Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il bianco e il nero. Il gioco delle uguali differenze” di Julie Bego

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

“Cappuccio e pasta.” – ordinava Anna ogni mattina.

“Come te la porto la pasta?”- sentiva prontamente una voce farle eco.

“Al cioccolato” – ripeteva ogni volta meccanicamente, senza badare troppo a quanto stava dicendo.

Poi aspettava qualche minuto e il gestore del bar, un ragazzo solare e dai modi gentili, arrivava con l’ordinazione.

Si avvicinava al piccolo tavolino rotondo, e deponeva la consumazione compiendo sempre gli stessi gesti, mentre la sua cliente era già intenta a sfogliare le pagine del quotidiano la cui lettura protraeva anche per un’ora, prima di portarsi al lavoro.

“Novità oggi?” – chiedeva il barista.

“Sempre le stesse.” – rispondeva lei, abbozzando un sorriso timido come la sua natura.

Un locale piccolo, rettangolare, più lungo che largo, ben tenuto, ristrutturato di recente.

Un banco ampio e luminoso, diviso in due parti.

In uno dei due lati, di fronte ad una macchina per il caffè di ultima generazione, campeggiava una vetrina che esponeva tramezzini, panini, pasticcini, e caraffe con succhi freschi d’arancio e ananas.

Sopra un contenitore di plastica esponeva decine di brioches sfornate fresche ogni mattina, trattenendone il calore per mezzo di alcune resistenze elettriche.

Dall’altra parte, in un angolo più appartato, c’era la consolle del vino e della birra alla spina, ed il ripiano dei liquori e degli aperitivi con cinque alti sgabelli sul davanti e ciotole di arachidi e patatine disseminate ogni tanto sul pianale d’acciaio e vetro glassato del banco.

Il resto dello spazio se lo contendevano quattro tavolini rotondi a due posti, un angolo luminoso con tre videopoker protetto da un separè di stoffa color nocciola, e una veranda con un altro gruppo sparuto di sedie e due grandi tavoli di plastica quadrati da esterno sormontati da enormi obrelloni bianchi.

Anna era una cliente di quel bar da più di un anno, e quel tavolinetto rotondo posto nella parte estrema del locale, di fronte alla porta d’ingresso, si poteva dire che era il suo, perché lo occupava non solo al mattino, ma anche alla pausa pranzo, e la sera, prima di rincasare.

La prima volta che ci si era fermata stava andando al lavoro a bordo della sua cinquecento bianca.

“NUOVA APERTURA” – recitava ad alta voce un cartello, e la sua mente non aveva neppure avuto il tempo di razionalizzare la scritta, e si era fermata attratta dalla grandezza dei caratteri, che sembravano urlare per richiamare l’attenzione.

All’inizio il posto le era sembrato anonimo rispetto al bar del centro commerciale dove usava fermarsi di solito, talmente caotico al mattino da non permettere riflessioni di sorta, totalmente catturati dalla smania di accaparrarsi il posto per fare lo scontrino e prendere in fretta la consumazione.

Ma in poche settimane di frequentazione, pur andando sempre da sola, aveva imparato a familiarizzare con il volto del gestore, con i prodotti proposti, e con i visi e le abitudini dei clienti usuali.

Dopo qualche mese aveva persino preso a sorridere a qualche battuta volutamente pronunciata ad alta voce da altri frequentatori del bar, e a lanciare in cambio qualche sguardo velatamente complice e, all’occorrenza, impercettibilmente malizioso.

Anna era un’attenta osservatrice. Da tempo le piaceva entrare nel placoscenico della vita come spettatore piuttosto che come parte attiva, o tuttalpiù rimanerne ai bordi: un attore secondario che non chiedeva mai il primo piano per se stesso, ma che rimaneva a contemplare la scena, cercando di comprendere le dinamiche della recita e i rapporti che legavano i diversi personaggi in azione sul palco.

Mario come lei veniva più o meno sempre alla stessa ora, forse anche qualche minuto prima, alle sei e mezzo, una manciata di minuti dopo l’apertura del bar.

Anna lo aveva notato sin dal primo giorno, e lo aveva inquadrato in ogni singolo dettaglio.

Una quarantina d’anni, alto e magrissimo, con il volto scavato e le occhiaie pronunciate sin dal primo mattino, i jeans scoloriti e lisi terminanti in un paio di scarpe da tennis logore, e polo dai colori freddi, mai sgargianti, lavate e non stirate.

“Il solito. Caffè. Corretto.” – ordinava appena entrato, con la bocca già impastata dalla sera prima, sistemandosi in uno degli sgabelli sul lato nascosto del banco, e con il dito rivolto all’ingiù insegnava al barista la giusta dose della correzzione: grappa bianca, il più delle volte, di tanto in tanto un amaro.

Poi, mentre si apprestava a consumare quella colazione, attendeva Luigi, un ex ferroviere in pensione che da quando gli era morta la moglie trascorreva parte della sua giornata in giro per i diversi bar della zona.

“Ti aspettavo per ordinare.” – bofonchiava Mario ogni mattina, quando vedeva arrivare l’amico di bevute.

“Mi aspettavi, ed io sono qui!” – rispondeva con un’uguale battuta Luigi, quindi affibbiava all’amico una pacca sulla spalla, con la mano che sembrava incerta nel colpire il bersaglio, e i due prendevano altri due caffè corretti.

Le successive due ore proseguivano fra giri di vino bianco di bassa qualità servito su bicchieri da quarto, intervallati da qualche bicchierino di liquore.

Il risultato che ne ottenevano era diverso ad ogni bevuta, e cambiava in base alle ore della giornata e al tasso alcolemico presente nel sangue.

Talvolta il vino li inebriava con un che di allegria e di smania di parlare, altre volte toglieva loro i freni inibitori consentendogli di raccontare storielle sconcie che stridevano decisamente con l’abituale pubblico del bar. In certi momenti l’alcool li lasciava invece vuoti, sconvolti e con la testa pesante, accasciati, quasi distesi, sul banco, a ruttare, a sonnecchiare e a commuoversi da soli su pathos inesistenti.

