Premio Racconti nella Rete 2017 “Un poster, un tramonto dietro i fili del tram e un cielo di marmo rosso” di Davide Mattioli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Ad alcune delle più belle canzoni
di Claudio Baglioni
Annodò la sciarpa attorno al collo e con gesto deciso, alzando un po’ la testa e socchiudendo dolcemente gli occhi, estrasse i lunghi capelli castani dal nodo e li fece cadere lungo le spalle, sul cappotto. Preferiva non mettere un berrettino di lana, al massimo si sarebbe tirata su il bavero: le piaceva tanto sentirsi il vento tra i capelli! Il vento, quell’espressione così fantastica della natura che le faceva venire in mente grandi spazi, lunghi viaggi, il mare in tempesta, le onde contro gli scogli, l’erba dei prati che ondeggia, le nuvole che corrono via in cieli immensi che si fanno sempre più sereni. E che poteva regalare tramonti da sogno, incantevoli e indimenticabili. Lo aveva sempre amato, anche da bambina quando la mamma le diceva di coprirsi bene andando a scuola. Faceva ancora freddo, ma si era all’inizio della primavera o meglio alla fine dell’inverno e il pomeriggio di quel sabato di marzo romano era bello e limpido, anche se una gelida tramontana si incuneava per le strade e sferzava i ponti sul Tevere. Era il colpo di coda dell’inverno, quando un vecchio canuto e malfermo gioca l’ultima carta per spazzare via una fanciullina leggera e indifesa, ma questa lo lascia fare perché sa che il vecchio sta per morire. Giorgia si guardò un’ultima volta allo specchio, si ravvivò i lunghi capelli, sempre mossi, sempre in disordine, e pensò che non era poi tanto male. No, il trucco non se l’era dato perché a lui non piaceva e perché l’aveva conosciuta così, un anno fa, in un altro pomeriggio di tramontana che sferzava gelida sui ponti del Tevere.
Com’era stata felice quel pomeriggio! Era un sabato anche allora e per un paio di giorni non avrebbe più pensato alla scuola. Ma era proprio a scuola che l’aveva visto la prima volta. Lui la guardava spesso, seduto sul motorino con quel giubbotto nero che sembrava un aviatore quando sta per salire sul suo aereo, coi capelli un po’ scompigliati e la faccia da schiaffi. E proprio su un aereo Giorgia si era sognata quella notte di stare con lui. Da lassù, in sogno, urlando per il rumore assordante dell’elica, avevano visto Roma in basso, sempre più lontana e laggiù, oltre Monte Mario, il tramonto romano: un cielo blu cobalto cambiava cento volte colore, dall’azzurro, al viola e al rosso fino all’orizzonte dove il sole si era appena tuffato nella pianura lontana. Quel cielo di Roma che sembrava finto, quasi di marmo, un cielo di marmo rosso.
Anche Giorgia lo guardava spesso quel ragazzo e finalmente lui si era deciso a darle un passaggio in motorino e lei non seppe, non volle, dirgli di no. Mentre sfrecciavano per le strade di Roma lo stringeva forte fino a che lui, arrivati davanti a casa, le aveva chiesto di uscire quel pomeriggio, un ventoso sabato di marzo. E questa volta videro insieme il tramonto dal Pincio: il cielo si faceva di mille colori tra i rami ondeggianti degli alberi fino al disco rosso del sole e fino a che la tramontana non li convinse a rifugiarsi felici in un bar per un tè. Erano le giornate che Giorgia preferiva quelle, fredde, ventose, limpide e con i colori fantastici della Roma invernale.
I mesi erano passati felici, la primavera, i baci sotto i rami degli alberi del Lungotevere carichi di foglie, lì sul greto, lungo il fiume che andava lento lento e poi i pantaloni bianchi da tirare fuori che era già estate; una granita al chiosco, una fetta di cocomero o un semplice legnetto di cremino da succhiare quando non vedi l’ora che arrivi il tramonto per godere il sollievo del ponentino. Già, ancora una volta il tramonto, con quei colori impossibili: blu, azzurro, viola, rosso, arancione, giallo… L’estate, il mare, correre felici a perdifiato sulla spiaggia e se c’era vento perdersi nella schiuma di cavalloni pazzi e il bagno a rotolarsi nelle onde. Poi era arrivato l’autunno, con le foglie gialle per terra lungo i viali che il vento di novembre alza e porta via lontano facendole danzare prima di morire per sempre, ma Giorgia era felice, come quando da bambina arrivava Natale, con l’albero ed i regali da scartare. Roma era bellissima a Natale: le strade si popolavano ancora di più di gente infreddolita, di colori, di mille lucine, del vociare allegro della gente, di tanti altri suoni ma lei non voleva perdersi lo spettacolo del tramonto con lui, dal Pincio, dall’Aventino, da qualunque posto, anche se avesse dovuto guardare il cielo e veder scomparire il sole dietro un muro, diceva. E le mani che lui le teneva, le scaldava… Ora ricordava tutti questi momenti vissuti con lui, come se stesse sfogliando un album di fotografie rilegato in pelle, le fotografie del loro amore, i colori e le emozioni del loro amore.
