consueta, assoluta maestria: «Come sono bravi, che gioco di squadra» – pensava tra sé, asciugandosi il viso sudato con un fazzoletto bianco come un allenatore a bordo campo. Nello stesso istante, il Senatore, stimato professionista, persona schiva e concreta, quel che si dice un gentiluomo, guardandolo all’opera, frugava invano fra i suoi ricordi per sapere quando e come tutto questo aveva potuto cominciare. La risposta che si diede fu laconica, quasi rassegnata: «era sempre esistito quel sottobosco umido e fertile della democrazia dove nasce, cresce e si rafforza l’Homo gregorellius».
Un giovane avvocato, non proprio nuovo dell’ambiente, seduto accanto a sua moglie, un po’ impacciato ma «assai perspicace», credeva lei, spiegava alla sua sposa, tutt’altro che timida e forse «non molto perspicace», credeva lui, la disposizione dei commensali nel grande salone rettangolare. Nella stanza rettangolare, allestita con due file di tavoli paralleli alle pareti più lunghe, unite in fondo a formare una U, l’ordine rispettava una severa scala gerarchica, come i santi e i beati nella rosa celeste. All’ingresso, un po’ smarriti e con lo sguardo spesso rivolto di traverso verso le posizioni che contano, sedevano i semplici elettori, tra cui diverse famiglie al completo. A seguire avevano trovato posto gli elettori, divisi per categorie professionali: sanità, trasporti, pubblica amministrazione. Nel terzo restante della mensa, preceduti dai cosiddetti grandi elettori, persone dotate di una individualità e soprattutto di una cifra politica autonoma, in maggioranza medici, c’erano i politici: prima quelli con incarichi in Enti di secondo livello, poi quelli titolari di seggi elettivi, poi gli assessori, e, infine, in fondo, nel lato corto della U, in vetrina, gli uomini del comando e tra loro, naturalmente, Gregorelli.
«È visibilmente emozionato, raramente l’avevo visto così in simili circostanze, però è in forma, a parte l’oratoria» – commentò il portaborse del… o il portavoce del vicepresidente, dopo che l’uomo, nel suo discorso introduttivo aveva affermato che «Questo non è un comizio, questa non è una cena elettorale. È un incontro tra amici. Ora cedo la parola al candidato Garofano e al candidato Mozzarella, ricordando che nel nostro collegio si vota Ferrucci alle provinciali. Saluto, infine, il sindaco Monacelli, che, vedo, sta arrivando proprio adesso. Lo prego di raggiungerci al tavolo». E giù applausi!
«Che tempismo questo sindaco – godeva Gregorelli –, che scena perfetta di fronte ai miei».
Lui era solito descrivere così i cosiddetti suoi: «Sono i miei amici, i miei elettori, gente che si fida di me, la fiducia dei quali ho conquistato con un favore, un posto di lavoro, un aiuto per risalire la corrente in un periodo di difficoltà. Io sacrificherei la mia vita per ciascuno di loro, perché sono loro la mia forza».
«Ho i voti – ammoniva con sicumera se provocato – per eleggere un Consigliere comunale e mezzo nel Comune capoluogo e uno abbondante negli altri tre Comuni del comprensorio». Sempre a suo modo coerente e schietto, a detta degli altri, non disdegnava l’arma del ricatto quando percepiva di essere escluso dalle decisioni importanti: «Bisogna fare i conti con Gregorelli, è chiaro? altrimenti qualcuno sbatte il muso» – ripeteva allora accipigliandosi rosso in viso.
Frasi che, dirette come frecce incendiarie contro il bersaglio di turno, accompagnavano regolarmente qualunque appuntamento elettorale, dal consiglio di circoscrizione al Parlamento.
Gregorelli è un uomo dall’esistenza comune: la famiglia, il lavoro, gli amici, pochi svaghi, lo stadio la domenica pomeriggio, meno donne di quelle millantate. L’aspetto da funzionario pubblico d.o.c., a ben guardarlo, ricordava un po’ l’orso Yoghi, un po’ il tenero Bubù. Aveva il fisico caratteristico di quei maschi italiani che furono bambini nei tempi dell’orbace e dei telefoni bianchi, che ora stavano invecchiando bene: le gambe corte e proporzionate al corpo, come le braccia, dalle quali pendevano due belle mani carnose eppur eleganti, una prominente pancia del benessere portata con agilità, il viso ovale e tornito su un collo appena accennato, i capelli ondulati e corti di un improbabile colore castano, misto rame, con un’antica frangia ribelle adagiata sulla fronte, gli occhi, marroni e lucenti, spiccavano rispetto ad un naso largo e tondeggiante, le guance morbide, pronunciate, racchiudevano una grande bocca dall’espressione allegra.