Nella sola mezzora che Anna rimaneva dentro al locale i due arrivavano a quota mezzo litro, oltre ai due caffè corretti, ma la loro giornata si spostava dopo in altri bar del circondario, che intervallavano con il ritorno in quello che doveva essere il posto dove si trovavano meglio.

Quello dove c’era meno gente, con pochi clienti fissi e molti avventori di passaggio.

Quello dove il gestore sorrideva, scambiava qualche battuta affabile, ma non faceva troppe domande, e li lasciava fare, cercando di ignorarli, quando la bocca lasciava fuoriuscire qualche parola che debordava grossolanamente dagli schemi del bon ton.

Quello dove le luci chiare e l’arredamento color noce caldo, davano l’idea di un posto sereno, e dove la piccola porzione di banco appartata permetteva privacy al momento della bevuta.

Anna aveva osservato i due compagni d’avventura ogni giorno, soprattutto Mario.

Un ragazzo – un uomo ormai – finito, seppure ancora giovane. Avevano pressappoco la stessa età.

Se le capitava di incrociarlo, e condividere un saluto, sostenere l’alito era quasi impossibile: era come se il suo fegato, pieno oltre misura, approffittasse della momentanea apertura della bocca per esalare vapori d’alcool non metabolizzato, e liberarsi delle tossine che lo attanagliavano, e come se i polmoni fossero imbevuti di vino come un battufolo di cotone annegato nel disinfettante.

Che aspettative di vita avevano quei polmoni?

Quanto mancava a quel fegato prima di cedere irreversibilmente all’epatite, o alla cirrosi, e riempire di liquido l’intera cavità peritoneale?

La filosofia del suo padrone sembrava essere quella di ottenere sempre più alcool: ancora, e ancora, e ancora…

Sempre di più, alla ricerca spasmodica di una sensazione di benessere provata nel passato qualche volta e dopo mai raggiunta allo stesso livello, a meno di non provare un terribile senso di disperazione, di vergogna, di incapacità di autocontrollarsi.

Ad Anna l’incontro giornaliero con Mario suscitava le emozioni più diverse.

Un po’ la sua presenza nel mondo la aveva sorpresa perché Mario sembrava averle risvegliato uno strano senso, che a ben pensare avrebbe pouto definire istinto materno. Un istinto che aveva sempre ignorato di poter possedere, e che probabilmente invece era insito in ogni donna, geneticamente tramandato da centinaia di generazioni.

Alle volte lo avrebbe preso in disparte e gli avrebbe semplicemente sussurrato: “C’è qualcosa che posso fare per te?”

Ma lo avrebbe trovato lucido? Lo avrebbe trovato disponibile a parlare? Si sarebbe presa una sonora parolaccia ed un invito ad occuparsi dei suoi problemi, senza farsi carico di quelli degli altri?

Su un’altra dimensione, Mario riusciva invece ad infonderle un senso di sicurezza.

Bastava una semplice operazione per definire ciò: guardare a lui e a se stessa.

Mario in pochi istanti le consentiva di suddividere la società in buoni e cattivi, bianco e nero, quelli che nella vita gli è andata bene e quelli che invece no, i normali e gli altri.

E lei – aveva realizzato – era fra i normali, Mario – invece – era fra gli altri.

E poiché il ragionamento sulla normalità le era sempre risultato piuttosto complesso, questa semplice formula, puramente visiva, si era dimostrata più immediata di decine di ragionamenti e letture introspettive, psicologiche, filosofiche e religiose.

Bastava fare due semplici conti, senza scendere troppo in profondità.

Lei lavorava, Mario no.

Lei si poteva permettere un appartamento da sola, Mario no.

Lei possedeva un auto, anche se era un’utilitaria, Mario vagava a piedi, o in bicicletta.

Quando all’una e mezza Anna arrivava alla conclusione del primo tempo del suo lavoro nell’azienda dove era impiegata, salutava i colleghi dell’ufficio, e tornava al suo bar.

Mario a quell’ora stava seduto per terra sui gradini davanti all’entrata: la posizione eretta gli risultava probabilmente già un’impresa.

Il bicchiere da quarto gli teneva compagnia, con un po’ di vino sul fondo che sembrava essere lì quasi come fosse stato la famosa goccia in grado di far tracimare un vaso sulla via del trabocco. Certe volte accanto al bicchiere sostava un panino spiluccato, sempre troppo grande per essere ingoiato. Un enorme panino che Mario non riusciva a far entrare nel suo stomaco sempre più piccolo e raggrinzito, avezzo più ai liquidi che ai solidi, e in un pancreas oberato da un surplus di lavoro.

Il suo volto a quell’ora aveva un’espressione tirata e paurosa, le mani tremanti, gli occhi lucidi.

“Ciao” – esclamava vedendola, ed abbozzava sempre un sorriso, quasi a voler mantenere un senso di normalità, nonostante tutto.

Ed infatti con movimenti lenti cercava di brandire il suo panino, e mimava un morso: “Visto? Ho il vino perché sto mangiando.” – sembrava volerle far capire, tuttavia la sagoma del panino rimaneva a lungo la stessa e difficilmente gli riusciva di finirlo.

“Ciao” – rispondeva lei, e si portava verso il suo tavolo, prendendo in mano il Gazzettino che si parava fin davanti agli occhi, e ordinando cappuccio e brioches al cioccolato, mentre lo sguardo le scivolava ogni tanto sui gradini all’ingresso.

Sembrava del tutto impossibile che Mario potesse essere in qualche modo lucido, ed in quanto ad una certa ostentata normalità che si preoccupava di recitare con il gestore e gli altri clienti, era piuttosto chiaro che il gioco delle apparenze non era il suo forte.

Anna lo aveva sentito dire a Luigi che aveva perso il lavoro perché si era addormentato diverse volte sulla pressa cui soprintendeva, e che al suo ultimo giorno di lavoro la pressa gli aveva risucchiato parte del camice, lasciandolo integro per miracolo.

“E la macchina? Com’è che non ce l’hai più?” – aveva sentito chiedergli il compagno di bevute.

Mario aveva titubato nel rispondere, ma poi aveva raccontato i dettagli confusi di un incidente che aveva provocato, di cui si capiva che non ricordava nemmeno la dinamica.

