Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Piove blues” di Pierpaolo Grezzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Quaderno di Rocco B., quello con la copertina verde
La cosa più difficile è la normalità. A volte è insostenibile, con il suo peso lieve. Ho pensato che un giorno scriverò un libro, l’elogio della normalità. La mia generazione ne ha avuto sempre un concetto negativo, io per primo. Sono sempre fuggito, sono sempre andato alla ricerca di qualcosa di straordinario, lontano, anomalo.
Ma ora, qui, mentre guardo la pioggia sul lago, dal mio balconcino, e fumo una sigaretta, mi dico che la cosa più difficile da imparare è amare il peso della normalità. Del presente. Dell’essere qui e basta. Senza seguire in continuazione quell’inquietudine in superficie, che costringe a fuggire. Seguire invece ciò che si è nelle profondità.
È come il blues. È come quando s’ascolta il blues di certi posti di New Orleans. Che poi io, a New Orleans, neanche ci volevo andare. È successo tutto per caso, e molto rapidamente. Ero a Memphis, in Tennessee. E Sally era andata a Seattle, io volevo raggiungerla, il prima possibile, ma avevo un contratto al Roma Restaurant, su Monroe Avenue. E non potevo lasciare Rino da un giorno all’altro. Il Roma era un posto piccolissimo, ma con un’atmosfera speciale ed era uno dei posti più ricercati di Memphis, uno di quelli dove si mangia davvero italiano. Quando Rino aveva assaggiato i miei gnocchetti verdi alici, spinaci e menta era rimasto sbalordito.
«Mr. Rocco! Tu da qui non te ne vai!», aveva intimato, scoppiando in quella sua risata grassa e sguaiata.
M’aveva fatto una proposta che non potevo proprio rifiutare e ci eravamo accordati per tre mesi. Mi dissi che lavorare lì m’avrebbe fatto bene, l’ambiente era festoso e mi ricordava certe trattorie romane. E poi avrei avuto i soldi per starmene tranquillo con Sally per un bel po’. La chiamavo ogni volta che avevo un attimo. Avevo perso la testa per lei, o almeno così mi sembrava.
Tra i camerieri c’era un ragazzo nero, Benjamin Reed, di Chicago. Era un pianista, si era formato sulla strada e ogni tanto suonava il vecchio Hammond che Rino aveva messo in sala. Era veramente straordinario quello che riusciva a fare quel ragazzo ricciolino quando si sedeva davanti a un organo. Ogni volta che ci metteva le mani, magari quando c’era meno gente e si poteva prendere cinque minuti, tutto si fermava e si rimaneva immobili, stupefatti, a sentire Benny Reed. Suonava blues. Un blues tutto suo, diceva. Quando suoni tu, piove blues, gli dicevo io.
Aveva una sensibilità speciale, sia sull’organo che nella vita. Parlavamo molto e mi portò in giro, nei migliori locali in cui si suonava blues. Con lui parlai di tutto. Forse è stata una delle poche persone con cui mi sono aperto veramente. La gente del suo giro lo rispettava e una sera mi fece conoscere Tommy Gray, un nero grasso, con un assurdo cappello azzurrino, vestito da cowboy di lusso. Tommy Gray era il proprietario di alberghi, ristoranti e locali notturni a New Orleans e pare che fosse anche una specie di discografico. Cioè, registrava alla meglio i concerti nei suoi locali, ne faceva dei dischi e li vendeva, sempre nei suoi locali. Questo era un bel business, diceva. E in effetti alcuni talenti che aveva scoperto, poi, erano diventati famosi, così diceva Benny. Insomma, gli propose un contratto per il Black Cat, uno dei suoi locali, che era anche uno dei migliori locali blues di New Orleans. E Benny non stava nella pelle: «Però vengo se viene anche lui», disse. «E lui chi è?», gli fece Tommy. «Il più grande chef italiano vivente!» «Ma veramente?» «Sì, veramente. Se vuoi ti fa assaggiare gli gnocchi verdi alici, broccoli e menta!» «Spinaci, non broccoli…», dissi io, senza rendermi neanche conto.
Tommy ci guardò come due matti. Prese un tiro dal suo sigaro e disse che, se ero veramente così bravo, si poteva fare. E così, dopo una settimana, io e Benny ci trovammo a New Orleans.
La vita lì era un vortice. Si lavorava, si ascoltava blues, si beveva qualcosa, si lavorava, si conosceva gente, si lavorava, si parlava con la gente, si beveva qualcosa, si lavorava, si ascoltava blues. E sempre così. Furono mesi colmi di vita.
In quel vortice, non avevo molto tempo per chiamare Sally. C’era troppo blues.