L’abito era d’ordinanza.
Vestito scuro e cravatta Regimental di seta, su camicia azzurra, per la rappresentanza ufficiale; abito spezzato, con camicia color pastello o maglietta polo gialla o rosa, nelle occasioni meno impegnative. Le uniche due varianti erano l’inseparabile Loden verde bottiglia, che come le castagne compariva ai primi freddi, e la giacca, che a volte poteva scomparire nell’afa estiva. Le sole concessioni al lusso, ma non al gusto, rilevavano gli osservatori più attenti, erano un orologio tipo rolex al polso sinistro, un pesante bracciale d’oro nell’altro e una catenina, sempre d’oro, al collo, oltre al pezzo forte, il suo vanto: la berlina blu dirigenziale superaccessoriata.
Molte persone, pur criticandolo, mostravano di ammirare quest’uomo. Uno sempre lontano dalle prime pagine dei giornali e dai riflettori delle televisioni locali, sebbene la sua ascesa fu continua e il potere crescente: a sedici anni apprendista tuttofare nel commercio, a diciotto tuttofare nel commercio, a venti il salto a tuttofare in un’azienda pubblica. E continuò a farne di strada quel ragazzo! S’aprirono per lui dapprima le porte del sindacato, poi quelle della politica, e allora sì che Gregorelli iniziò a costruire il suo piccolo regno, arrivando in piena maturità ad occupare contemporaneamente l’incarico di dirigente (tuttofare) nella stessa azienda, di consigliere comunale e di amministratore in vari enti di secondo livello. Scaltro, furbo, disponibile con la gente e accondiscendente con il potentato in auge, non conobbe ostacoli al suo cammino. Ora però qualcosa stava per accadere.
La marcia di avvicinamento verso la Domenica cruciale s’era svolta secondo le aspettative, Gregorelli si apprestava ad assaporare un altro successo. Le casse con i fuochi d’artificio, anticipò a pochi fidati amici (così almeno sussurrava all’orecchio di ciascuno di quelli cui andava rivelando il segreto, s’ignorano i due o tre che alla fine ne restarono all’oscuro) erano già pronte nel suo garage.
Conclusa l’ennesima giornata di lavoro elettorale, ripassata sulla carta la definitiva mappa territoriale dei suoi voti, i frutti di in un lavoro quotidiano iniziato il giorno successivo le precedenti elezioni e raccolti nelle settimane di campagna elettorale, l’uomo, nel suo letto, era caduto in un sonno profondo.
II
Nella notte già fredda di quella fine estate fresca e ventosa, il rumore sordo e ripetuto di una porta che sbatteva, lo svegliarono di colpo. L’alba era ancora lontana, sua moglie dormiva su un fianco. Massimiliano si alzò dal letto e avanzò impacciato nell’oscurità. Chiuse la finestra e riaprì la porta ora socchiusa. Un silenzio assoluto dominava l’interno e l’esterno della casa, anche il vento era cessato.
Uscì in terrazza, infreddolito, e accese un Garibaldi rimasto sul tavolo dalla sera prima. Quel brusco risveglio aveva ridestato la sua inquietudine e il suo malessere interiore. Aveva di nuovo fatto quel sogno. Lo stesso sogno che lo tormentava da anni. La storia, il racconto che forse voleva scrivere e non aveva mai scritto e che l’accompagnava quasi costantemente ogni notte oppure pagine oscure di un passato lontano e perduto?
«Maledetto!» – gridò senza rompere il silenzio che l’avvolgeva.
«Stavolta riuscirò a liberarmi di quest’incubo» – pensò, mentre lo schermo del suo computer restava fisso su quelle poche righe: «Era la sera del 15 maggio, mancavano tre settimane esatte alle elezioni…».
Non riuscì ad aggiungere neppure una parola. «Sono uno scrittore o cos’altro?, forse sono davvero uno scrittore, ma se è così perché appena mi siedo alla tastiera non riesco a trasformare questo sogno, che fino ad un momento fa appariva tanto vivido e ricco di particolari, in frasi compiute».
Si sentiva condannato, incapace, impotente. Doveva farlo. Doveva scrivere quel sogno per esorcizzarlo. Non conosceva il motivo per cui gli toccasse farlo, ma doveva liberarsi di quel fardello. Nulla era chiaro nella sua mente offuscata. Solo quel sogno, ancora, sempre quel maledetto sogno.