“Mi hanno sottoposto all’alcol test e avevo il tasso superiore ai tre grammi per litro.”

Tutto sommato in quella situazione gli era andata anche piuttosto bene.

Aveva distrutto la macchina, gli avevano tolto la patente, ma lui era ancora tutto intero e, cosa ancor più importante, lo sventurato che se l’era visto piombare improvvisamente sulla propria corsia, aveva riportato soltanto poche fratture ed alcune escoriazioni superficiali.

Dopo uno sguardo sommario all’auto sequestrata in carrozzeria, Mario aveva subito capito che in quell’occasione avrebbe potuto ammazzarsi, anche se, a ben vedere, non gli sarebbe importato poi molto.

Non aveva in fondo molto ormai da perdere, arrivato a quel punto.

Ma ciò che di più terribile aveva realizzato nei pochi secondi che intercorsero da quando gli occhi gli si posarono sul davanti sfasciato della macchina, al momento in cui il cervello elaborò l’informazione, è che nell’istante dell’impatto lui era così ubriaco che avrebbe potuto far del male a qualcun altro senza accorgersene.

Avrebbe potuto sentirlo gemere, e vederlo rantolare ed esalare l’ultimo respiro davanti a se senza rendersene nemmeno conto. Era spaventoso!

Il ritiro della patente, in questo senso, non solo non lo turbò, ma gli sembrò quasi una liberazione.

Dopo la perdita del lavoro, le ore dedicate al bar, già prima numerose, erano diventate massicce, e più volte Anna lo aveva visto bighellonare anche nelle vicinanze di un’osteria poco lontana dal suo ufficio, e in un locale affiancato al supermercato dove faceva la spesa.

Mentre Anna pranzava, Mario rimaneva all’ingresso a tener d’occhio i video-poker.

Anna aveva notato questo atteggiamento molte volte.

Mario senza darlo troppo a vedere controllava le macchinette, ascoltava i vari suoni che producevano, si voltava talvolta a guardare, senza mai intervenire, quando nascevano dei commenti fra i giocatori.

Ma quando notava che qualcuno aveva giocato a lungo senza vincere niente, allora nella sua mente annebbiata sembrava accendersi una lampadina, come un interupt imperativo fra le operazioni di un computer ingombro, ed entrava in azione.

Calmo, senza suscitare la curiosità di altri, aspettava che il giocatore abbandonasse la postazione, o meglio ancora che avesse già lasciato il locale, poi, con atteggiamento annoiato si portava alla macchinetta e diceva al gestore “Non so che fare. Mi faccio una partitina.”

Allora inseriva poche monetine e con qualche mescolata di carte portava a casa la vincita che l’ignaro amico gli aveva confezionato, che consumava sempre all’istante, garantendosi qualche giro di bevute gratuite.

Puntualmente, ogni volta che vinceva con le slot machines Mario offriva da bere non solo a Luigi, ma a tutti i gregari di bevute che si aggiungevano, inconsciamente rispettando quello strano fenomeno naturale che vuole che mentre si sta annegando ci si aggrappi ad un salvatore, o lo si inabissi per sempre assieme con noi nel fondo oscuro del mare.

Dove purtroppo non potevano arrivare le macchinette, pur con tutta la buona volontà dettata dalla necessità, doveva arrivare qualcosaltro, e Mario aveva trovato la sua fonte d’approvvigionamento nella pensione di suo padre. 

Un padre ormai anziano, acciaccato dai dolori di articolazioni deformate e scarsamente lubrificate, vedovo da qualche anno, e con il peso di questo figlio da portare interamente sulle spalle.

Fino a quattro anni prima il carico lo aveva portato la moglie di Mario, ma poi si era data per vinta anche lei ed aveva chiesto separazione e divorzio, ottenendo l’affido esclusivo del loro unico figlio.

“Hai distrutto la mia vita, e distruggerai quella di chiunque ti ruoti attorno se non ti deciderai a cambiare.” – aveva urlato puntandolo a palla negli occhi prima di fare le valigie, prendere suo figlio, e tornare da sua madre per l’ultima volta.

Cambiare?

Come poteva chiedergli una cosa simile?

Mario sapeva in fondo al cuore, anche se non osava ammetterlo nemmeno a se stesso, che cambiare non era possibile: non perché, oggettivamente, non esistessero delle possibilità, ma perché, soggettivamente, non era in grado di farlo.

Ci aveva provato poche volte, ma se solo tentava di restare sobrio per più di una giornata, impresa già di per se quasi impossibile, veniva travolto da una miriade di sintomi multiformi.

Dapprima gli iniziava una persistente nausea associata ad un pesante mal di testa, poi veniva colto da tremori e scosse fini lungo tutto il corpo, ed infine gli sembrava di stare così male che gli pareva di impazzire e diventava preda di visioni ed idee assurde e persitenti: una vena trabordante di sangue che come una ferita aperta gli pulsava incessantmente dentro al cervello, comprimendogli ogni pensiero e martellandogli la razionalità.

Mario, dopo quelle parole scioccanti, aveva atteso il ritorno della moglie per qualche mese, inutilmente,  dopodichè, con l’ultimo briciolo di coscienza che gli era rimasto, le aveva lasciato libera la casa, e si era trasferito da suo padre.

Qui viveva come un’ombra.

Quando non rientrava a notte tarda, completamente sbronzo, instabile sulle gambe storte e filiformi, rincasava per pochi minuti a soldi esauriti, e la sua sola presenza in casa era sufficiente per far da indice ammonitore a suo padre: “Ecco come hai saputo tirare su tuo figlio. Ecco il risultato della tua educazione. Ecco le tue colpe.”

All’inizio il vecchio, mite per indole, non gli aveva detto niente.

“Sarà scosso per la separazione” – aveva pensato – “Chissà quante gliene avrà fatte passare quella donna” – lo giustificava, epitetando la moglie con i peggiori aggettivi che poteva recuperare nella sua memoria.

Ma col tempo aveva compreso: non era sua nuora che aveva mandato a monte il matrimonio.

Il problema era suo figlio, e lui non lo aveva mai capito prima di quel momento o, più probabilmente, aveva preferito non accorgrsene.