I

«Oh Alfò! Entra, entra»
«Scusa Rò, forse ti ho disturbato…»
«Macché! Vieni viè!»
«Ti ho portato la sbriciolata»
«Alfò, non devi portare niente, lo sai!»
«Sì, lo so, lo so… Ma questa è buona, l’ha fatta mamma»
«Come stanno i tuoi?»
«Eh, insomma. I soliti problemi»
«Mi dispiace»
Alfonso chinò il capo di lato, rassegnato. «Sicuro che non ti ho disturbato? Stavi facendo qualcosa?»
«Stavo ascoltando musica»
«Chi è?»
«Benny Reed. Ti piace?»
«Non lo conosco»
Rocco B. s’avvicinò allo stereo e abbassò il volume, mentre faceva segno ad Alfonso di mettersi a sedere su uno degli sgabelli alti, di fronte l’isola di legno della cucina. Era pomeriggio inoltrato e fuori cominciava a piovere.
«L’assaggiamo subito la torta di cummà Ninetta!», disse Rocco in modo leggero e percepì l’impercepibile sorriso di Alfonso. «E sai che ci beviamo? Un goccio di questo passito»
Mentre Rocco metteva i bicchierini sul pianale, fece quel suo movimento della testa, come a chiedere “allora?”
«E niente, tutto così», rispose Alfonso.
«Così come?»
«’A solit»
Presero i bicchieri e brindarono, solo con un cenno del viso.
«È buono», disse Alfonso.
«Tiè, pigliatene n’altro»
Il liquido giallastro intenso si posò con un glu pesante nel bicchiere di Alfonso e poi, con lo stesso rumore aritmico, in quello di Rocco.
«Grazie»
Ci fu un altro silenzio. Si sentiva il vento che s’alzava sul lago e, in sottofondo, l’organo calloso di Benny Reed. Rocco B. pensò che quel loop gliel’aveva sentito suonare migliaia di volte. Alfonso portava il tempo con l’indice della mano sinistra, quella che non teneva il bicchiere.
Rocco B. tagliò due pezzi di torta.
«A me un po’ di meno, sì, così va bene», disse Alfonso.
Rocco gli passò il piattino di ceramica, i piattini che aveva comprato sua madre chissà quanti anni prima, eppure ancora lucidamente perfetti.
Un altro lungo silenzio. Benny Reed era passato a un vecchio ripetitivo struggente pesante blues.
«Vuoi na sigaretta, Alfò?»
«Che sono?»
«Malboro rosse»
«No, grazie, troppo pesanti»
«Se vuoi te ne faccio una col tabacco»
«Lascia sta’ Rò. Grazie»
Rocco B. conosceva Alfonso da che erano ragazzi. Si era laureato in ingegneria civile a Potenza. Ci aveva messo molto di più del tempo necessario, ma Alfonso era sempre stato un ragazzo difficile. Introverso, riflessivo, che ponderava ogni cosa per un tempo indefinito. Sensibile. D’una sensibilità ultraterrena. L’esatto opposto di quello che chiede la società, soprattutto a un ingegnere. Naturalmente aveva studiato ingegneria solo perché gliel’avevano imposto i suoi. Lui avrebbe fatto altro, chissà cosa. E ora era disoccupato, ai margini di tutto. Ma, in fin dei conti, ai margini si sentiva a suo agio.
Rocco B. amava quella sua timidezza indifesa, quel suo essere così “fuori”, un estraneo del mondo. Ci vedeva qualcosa di se stesso.
Alfonso lo andava a trovare ogni tanto, quando aveva bisogno di staccare, di confidarsi. E quello era il suo modo di confidarsi. Stare lì e basta. Gli faceva bene, almeno così sembrava.
«Si mette a piovere», disse Rocco B., guardando la finestra sul lago.
«Sta già piovendo un po’»
Silenzio.
«Vuoi n’altro bicchierino?»
«No no, devo guidare»
«A Lagonegro che si dice?»
«Mah, le solite cose»
Un silenzio più lungo.