Cominciò a sudare, l’ansia cresceva galoppante, come i battiti del suo cuore. Prese in mano il tubetto di pillole ansiolitiche che teneva sul tavolo di lavoro, ne ingoiò alcune. La luce dell’alba prendeva a disegnare i contorni delle cose. S’addormentò con la testa sul tavolo, il computer acceso, le solite poche frasi confuse.
III
La mattina del 6 giugno Gregorelli uscì di casa.
«Sono già le otto mezzo, eppure questo non chiama. La prossima volta lo sgancio, tanto impegno per nulla. Lo sgan-cio! Non mi conviene». Trascorse un attimo fra questi pensieri e il successivo squillo di uno dei suoi telefoni cellulari. Chiuse rapidamente il finestrino con un tocco leggero sul pulsante alza cristalli, infilo gli occhiali che gli pendevano sul petto, guardò il numero, accennò un sorriso, meno bello ma altrettanto enigmatico e intrigante di quello della Gioconda, poi rispose. «Ci vediamo alle nove sulla strada della Vignaria, ci aspettano tre famiglia alle quali avevo promesso una nostra visita. Abbiamo già fatto una brutta figura ieri non presentandoci. Sono dieci voti che strappiamo sotto il naso al tuo compagno. Dieci voti in più, ma la prossima volta vedi di essere puntuale, io non sono abituato a prendere in giro la gente è chiaro?»
«Dai, stai calmo, si vota oggi e domani, siamo ancora in tempo. Vedrai andrà tutto bene. Sei un grande!», rispose il povero candidato stanco e preoccupato per l’esito del voto. Si giocava non solo l’elezione nel Consiglio provinciale, ma anche un probabile Assessorato.
Le elezioni andarono secondo le previsioni. Il successo, per quella gioiosa macchina da guerra del partito di Gregorelli, superò addirittura le aspettative. Tutti si lodavano ora di aver fornito un contributo decisivo, di essere indispensabili per l’affermazione di uno o dell’altro candidato. E lui, Gregorelli, il più indispensabile tra gli indispensabili. Era giunto il momento dei festeggiamenti. La sera del sabato successivo le elezioni era in programma, alle ore otto in punto, un banchetto e a seguire lo spettacolo pirotecnico, ovviamente offerti da Gregorelli
Loredana, più di una sorella per lui, viso che esprimeva la ricchezza e i buoni sapori della gastronomia mediterranea, era l’indiscussa dea coronata della cucina. Erano le quattro del pomeriggio e il caldo quasi estivo illudeva persino qualche distratta cicala. All’improvviso, un’esplosione secca, un solo nitido scoppio, poi l’inferno. Una serie di botti sempre più forti che si moltiplicavano, due, quattro, otto, fino a diventare un’unica grande bufera di fischioni, petardi, bombarde, razzi, girandole. La scena, che ricordava il finale di Zabriskie Point, immortalata da un vicino di casa, che proprio in quel momento fotografava fiero il suo bel gelsomino fiorito, occupò nei giorni seguenti le pagine di tutti i giornali, anche nazionali. Arrivò persino la televisione, non tanto i telegiornali, quanto le trasmissioni nazional popolari di intrattenimento mattutino e pomeridiano, di cronaca spettacolo, il meglio della TV pubblica e privata.
Salvo per miracolo, giacché era stato lui stesso a provocare, seppur inavvertitamente, la scintilla che aveva innescato il grande botto fuori programma, Gregorelli fu trovato svenuto per la paura, sdraiato supino fra i cocomeri del suo orticello, con il viso coperto da brandelli di porchetta disintegrata dal violento urto dell’esplosione. Non aveva un graffio. Il danno maggiore arrivò dalle mosche e gli altri insetti attratti a frotte dall’unto gustoso di quel corpo giacente imporchettato.
Le conseguenze dell’incidente, in un secondo momento, si dimostrarono ben più gravi. Gregorelli aveva perso la memoria: molti lo costatarono di persona, nella stanza d’ospedale dov’era stato trasportato, durante la sequela di visite, allorquando, ripresa conoscenza, non riconobbe né i medici, né, ancor più impensabile, i sindaci, i presidenti e persino i due parlamentari del collegio. Non ricordava più nulla e il danno, dissero poi gli specialisti, era certamente temporaneo.
IV
Il telefonino appoggiato sul comodino suonò la sveglia. L’uomo la spense con un gesto meccanico e come nulla fosse s’abbandonò di nuovo al sonno sull’altro lato del letto. La sua Maria era già uscita, nessuno lo disturbava. Sonno, sogno, incubo, Gregorelli: ricomparve la sua condanna, perché?