Quando aveva preso atto che quella del bere non era una difficoltà temporanea, aveva provato a parlargli.

Settantacinquenne, poco istruito, non aveva parole studiate con cui poter fra breccia in suo figlio, e allora aveva deciso di far uscire quello che il suo cuore semplice e grezzo aveva da dirgli.

“Papà, è tutto a posto. Stai facendo congetture sul niente.” – aveva immediatamente negato lui, dichiarando chiuso per sempre l’argomento, e vano lo sforzo di cuore compiuto dal genitore.

Il padre per nulla tranquillizzato, si era allora rivolto ad un nipote medico che lavorava all’ospedale, contando sulla sua discrezione, e si era fatto convincere a chiedere un consiglio ad un medico del Sert, ma quando rincasato, con una speranza vivida fra le mani, aveva provato a parlarne con suo figlio, ne era nata una accesa discussione, e la sua speranza gli si era dissolta davanti, e si era affievolita in un pianto silenzioso.

Con il trascorrere dei giorni le parole fra i due erano trasalite in vivaci battibecchi, ed i dialoghi avevano finito per terminare quasi sempre in litigi urlati e scenate periodiche e sempre più frequenti.

I vicini avevano temuto persino una tragedia famigliare, di quelle che si sentono il giorno dopo al telegiornale, o che si leggono sulla cronaca nera locale di Carlino e Gazzettino: “Colpisce a morte il figlio in seguito ad una lite, dopo che questi gli aveva chiesto ancora soldi. MB era alcolista da molti anni e il padre non ce la faceva più ad andare avanti con la sola pensione minima.”

Forse per questo, dopo affronti durati parecchi mesi, padre e figlio si erano rassegnati alle loro rispettive condizioni, e avevano cercato di incontrarsi sempre meno, chiudendosi ognuno nei propri pensieri e nella propria dose di solitudine e di silenzio.

Anna terminato il suo pranzo, lasciava il locale per farsi le quattro, cinque ore di lavoro che la attendevano al pomeriggio, e vi ritornava solo la sera, verso le sette, scivolando direttamente al suo tavolino, cercando di passare inosservata agli altri clienti.

Mario a quell’ora stava seduto sotto al gazebo, con Luigi, e si lasciava andare, assieme agli altri clienti, agli aperitivi dell’Happy Hour.

Quella per lui doveva essere la parte della giornata in cui si sentiva decisamente uguale a tutte le altre persone che gli stavano confusamente sedute attorno. In quel frangente, infatti, non doveva nascondersi per bere.

Anna  – il Gazzettino come di consueto sotto gli occhi a celarle ogni emozione, il cappuccio caldo accanto, la sua pasta al cioccolato in mano – lo sbirciava a tratti, dal suo tavolino all’interno.

Sotto al gazebo Mario si confondeva fra i ragazzi che parlottavano a voce alta riscaldati dalla miscellanea di vino frizzante e liquore, leggermente aromatizzata con uno spicchio di limone.

Fu proprio verso quell’ora che una sera Mario, lasciando il gruppo di ragazzi brusianti, entrò dentro al bar e la fermò per la prima volta, andandosi a sedere proprio al suo tavolino.

“Ciao. Mi pare ti chiami Anna, no?” – aveva iniziato per sciogliere il ghiaccio, emanando una pesante scia di vino ricostruito.

“Ciao Mario.” – aveva risposto lei per cortesia, decisamente imbarazzata da una mossa non aspettata.

Che cosa voleva?

Anna ci aveva riflettuto estemporaneamente, nel tempo che era intercorso dal momento in cui l’aveva salutata al momento in cui lei aveva ricambiato togliendosi il Gazzettino da davanti e contemporaneamente spostando la sua tazza di cappuccino ancora intatta e la sua brioches appena iniziata.

Voleva tentare un approccio uomo donna?

In fondo lei non era gran donna, ma si manteneva ancora bene per l’età che aveva, e vestiva sempre in modo semplice ma curato, maniacalmente attenta ad indossare abiti che facessero pendant con gli accessori che metteva, per risultare sempre simmetrica ed ordinata, e non aver nulla per cui essere criticata dalla gente.

O Mario voleva invece chiederle aiuto? Gettare un grido in quella notte che era scesa perenne nella sua vita?

Quest’ultima ipotesi sembrava averla convinta maggiormente.

“Sai, è da un po’ che ti osservo.” – iniziò Mario, lasciandola tornare mentalmente all’ipotesi dell’approccio maschio-femmina.

Lei si era subito domandata come avrebbe potuto reagire senza ferirlo, dal momento che non solo la concezione di  un eventuale flirt era lontana mille miglia dai suoi pensieri, ma persino l’idea  di un rapporto che andasse aldilà di poche battute scambiate senza tensione emotiva, le procurava un’ansia febbricitante.

Già aveva dovuto affrontare una brutta separazione pochi anni prima.

 “Cos’ha che non va la tua vita? Eh? Piccola Anna…che c’è che non va?” – aveva proseguito lui, cambiando in un attimo la piega al discorso, che stava scivolando su un livello che ad Anna non stava piacendo per niente.

“Ma come si permette?” – aveva subito pensato.

Era lei che avrebbe dovuto chiedergli cosa nella sua di vita non andasse.

Era lui, che aveva dei problemi visibili e palesi.

“Cosa…Cosa?” – si limitò a balbettare Anna.

“Sai, sono un buon osservatore, anche se, te ne do atto, non sembra. Vieni qui tutti i giorni, sempre alle stesse ore, sempre da sola. Non fai colazione a casa, non vai a casa per pranzo. Non parli con nessuno, ti nascondi dietro al giornale e scambi sempre le stesse scarne battute leggere col gestore.” – commentò lui, chiedendo conferma con una smorfia del viso.

“Bhe…tanti pranzano fuori di questi tempi. Ho all’incirca un’ora e mezzo di pausa fra un turno di lavoro e l’altro. E’ troppo poco per rincasare. E il gestore non è esattamente un amico con cui intrattenere un dialogo intimo e profondo.” – cercò di giustificarsi Anna, imponendosi la calma.