II

«Ho fatto domanda all’Anas», disse Alfonso, con aria distratta.
«Davvero?»
«Sì»
«Hai fatto bene!»
«Tanto non mi chiamano»
«E che ne sai?»
«Lo so»
«Alfò!»
«Agnesina, la moglie di Tonino, il tecnico del comune… mia madre ci ha parlato, per vedere se Tonino poteva fare qualcosa, ma dice che il posto è già assegnato. Se lo piglia Gianni Forastieri»
«Gianni? Il figlio di Mariuccio?»
«Sì»
«Ma non faceva il meccanico col padre?»
«Sì, poi s’è preso un diploma da geometra, da privatista. Mariuccio ha sempre aggiustato la macchina gratis a Enzo Longo, il consigliere regionale, e quindi…»
«Mo’ Enzo deve pagare il conto»
«Eh…»
Rocco B. finì l’ultimo pezzo di sbriciolata, buttò giù il passito, si riempì di nuovo il bicchierino e buttò giù pure quello, tutto d’un fiato.
Alfonso non aveva quasi toccato la torta, la smuoveva con la forchettina e la guardava distrattamente.
«Ti pesa?», chiese Rocco mentre accendeva una sigaretta.
Alfonso alzò le spalle, in un gesto di sconfitta.
«Non ti fa schifo tutto questo?», lo incalzò Rocco.
Alfonso alzò di nuovo le spalle, senza spostare lo sguardo dal pezzo di torta.
«Questo è uno dei tanti motivi per cui me ne sono andato»
Alfonso alzò lo sguardo dalla torta e lo guardò: «Però alla fine sei tornato»

 

Quaderno di Rocco B., quello con la copertina verde
Ora che ho molto tempo, voglio scrivere un libro. Forse una specie di romanzo, oppure no. Comunque un libro sulla normalità. E voglio raccontare quanto valore si possa trovare anche nella sconfitta. La sconfitta, di solito, ha grandi lezioni da insegnare. Benny Reed non è diventato un bluesman famoso come desiderava, fa ancora il cameriere e adesso si è spostato a St. Luois, e prima o poi verrà a trovarmi, ha detto. Alfonso ci ha messo una vita per laurearsi, con immense fatiche, e alla fine ha smesso di cercare qualunque tipo di lavoro. E io, che dopo aver viaggiato per anni, dopo aver conosciuto centinaia di persone, dopo esser stato ovunque, mi ritrovo qui, come un sergente a riposo. Un soldatino in licenza, che non sa se ci vuole davvero tornare al fronte. E che continua a chiedersi cosa abbia più valore, la guerra o la pace?
Sto imparando che è molto più difficile vivere in pace. Ci vuole un’abilità specifica, una capacità di apprezzare i dettagli, la lentezza, i silenzi, un’abilità che io non ho mai avuto. Il rumore ci protegge, ci fa illudere. Ci fa illudere di qualunque cosa. La guerra fa rumore e dà l’illusione che poi, quando si sarà vinto, tutto sarà perfetto. Nel silenzio della pace, invece, sei nudo. Nudo da illusioni. E la nudità ha un peso insopportabile, a volte.
Ecco, voglio scrivere un libro sulla nudità di cui c’è bisogno per vivere davvero la vita.
Ha smesso di piovere e c’è un pezzo di luna. Non la vedo, ma ne riconosco il riflesso sul lago. Ora tutto sembra immobile. Non passa una macchina, non passa nessuno.
Continuo a chiedermi se, tornando qui, mi sono perso o mi sia ritrovato. Mi chiedo che fine abbia fatto il vigoroso e folle Rocco B. di appena qualche anno fa, quel Rocco B. che saliva su un vecchio bus, su un treno o su un aereo e, in un attimo, ricominciava la vita daccapo, come se nulla fosse, immerso in un flusso di esistenza costante, un Rocco B. che non sembrava aver paura di nulla. Quel Rocco B. che fino a stamattina non s’era mai chiesto che fine avesse fatto Sally, la ragazza di Seattle. Non mi sono mai chiesto se avesse sofferto per la mia sparizione nel nulla, non mi sono chiesto che vita faccia, se si è sposata, se ha avuto dei figli, se sta bene o no.
E allora mi chiedo se, in realtà, in tutti questi anni non abbia fatto altro che perdermi, mentre pensavo che mi stessi trovando. E mi chiedo se questo stato, che considero una sconfitta, questa stanchezza, questa immobilità, questo silenzio di adesso, in fondo, non siano altro che una delle mie pochissime vittorie.
Perché, in fondo, la cosa più difficile è proprio la normalità.
Solo la normalità permette di sentire questa leggera pioggia di blues sul corpo nudo. E fumare l’ultima sigaretta in una pace surreale, senza desiderare più la guerra.