Dormì agitato quasi altre due ore, fin quando qualcuno scampanellò all’uscio di casa. Al quarto o quinto squillo si destò, pigramente. Insonnolito e arruffato, stanco più di prima, in mutande, aprì la porta. Si trattava del postino che gli consegnò in mano una busta bianca, che a vista pareva contenere diversi fogli. Stampigliato sul retro, il mittente: una nota testata giornalistica. Il destinatario, così verificò dopo aver chiuso la porta, doveva essere proprio lui, infatti, scritto a chiare lettere con inchiostro di china nero, si leggeva Massimiliano Guerra, Via Garibaldi 59… «Sono io!», sussurrò con enfasi mista a spavento.
Prima di aprire la busta esitò, immerso in quella nebbia che da troppo tempo aveva sostituito i suoi ricordi. Rammentava solo di aver perso la memoria, lo riscopriva ogni giorno, perché la sua mente non solo aveva cancellato il passato, ma non era più in grado di creare una nuova memoria. Ogni giorno, Massimiliano Guerra rinasceva, la sua testa era una tabula rasa, un palinsesto da riempire e cancellare nello spazio di una giornata.
«Una serie di articoli di giornale, con la mia firma: 14 giugno, Tremenda esplosione di fuochi d’artificio. Ferito il consigliere Gregorelli; 15 giugno, Il centrosinistra dedica la vittoria elettorale a G. Gregorelli ancora in ospedale; 16 giugno, Gregorelli, dicono i medici, sta meglio, ma ha perso la memoria; 17 giugno, Gregorelli perde la memoria; 21 giugno, Dimesso il concigliere Gregorelli. L’esplosione non ha lasciato conseguenze, anche la memoria sta tornando a posto; 14 luglio, Gregorelli racconta al nostro giornale la sua terribile esperienza, fortunatamente finita bene».
«Sono dunque un giornalista, certamente lo sono stato, dieci anni fa ho scritto io questi articoli. Ecco dunque l’origine dei miei incubi! Ma perché ora mi inviano dal giornale questi ritagli? e chi è questo Gregorelli?».
Continuò ad andare avanti e indietro, cercando di ricordare, tentando di illuminare la sua mente, fino a che, esausto, sprofondò vinto fra i morbidi cuscini del grande divano.
Gregorelli nello stesso istante, magari un po’ invecchiato e appesantito, ma sempre uguale a se stesso, e sempre nel posto giusto al momento giusto, eccetto forse quella volta dei fuochi in garage, assisteva dall’esterno alla scena, sbirciando dalla finestra socchiusa del salone e scrutando le reazioni di Massimiliano. Quasi ne guidava i movimenti con gli occhi: il contenuto di quella busta era stata, naturalmente, una sua idea. L’ennesimo tentativo, dopo tanti anni, di offrire a Massimiliano un’occasione, una scintilla per riaccendere la sua memoria spenta, anche se i medici ne escludevano ogni possibilità. Tutti, a dire il vero, s’erano da lungo tempo arresi alla sorte del giornalista, anche la povera moglie Maria e il fratello Guerriero. Solo Gregorelli, instancabile ottimista, non si dava per vinto. Fu l’unico a non disarmarsi delle buone volontà, a non accettare quel destino per uno dei “suoi” amici più cari, e Massimiliano era forse il più caro: sarebbe stato pronto a tutto, anche a misurarsi con le leggi della natura, a vendere l’anima al diavolo se necessario, come aveva sempre fatto. Ne restò convinto per tutta la vita Gregorelli e se ne andò senz’arrendersi, anche se per Massimiliano lui continuò a vivere solo negli incubi notturni, in cui fotogrammi di passato riportavano alla luce quella storia che poi puntualmente svaniva, come ogni altra cosa, alla luce di un’esistenza quotidiana totalmente priva di memoria.
Racconta chi talvolta va a fargli visita nella sua nuova residenza senile a Villa Chiara, tra l’ombrosità dei lecci e il fischiar dei merli, che Massimiliano, seduto nel cortile con le gambe riparate da una pesante coperta, tormenta ogni giorno il quasi centenario, e per sua fortuna pressoché sordo, avvocato Mannini con quella maledetta storia. E, sarà una leggenda o forse no, sta a noi crederlo, è una storia che oggi il vecchio Massimiliano tenta ancora di scrivere.
Andrea,
dissacrante, ironico e dal retrogusto amaro.
Bellissime le immagini evocate ed inatteso il districarsi della trama.
La descrizione della “gerarchia” del tavolo è spettacolare.
Tutto ciò che serve per un racconto bellissimo!