Ma il cervello aveva iniziato ancor prima che se ne potesse rendere conto a produrre una reazione chimica che attraverso il sistema nervoso si stava propagando come un preoccupante SOS per tutto il corpo, arrivando al muscolo cardiaco, il quale reagiva pompando segnali d’allarme, mentre la mente cominciava a macchinare pensieri ansiogeni.

“Ma perché mai mi devo giustificare? Cosa diavolo vuole da me questo ragazzo? Far la predica a me? Diamine! Sta cercando il bruscolino negli occhi degli altri, mentre lui ha un palo enorme conficcato in mezzo alla testa?” – le comunicava un’intricata rete di neuroni fibrillanti, sovraeccitati come una fila di lampadine sull’orlo del cortocircuito.

Ma Mario in quel momento era ubriaco al punto giusto per non abbandonare l’opera intrapresa, e ignorata quella veloce chiusura del discorso della sua interlocutrice, cui aveva fatto seguito un’espressione contratta del viso, proseguì nelle sue congetture.

“Forse. Si, forse. Tanti pranzano fuori. Ma non prendono cappuccio e pasta al cioccolato ogni mattino, ogni pomeriggio e ogni sera. Qualcuno pranza con un’insalata. Altri con un panino. Certa gente al mattino consuma succo d’arancio e toast, ed alla sera sorseggia uno sprizz in compagnia.”

“Brutto dannatissimo insolente!” – pensò Anna, ora decisamente stizzita.

“Brutto insolente!” – si lasciò poi sfuggire ad alta voce, ferita nel suo punto debole, ma non contenta di quella esplosione fulminea e rabbiosa, esagerò, e brandì la spada in sua difesa – “Qualcuno invece beve quarti di vino nel corso dell’intera giornata, e sosta sui gradini di un bar in compagnia di un panino che non potrà mai finire, perché ha lo stomaco e i visceri infiammati dall’alcol, che nel frattempo è riuscito a fargli rovinare famiglia e lavoro, e a fargli perdere la patente!”

Centro! Aveva colpito diritta al bersaglio compiendo un affondo con uno slancio inaspettato, e gli occhi di Mario, prima aperti, ora si stavano contraendo, facendo cambiare espressione al volto, mentre invece le sue sopracciglia si inarcavano altere, fiere della vittoria appena sferrata: “Stoccata finale. Medaglia d’oro.”

In quel momento quelle parole avevano innalzato la sua soglia di autostima, e si sentiva come un leone alle prese con una gazzella già braccata e colpita a morte.

Mario si pose sulla difensiva e cambiò registro: “Hai ragione. Scusami. Volevo…volevo…solo tentare di darti una mano. Scusami. Davvero. Hai ragione. Da che razza di pulpito viene la predica. Sono uno stupido. Decisamente. Hai ragione. Uno stupido ubriaco. Già.” – bofonchiò costernato abbassando il capo,  ed emandando un’ultima esalazione alcolica.

Il dialogo aveva assunto una connotazione diversa e stava irrimediabilmente terminando.

“No. No.” – pensò Anna. – Che stava facendo? Che cosa aveva fatto?

Anna guardò per un istante Mario negli occhi.

Il volto era graffiato dalle sue parole taglienti, ma lo sguardo, oltre la cortina vitrea creata dalla sbornia, era stranamente rassicurante ed affabile. Non se ne era mai accorta prima di allora. Non aveva avuto mai modo di poterlo osservare così da vicino. I suoi occhi erano di un caldo color nocciola, profondi ed infelici, con il taglio sopraffatto, leggermente piegato all’ingiù.

Forse non voleva farle del male. Forse davvero le voleva solamente dimostrare la propria empatia.

Le rimanevano pochi attimi di secondo per non lasciarlo andare con il fardello di quelle parole pronunciate frettolosamente, ed in preda al terrore di essere analizzata su sentimenti con cui non voleva più rapportarsi.

“Ho perso un bambino.” – sibilò velocemente, senza avere il tempo di riflettere, per riaprire senza indugi la conversazione, subito pentita del suono che, imboccata la laringe, attraverso le corde vocali, le era scivolato in bocca.

Mario interruppe il movimento cinetico rotazionale che lo stava portando ad alzarsi e ad andarsene, e le si sedette di nuovo di fronte, guardandola a fondo, senza parlare.   

“Quello che ho che non va è questo. Ho perso la possibilità di avere un bambino.” – ripetè per dar forza a quella verità appena svelata.

Lo sguardo di Mario si riempì di una curiosità benevola, e lei proseguì nell’onda dei suoi ricordi, senza comprendere il motivo di quella catarsi inaspettata.

“Ero sposata fino a due anni fa. Ed ero al settimo cielo per la contentezza perché dopo tre anni di convivenza e cinque di matrimonio, finalmente aspettavamo il nostro primo bambino. Ero al primo mese, ed avevo già iniziato a sognare. Sembravo una bambina tanto mi sentivo leggera!”

Anna si fermò, distolse il suo sguardo da quello del suo interlocutore, e si mise a fissare la sua tazza col cappuccio, facendola roteare piano sul piattino, quasi a voler prendere tempo e a farsi un’idea di quanto aveva appena confessato: il cappuccio, ormai freddo, aveva perso la cima schiumosa, e si era trasformato in un caffellatte acquoso.

“Mentre io ero trepidante e pensavo a nomi e completini in rosa e azzurro, mio marito una sera è tornato a casa. “Mi sono innamorato di un’altra donna” – mi aveva comunicato in modo asciutto e distaccato.”

“Ma attenzione” – riprese Anna con un tono sarcastico e tristemente ironico – “Non si era innamorato di un’altra qualsiasi. No…nno. Si era innamorato della mia migliore amica. La mia migliore amica, capisci? Quella che fino all’ultimo mi è venuta a trovare tutti i giorni e a cui per prima avevo raccontato del bambino.” – sorrise amaramente, mentre Mario non parlava, e lei era invece avviata sulla via della completa confessione.

Perché stava dicendo tutto questo ad un uomo che le era quasi sconosciuto?

Forse perché quel contatto veloce in quel piccolo bar era diventato per entrambi tuttaltro che superficiale.