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18 commenti »

  1. Bellissimo Pierpaolo. Ma non ci riesco a chiamarlo racconto. È qualcosa che va oltre un racconto.È uno stato d’ animo che fluttua e si prolunga nel tempo. Forse l’ ho apprezzato in modo particolare perché hai toccato un argomento al quale penso molto ultimamente.Perfetta l’ assonanza con il blues. Scritto bene. Complimenti!

  2. Grazie Pierpaolo per questo straordinario racconto, scritto benissimo ,caldo e accogliente , una ricerca di normalità apparente chiave di sensazioni profonde ma insieme lievi che “permette di sentire questa leggera pioggia di blues” bravissimo!

  3. Alla fine vince la pace, non c’è dubbio, ma che fatica mantenerla senza combattere! La storia di una vita, forse di molte, bisogna perdersi da qualche parte per poi ritrovarsi. Secondo me sei molto legato alla tua terra, qualsiasi essa sia. Il racconto si legge di un fiato, bello.

  4. Quando la vita ci sembra scorri indifferente, quando non hai il tempo per le cose ovvie, quando giochi ad essere estraneo con te stesso, arriva lui, il prof, che traduce i tuoi pensieri e con la consapevolezza di non si aspetta tanto dalla vita, ti fa tuffare in un mare di parole autentiche! e diventa poesia anche il desiderio di spogliarsi di profondità..
    “Perché, in fondo, la cosa più difficile è proprio la normalità.” grazie Pierpaolo per un racconto che arriva dritto al cuore!

  5. Bellissimo racconto,Pierpaolo!Descrivi molto bene la storia di una vita,di una ricerca della normalita,che è diventata una cosa difficile,ormai le persone sono sempre alla ricerca di qualcosa di straordinario. Vivere in pace è sempre più difficile e per ritrovare se stessi bisogna perdersi in qualcosa.Complimenti!!

  6. Ho “visto” tutti i personaggi. Bravo, davvero!

  7. Complimenti, Pierpaolo.In questa storia rivedo la mia “storia”, il mio cercare, sempre e dovunque, la mia insaziabile irrequietudine. Il tuo linguaggio è quello della mia generazione. Ciao

  8. Questo è un racconto molto profondo pieno di sapori e emozioni, di viaggi e luoghi, di gente, di rendez-vous anche quelli mancati….il tutto a ritmo di musica blues.
    Come il blues della vita, delle emozioni passate, delle sensazioni presenti sempre verso la ricerca di qualcosa…una cosa difficile che è proprio la normalità.
    Mi da voglia di sentirla, la sua leggera pioggia di blues, di mettermi a nudo, semplicemente.
    E sempre un indicibile piacere ritrovare Rocco B. “Lui è me e io sono lui allo stesso tempo, come un alter ego”. Merci Pierpaolo

  9. Un racconto stupendo, adesso che lo conosco lo posso rileggere e assaporare meglio 🙂

  10. Non leggevo qualcosa di simile da anni, c’è una intensità, una forza emotiva, una capacita di scrittura straordinaria… Intravedo un vero scrittore in questo racconto. Davvero complimenti!