Uscì dal portone ed una sferzata di vento gelido la investì in pieno convincendola ad alzare il bavero e a sistemarsi meglio la sciarpa; si rannicchiò un po’ dentro al paltò socchiudendo gli occhi, mani nelle tasche, mentre i capelli erano liberi e volavano via indietro sospinti dal vento. Sentiva il loro frusciare nelle orecchie e questo le metteva molta allegria. Era felice: lo avrebbe rivisto ancora e in un pomeriggio così il tramonto sarebbe stato meraviglioso, stretta tra le sue braccia fino a che la tramontana non gli avesse suggerito di rifugiarsi in un bar. Guardò l’orologio: oddio, se non mi sbrigo mezzora non basterà per arrivare in centro! E s’affrettò. Entrò alla solita fermata della metro, poi giù dalla scala mobile; la gente aspettava in un lento camminare avanti e indietro sulla banchina. In arrivo: 2 minuti. C’era un po’ più di tepore lì e si stava quasi bene. Fra poco lo avrebbe rivisto e forse lui l’avrebbe portata di nuovo davanti ad un tramonto. In arrivo: 1 minuto. Non stava nella pelle: ma non arrivava più quella metro? Gli occhi le caddero distratti sul muro della banchina e fra i tanti cartelli pubblicitari ne vide uno: era il poster di una foto scattata chissà dove e chissà quando, ma si vedeva un cielo al tramonto con la linea scura della città che si stagliava contro il rosso fuoco del cielo. Un cielo di marmo rosso, pensò Giorgia. Poi un vento tiepido le annunciò l’arrivo della metro. Scese alla fermata, salì la scala mobile e percepì dall’altoparlante le note di una celebre ma triste canzone che parlava di un addio, di due ragazzi che si lasciano prendendo un tè in un bar e si dicono le ultime cose ed un po’ di tristezza le scese nel cuore. Si scosse e nel freddo della strada piena di gente si aggiustò la sciarpa mettendosi controvento per spingere indietro i capelli. Si abbottonò il paltò per bene: le andava leggermente largo; bisogna che mangi un po’ di più, le diceva sempre lui; sei tutt’ossa… Poi si guardò intorno per cercarlo.
Il freddo ed il vento ormai erano quasi insopportabili, ma che importava più? Dio che freddo su quel ponte e che vento! Era meglio che se lo fosse messo il berrettino di lana! Si annodò meglio la sciarpa mentre tirava su col naso ma non sapeva se per il freddo o per le lacrime che bussavano violentemente ai suoi occhi. Il suo cuore che aveva sempre ascoltato le diceva piangi, piangi! Ma lei non voleva, cercava di resistere con tutte le forze che le restavano a quell’assedio di tristezza e di dolore. Guardava in giro per distrarsi, per cacciare indietro anche il sapore di quel tè che le era andato per traverso. Una lacrima le era anche caduta sullo scontrino! Camminava sul selciato che ad ogni passo era più duro e più freddo e sembrava ricordarle che lui non la voleva più. L’addio era stato triste, inaspettato, come uno schiaffo della tramontana su un ponte. Oddio che odiosi erano quei sampietrini: sentiva i suoi passi su quel selciato duro e sconnesso che le rimbombavano nella mente, le gambe pesanti; guardava in basso e continuava a tirare su col naso in vari tentativi senza successo di ricacciare indietro il fiume di lacrime. Il sole andava giù ed il cielo si preparava alla battaglia di colori lucidati dal vento che stavolta per lei si confondevano tutti in un grigio fumoso ed inutile. Sì, inutile! Inutile come quella tramontana fredda che regala quei maledetti tramonti pieni di colori, come quella odiosa felicità dell’altra gente, come i suoi passi su quel selciato, come quello schifoso sabato pomeriggio di un maledetto marzo romano! Come tutta la sua vita! Vita che ora senza di lui non le importava più! Aveva freddo e lui non ci sarebbe più stato a scaldarle il cuore mentre guardavano insieme il tramonto: l’aveva delusa, tradita, ingannata… eppure sentiva che lo amava ancora… ma forse non lo aveva amato mai abbastanza. Le sembrava già che non poteva più farne a meno mentre ingoiava anche questo addio. Si sentiva il cuore rovesciato come tasche vuote: che avrebbe fatto domani e dopo e poi nei prossimi vent’anni? Si riparò per un minuto in un negozio pieno di gente e di luce e sentì le note di una canzone che parlava di fotografie… di foglie arrugginite… di un cielo di marmo rosso…
Ormai il sole stava tramontando e Giorgia non ce la fece a non alzare gli occhi e attraverso l’umido delle lacrime vide sì il tramonto, ma stavolta dietro anonimi fili neri del tram che lo tagliavano lugubri come a voler distruggere l’incanto di quello spettacolo che ormai non era più suo. Giorgia sentiva solo i suoi passi, pesantissimi, il vuoto dentro e fuori di sé. Camminava e a testa bassa cercava di tornarsene a casa, gli occhi che tendevano a chiudersi appesantiti dai tristi ricordi di una felicità che non le apparteneva più.
Si sedette sulla panchina fredda chiusa nel suo paltò, la testa bassa. Sulla banchina della metro c’era il solito lento movimento della gente in attesa. Alla parete ancora quel poster con i colori del tramonto dietro lo skyline di case nere della città. Dall’altoparlante uscivano le note di un’altra canzone, tristissima… dirgli tutto quanto… davanti ad un tramonto… i passi sul selciato ti fanno compagnia…