Forse perché incosciamente il loro istinto aveva trovato un proprio simile nell’altro prima ancora che la loro razionalità avesse potuto rendersene conto, ed aveva notato quanto uguali fossero aldilà della diversità che sembrava connotare i loro percorsi esistenziali.

“E’ una sbandata” – pensai, cercando una ragione per ricostruire il nostro rapporto – “può capitare dopo tanto tempo insieme. Io lo avrei capito, lo avrei riaccolto, e lui sarebbe naturalmente ritornato con me, la coda fra le gambe, e avrebbe scelto la sua famiglia e quel suo bambino che sapeva essere in viaggio.” – continuò Anna.

“Non è andata così, immagino.” – le chiese delicatamente Mario, ordinadosi un caffè ed un bicchiere d’acqua per tentare di recuperare un po’ di lucidità, e offrendone uno anche a lei – “Il tuo cappuccio credo sia ormai imbevibile.” – osservò, sporgendosi sulla tazza.

“No. Non è andata così.” – mugugnò Anna sull’orlo d’un pianto che riusciva a trattenere solo per non farsi travolgere dalla disperazione – “Lui ha scelto lei, ed ha chiesto la separazione. Non sono servite a nulla tutte le mie preghiere, e persino quelle umiliazioni cui alla fine mi sarei sottoposta pur di salvare quello che credevo il nostro m e r a v i g l i o s o progetto di vita a due. Fine della storia. Fine del mio matrimonio. E fine di un’amicizia iniziata alle scuole elementari.”

Anna si fermò e sorseggiò il suo caffè rimanendo in silenzio, quasi preoccupata dall’essersi scoperta troppo.

Si sentiva nuda, e aveva freddo.

L’epilogo non voluto del suo matrimonio era in un angolo oscuro del suo cuore e della sua mente, e lei aveva imparato a custodirlo gelosamente, per paura che l’angoscia potesse traboccare e diventare ingestibile.

Finchè poteva mandar giù saliva e dolore, riusciva anche a continuare il gioco delle parvenze, portarsi ogni giorno a lavorare, e rispondere alle telefonate di sua madre che le parlava entusiasta del nuovo compagno della sua vita, per cui aveva, tre anni prima, lasciato suo padre.

Mario guardò Anna con una dolcezza infinita, quasi come se in quel preciso istante la sua storia avesse cancellato la sua sbornia abituale, e lo avesse reso nuovamente umano, e nuovamente in grado di poter affrontare emozioni che da tempo il suo spirito si negava.

Com’erano simili in fondo lui ed Anna, si trovò a pensare.

Entrambi avevano reagito chiudendosi, alle avversità incontrate sulla propria strada.

“Il bambino?” – domandò a mezza voce, quasi per paura di fare del male a quella ragazza che solo pochi minuti prima gli aveva elargito una risposta secca e brusca, e che invece ora stava davanti a lui, piccola e fragile.

Ora le ritornavano tanti pezzi spaiati di lei, tante parti di un puzzle che aveva iniziato a costruire ogni mattina vedendola arrivare in quel bar con la sua cinquecento bianca, con la sua presenza discreta, mai gridata, raccolta, che l’aveva attratto nonostante da tempo il significato di quel verbo fosse totalmente offuscato anche per lui.

Ora capiva quei suoi gesti sempre uguali, quel suo vestirsi in modo da non sembrare né bella né brutta, quel suo nascondersi dietro alla cronaca locale del Gazzettino, quel suo ordinare ogni volta pasta al cioccolato e cappuccio per rimandare nell’oblio i ricordi spiacevoli: un mix perfetto di zuccheri, grassi e triptofano che le innalzava prontamente il glucosio nel sangue e le illuminava immediatamente la mente allagandola con un fiume impetuoso di serotonina, e attivando il sistema beta endorfinico, la rendeva più forte verso il dolore.

Un fiume impetuoso che doveva essere alimentato da nuove cascate di zuccheri e grassi.

Una spirale che gli era incredibilmente famigliare, che faceva parte della sua essenza, insidiosa e subdola, da molti anni.

Lo sapeva benissimo anche lui.

Quando la sensazione di benessere è artificiale, l’effetto è destinato a durare poco, e a portare con se profonde angosce e picchi di disperazione cieca, in un continuum di salite e discese chimiche e umorali con oscillazioni via, via più ampie: momenti sempre più radi di sicurezza estrema alternati a fasi oscure sempre più prolungate.

Alla domanda sul bambino Anna aveva reagito battendo nervosamente il cucchiaino sulla tazza vuota del caffè e su quella ancora piena del cappuccio ammosciato: “Tap tap tap taratatap tap.”

La nenia che ne usciva, come i grani ripetuti di un rosario, la mandava in una sorta di tranche, un limbo in cui la realtà diveniva più soffusa e meno reale.

Come aveva potuto arrivare a quel punto?

Come aveva potuto lasciare che qualcuno scendesse così a fondo dentro al suo animo?

Lei che era sempre così attenta a muoversi sulla superficialità?

“Tap tap tap taratatap tap.”

Mario le afferrò d’un tratto la mano per fermarne la movenza involontaria e spastica.

Il tap tap prodotto dal cucchiaino si zittì improvviso, ed il vortice astratto in cui era scesa la mente di Anna sfumò subito nei rumori e nei colori del bar, fra i vestiti dei clienti, i suoni psichedelici dei video-poker, e il brusiare rumoroso e confuso di decine di voci mescolate insieme.

“Il bambino l’ho perso. Tutto lo stress per la separazione, i litigi, gli avvocati. L’ho perso. Avrei potuto tenermelo per sempre, e lasciare andare un marito che non mi amava più. Invece mi sono fatta travolgere dagli eventi. Non ero in grado di fronteggiarli. E mi hanno sommerso spazzando via ogni traccia di me. Di me, e di un’altra vita. Capisci? Non ero in grado di fronteggiarli. Erano troppo rispetto a me. Erano più grandi di me.” – gemette d’un tratto, parlando a voce interrotta.

Mario era rimasto muto, svuotato di ogni parola, e continuava a tenerle, accarezzandola lievissimamente, la mano, dapprima sfiorandola appena, e poi fermandosi in una stretta morbida e rassicurante.