  11. Mi è sembrato di sentirlo quel blues.
    Apprezzo il rispetto per la sensibilità: in un mondo così aggressivo e così veloce, si è perso il senso della “normalità” e del gran coraggio che ci vuole ad ammetere quanto sia meravigliosa.
    Un plauso.

    Martina

  12. Pierpaolo, io non amo il blues perché mi suscita una sensazione di fastidio interiore, ma tu me l’hai fatto vedere da una prospettiva diversa. Ho sentito il sottofondo musicale di un’anima che cerca, che va e che torna, che ha il coraggio di scoprire la ‘normalità’, la cui accettazione consapevole è un vero atto di eroismo. Bellissimo racconto.

  13. Ciao Pierpaolo, avevo già letto e apprezzato il tuo racconto ma non l’avevo cpmmentato (chissà perché…). Quindi rimedio subito. È uno tra i miei preferiti…

  14. Pierpaolo, il tuo racconto è senza ombra di dubbio uno dei migliori! Sembra davvero di leggere John Fante, nella perfezione dello stile e nei temi.

    Sei riuscito a farmi calare nella turbinosa e fascinosa Louisiana (ambientazione a cui sono già di mio particolarmente sensibile, per le mie predilezioni musicali), nella vita provvisoria e “blue” di chi è sradicato dalla sua terra, e infine nella quotidianità del proprio paese di appartenenza.
    Che la parabola del personaggio (che hai condensato in maniera mirabile) sia stata dettata, in ultima analisi, meno dalla necessità che dall’angoscia di superare una normalità a cui non ci si rassegna, è un pensiero che fa riflettere molto, e che vale per ognuno di noi – perché può benissimo applicarsi alla frenesia della vita di oggigiorno.

    Insomma, grazie e complimenti davvero. Mi auguro (e ti auguro) di vederti in finale, e di leggere presto altre tue cose!

    PS: Se avrai voglia, mi farebbe piacere se passassi dal mio racconto e mi dessi un’opinione sincera. Farei tesoro delle tue parole!

  15. …non posso fare a meno di ri-commentare. Sono felice, davvero. Il mio preferito in assoluto!

  16. “E mi chiedo se questo stato, che considero una sconfitta, questa stanchezza, questa immobilità, questo silenzio di adesso, in fondo, non siano altro che una delle mie pochissime vittorie.
    Perché, in fondo, la cosa più difficile è proprio la normalità.”
    Non c’è niente da aggiungere. Grazie. Bellissimo e molto profondo.

  17. wow! che atmosfera! mi sono proprio sentita… li’, come fossi stata sul set di un film. E i dialoghi… perfetti!
    Complimenti!

  18. Ciao Pierpaolo.
    Sperando di farti cosa gradita ti copio/incollo il commento che avevo scritto al tuo racconto sul gruppo “I fantastici 25 etc.” un bel po’ di settimane prima della proclamazione:

    “Piove Blues” di Pierpaolo Grezzi. Caspita che bel racconto (sì lo so comincio a essere poco credibile come commentatore, prometto che dal prossimo proverò ad osare anche qualche piccola critica). Bellissima atmosfera, racconto sensoriale, da leggere, ascoltare, vedere, gustare, La ricerca della normalità in un viaggio attraverso sè stessi, gli altri, il mondo lasciato e quello trovato, il tempo di una riflessione, la guerra, la pace… Mi ha ricordato un po’ Novecento di Baricco. E dal mio punto di vista è un complimentone.
    Anche questo se trovate un minuto leggetelo perché ne vale la pena: tra i papabili.”

    Insomma almeno sul tuo ci avevo preso (avevo anche altri ‘favoriti’ ma non gli è andata altrettanto bene…)

    Complimenti.

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