Non c’era niente da poter dire che non fosse una scontata e banale frase di circostanza.

Se capiva? Capiva benissimo!

La sua esistenza era stata perpetuamente disarmonica.

La sua vita somigliava ad una bilancia. Per anni aveva cercato di trovare un equilibrio fra i due piatti dosando capacità, paure, difficoltà ed eventi positivi, dubbi e razionalità, ma alla fine, dopo ampie e continue oscillazioni, il piatto dei problemi e delle angosce aveva preso il sopravvento sull’altro, facendo piombare a terra la precaria stabilità.

“Ho iniziato a bere perché non valevo molto, e credo di aver perseverato, perché ho continuato a non valere molto. La vita mi è sempre sembrata troppo complessa. Vivo ai margini della società. E’ così. E’ tutto troppo per me.” – sembrò riflettere Mario ad alta voce, chiamando il gestore del locale con un movimento rapido dello sguardo non appena finito di parlare.

Il gesto gli uscì automatico dopo quell’ammissione che il suo istinto avrebbe voluto annegare con un altro quarto di vino bianco, o con un liquore fra i più pesanti, una grappa, o una sambuca, per negare quanto aveva appena rivelato ad Anna, e anche a se stesso.

Invece quel giorno le cose si erano messe ad andare diversamente dal consueto e a Mario, chiamato ormai il barista, non restò che ordinare un nuovo caffè, e ritornare a parlare: “Come ti dicevo ti ho osservata, Anna. Tu non sei come me. Sei diversa. Non sei una perdente. Ti devi solo reinnamorare di te stessa. Mentre io…io sono tutto qui.”

Mentre parlava, dopo il racconto di Anna, Mario aveva capito che in quel momento avrebbe dovuto chiamare a rapporto tutte le sue facoltà mentali per offrire un conforto concreto a quella ragazza, e facendo forza sulla forte emicrania che come un’aureola gli cingeva la testa, provò a tranquillizzarla, cercando di pronunciare distintamente le parole: “Non hai colpe di quanto è successo. Chiunque al tuo posto sarebbe stato scosso dagli eventi. Chiunque. E il bambino non l’hai perso perché lo volevi. Chissà. Forse sarebbe successo comunque perché così doveva andare. Tu lo volevi avere. Non hai fatto niente per perderlo. Avresti voluto tenerlo.”

“E’ da molto che bevi?” – chiese lei, cercando di sciftare quel dialogo che ormai le stava procurando inquietudine, e di entrare contemporaneamente nel cuore di quel ragazzo che non era più dalla parte del nero come all’inizio voleva a tutti i costi credere.

“Da troppo.” – proruppe subito, in uno strano e alquanto raro slancio di onestà, Mario – “Ero un ingegnere idraulico Anna. Ma in fase di studio di un importante progetto ho commesso degli errori di calcolo rilevanti. Un intero paese andò in ammollo. Per ore. Non ci furono grossi danni, ma l’impatto, potrai immaginare, fu forte ugualmente. Fu un errore molto grave. Dopodichè, al posto di affidarmi al latino ‘errare humanum est’, arrivai da solo dove la ditta presso cui lavoravo non osò arrivare, mi licenziai, e per mantenere la famiglia trovai un posto da operaio in un’industria qui vicino. Ma ormai avevo iniziato a bere, e non ero più la stessa persona di prima.”

Mario si guardò per qualche secondo le mani – magre, ossute, rinsecchite dal fumo, percorse da tremori sottili – e sembrò trovarvi fra le impronte uniche ed irripetibili l’ispirazione per un pensiero profondo: “Comunque” – ricominciò, rivolto alla ragazza – “credo che se non fosse stato per questo, avrei cominciato a bere per qualsiasi altro motivo, e sarei diventato ugualmente schiavo del vino. Sono una persona fragile. Quando inizio, non mi posso più fermare. Mando giù il primo bicchiere e la mia mente mi dice subito che sono stato debole, che ho fallito, e che a questo punto l’unica via che rimane è continuare ad andare avanti, continuare a bere, completare l’opera. La logica del tutto e niente, del bianco e del nero…mi manca la scala cromatica dei grigi. “Sarà l’ultima volta” – mi dico ad ogni nuova sbronza – “Domani non prenderò quel primo bicchiere ed inizierò ex novo una nuova vita.” – Domani. Domani. Tutto ciò che devo fare, lo farò domani.”

“Domani…Anche io ricomincerò la mia vita da domani. Da quando mi sono separata da mio marito vivo col pensiero rivolto al futuro. Non sono mai hic et nunc, qui e adesso. Il presente sarà domani. Un domani che non arriva mai. E intanto mi riempio di latte, dolci e cioccolato, e non mangio altro. Non posso farne a meno sai. Sono esattamente come te. Ho innescato una complessa reazione psicologica, e fisica, e chimica, che non so come fermare. Non so come fermare.”

Ecco; improvvisamente il concetto di bianco e nero, normalità e diversità era crollato di nuovo nella mente della ragazza che si rendeva ora tristemente conto che i due semplici conti che aveva fatto le prime volte che aveva incontrato Mario, erano operazioni che giocavano a suo favore, consentendole di incasellarsi in un mondo che le dava sicurezza.

Cosa importava che lei lavorasse e Mario no? Che lei avesse una casa sua e invece Mario no? Che lei avesse la patente e la macchina, mentre lui girava in bicicletta?

Pura esteriorità. In fondo tutto quello che possedeva erano solo certezze materiali fittizie, mentre non riusciva a raggiungere ciò che davvero era importante per dare scopo alla sua vita: l’equilibrio.

Qusto le mancava, l’equilibrio interiore, quell’armonia di cui aveva parlato poco prima Mario…i due piatti della bilancia.

Tutto il resto sarebbe dovuto venire dopo.

Quando il mattino successivo Anna tornò al bar, poco prima  dell’inizio dell’orario di lavoro, Mario stava già seduto sulla parte nascosta del banco assieme a Luigi, che gli batteva una mano sulla spalla per farlo diventare anche quel giorno, attraverso quel gesto – ripetuto e rituale, consueto e famigliare – il suo amico di bevute.

Anna attraversò l’ingresso, fissò Mario negli occhi, ed osservò il suo tavolino in fondo al locale, fermandosi però a pochi passi di distanza, davanti al banco dove c’era la macchina del caffè.

“Cappuccio e dolcetto al cioccolato?” – aveva chiesto sorpreso da quell’atteggiamento diverso dal solito, il barista.

Anna lo aveva guardato, ancora addormentata aveva stiracchiato – sbadigliando a bocca chiusa – le braccia all’ingiù, e aveva fatto cenno di no col capo.

“Oggi cambio tutto. Prendo uno yogurt. Ai frutti di bosco.” – ordinò lei lanciando un nuovo sguardo verso Mario – “Uno yogurt e…” – guardò verso la vetrina – “….e sì, un succo d’arancio. Non zuccherato.” – disse cercando di curvare la bocca in un sorriso a labbra serrate, nel tentativo di comunicare una, se pur schiva, apertura.

“Colazione sana e naturale?” – chiese ammiccando il barista.

“Colazione sana, e naturale!” – ripetè Anna, con un tono di voce più alto e leggero.

“Cosa vi servo?” – domandò poi il ragazzo dietro il banco voltandosi verso Mario e Luigi mentre con le mani faceva scivolare le arance dentro al tubo metallico dello spremiagrumi elettrico – “non è che volete cambiare tutto anche voi oggi?!” – domandò sorridendo affabilmente.

“No. A noi porti il solito.” – tartagliò Luigi con la bocca asciutta, senza saliva.

“Caffè condito e un quartino di vino bianco.” – gli fece di nuovo eco il gestore del bar.

Anna avvertì un guizzo pungente nel petto.

Mario rimaneva inerme accanto all’amico in attesa di ripetere il copione che per contratto con se stesso doveva ormai ripetere tutti i giorni, bevendo il suo caffè corretto grappa e lasciandosi andare a giri e giri di vino bianco di bassa lega che avrebbero distrutto, bicchiere, dopo bicchiere, un pezzo di lui: un cuore, un polmone, uno stomaco, un pancreas, un fegato, migliaia di connessioni neuronali, una alla volta, tante alla volta.

Un ugale sussulto sembrò colpire, nel medesimo istante anche Mario, quasi se il suo cervello in quel momento fosse entrato nella lunghezza d’onda di quello di Anna, ed avesse estrapolato le stesse informazioni che lei stava visionando.

“Ma che fai. Guardi la ragazza?” – lo distrasse l’amico affibbiandogli una manata al basso ventre e aggiungendo una battuta piccante, stonata come un pianoforte scordato.

“Si, guardo la ragazza. Effettivamente…sì, sto guardando la ragazza, anche se mi sembra impossibile.” – scandì Mario ad alta voce, lasciandosi andare ad una risata appena pronunciata, ormai quasi immemore di essere stato un tempo un uomo, un marito, un padre, e persino un maschio.

Il viso era sdrucito dalla sbornia della sera prima, le guance prive di muscolatura, allentate dentro la loro spettrale magrezza, ma il suo sguardo nocciola era attraversato da uno strano raggio luminoso che gli inondava il capocchio della pupilla.

“Giovanni. Sai che ti dico? Tira fuori uno yogurt anche per me, ed un succo d’arancio. Senza zucchero ovviamente. E mettimi in macchina due  caffè. Oggi cambio tutto anche io. Spezzo il cerchio. Spezzo il cerchio, e, se me lo consente, faccio compagnia alla signora. Luigi non me ne vorrà…”

Quando quel giorno tornò a casa Mario andò di filato da suo padre.

Vedendolo arrivare il vecchio aveva già meccanicamente preso in mano il consunto borsellino di cuoio marrone, quasi all’osso quel mese, sebbene mancasse ancora una settimana alla fine.

“Come avevi detto che si chiamava papà quel medico del Sert? Sai, credo di averne bisogno, credo di avere un problema.” – esordì Mario, rimettendo il borsellino nella tasca del panciotto di suo padre, e notò che il suo volto – nodoso, grinzito, e solcato da rughe – sembrò ringiovanirsi all’istante di almeno dieci anni.

Quando quel giorno Anna tornò al lavoro, fece il buon proponimento di andare a casa per pranzo.

All’una infatti tornò al suo appartamento, guardò il frigorifero, decisamente spoglio e non avezzo ad essere aperto di sovente, e si affidò alla dispensa, mangiando un’insalata di riso in scatola e verdure sottolio.

E quando quella sera i due si ritrovarono al bar per l’Happy Hour, avevano entrambi il volto sconvolto, erano nervosi, e rabbiosi, e furiosi, in piena crisi d’astinenza, ma avevano un faro acceso nel cuore.

Anna, deviando accuratamente il ripiano con le paste avanzate dal mattino, si avvicinò – le mani vibranti – a Mario.

Luigi gli stava seduto accanto, ma non era l’amico consueto di bevute, e fra i due sembrava essere venuta a mancare d’un tratto quella complicità fatta dall’essere compagni di sventura.

“Buon giorno” – sospirò la ragazza, rivolta ad entrambi, e poi, volgendo lo sguardo verso quello di Mario, riprese col cuore che sembrava volerle uscire dal petto – “Ti va un giro in macchina con me?”

Mario guardò a se stesso: si sentiva malissimo.

Guardò a Luigi e per la prima volta lo vide per ciò che in realtà era: un povero diavolo consunto da una vita mal spesa, tutto intento a cercare di non affondare da solo.

Guardò al bar, ai video-poker vivaci e luccicanti, e ai tavolini in veranda straripanti di ragazzi alticci ed accaldati, stipati come sardine in un due metri quadri di spiazzo.

Ristette una manciata di secondi a pensare, quasi stranito dentro a se stesso, poi strofinò le mani secche ed oscillanti, si avvicinò ad Anna, e la puntò fisso negli occhi, con aria di sfida beffarda: “Pago il mio succo d’arancio e sono pronto a seguirti…Accidenti a te.”

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1 commento »

  1. Un po’ prolisso nelle descrizioni, soprattutto all’inizio. Poi la storia prende di più.

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