Premio Racconti per Corti 2017 “Riempi la bocca. Stai zitta” di Serena Barsottelli
Categoria: Premio Racconti per Corti 2017È una mattina d’inverno come tante, come troppe.
Il quartiere è avvolto dal freddo e dal silenzio.
Ancora dorme nel suo letto di legno e di colore.
Dorme, mentre il mondo attorno a lei non smette di ruotare.
Il suo volto assopito non trasmette calma, ma un profondo senso di vertigine e sgomento. Il suo sonno non è: smorfie e tremori. Forse per gli incubi.
I suoi occhi glaciali si spalancano e continuano ad aprirsi, sempre più, mentre il corpo sobbalza seduto, come posseduto da un demone.
Come una bambina troppo stanca, ma che teme di lasciarsi vincere dai demoni del sonno, si strofina con i pugni le palpebre degli occhi, forse per cacciare l’ultima immagine dell’incubo ancora proiettata di fronte ai suoi occhi.
Poi, passo dopo passo, trascinando al di qua del grigiore invernale i piedi nudi, si dirige ciondolando nella stanza da bagno.
Le mattonelle fredde, gelide come ghiaccio, fanno sobbalzare la giovane donna. L’acqua fredda, gettata senza rispetto su un volto già stanco, lo percuote e lo schiaffeggia fino a farlo arrossare.
L’inclemente asciugamano rivela il volto allo specchio, mentre le luci del regista rendono il viso ancora più bianco, evanescente, etereo.
Come un automa, si veste di fronte alla piccola finestra sopra il letto. Da lì è vista e protetta, da lì osserva ed è separata dal resto del mondo.
La scena si ripete frenetica, mentre una mattina indossa i guanti, la sciarpa e il cappello azzurri, poi verdi, poi rosa, poi viola, poi rossi.
Esce di casa e come un viandante inizia il suo pellegrinaggio.
Ogni giorno, invece, si trova di fronte alla stessa serie di villette e a bussare alla solita porta.
Di nuovo frenetica, afferra con il guanto oggi azzurro, poi verde, poi rosa, poi viola e poi rosso il batacchio e lentamente, con solennità e rispetto, quasi fosse innanzi a un luogo sacro, batte il primo colpo al portone.
Si vede una lunga veste bianca, che lascia appena scoperte le caviglie e i piedi nudi, scendere di gran lena le antiche scale in legno, leggiadra, quasi stesse volando o fosse lo spirito di una casa infestata.
Ancora si ripetono, a tempo, i timidi colpi alla porta. La giovane donna chiede d’entrare e alza gli occhi a osservare l’imponenza e l’aspetto dell’elegante villetta.
Come all’arrivo di un ospite a lungo atteso, si spalanca la porta, senza che dall’esterno si possa intravedere la figura della padrona di casa.
La giovane donna entra, lasciando che la porta si chiuda oltre le sue spalle e avanza ora nell’atrio, ora nel grande e ricco salone di marmo.
La giovane donna è stordita e ipnotizzata dai fiori freschi e profumati nel vaso di cristallo, dal ricco tappeto in tinta unita e dalle eleganti poltrone monocromate.
Il fuoco accesso leva sorde urla al cielo: risalgono dalla cappa, fin sopra il tetto e rendono l’aria della cittadina più grigia, quasi più nera.
Eccola avvicinarsi e osservare meglio quel fuoco così caldo e innocente, così freddo e malvagio.
Poi, distratta, alza lo sguardo e, riflessa nel grande specchio, c’è la matrona che, maestosa e impaziente, le fa cenno di seguirla.
La sala che si apre intorno a lei ha una tavola al centro, finemente apparecchiata: tovaglie linde, bicchieri in cristallo, argenteria e finissime porcellane.
Le sue sorelle ancelle, vestali immacolate, siedono intorno a lei: la circondano della loro potente e inebriante bellezza, mentre divorano, anche con le mani, le leccornie che la matrona ha servito per loro.
La giovane accarezza la forchetta, gioca con il coltello, sminuzza il cibo, sentendosi in colpa e provando vergogna, sperando che le sue compagne non si accorgano di niente.
Parlano, ridono, intorno s’abbuffano, mentre la testa gira e la stanza con lei, lasciando intravedere, barlume di lucidità tra attimi di follia, che i piatti splendenti e i vassoi succulenti sono in realtà vuoti di cibo e pieni di fame, mentre la giovane donna stringe tra i denti, disperata, la forchetta fredda e vuota.
Con uno scatto s’alza e lascia cadere a terra la poltrona rovinata e dall’alto schienale.
Il vetro delle finestre è infranto, i fiori sono appassiti, l’acqua è putrida, marcia, come i residui delle vivande che un tempo avevano imbandito la tavola.
La sale è buia, fredda e in decadenza e tutto sembra girare vorticosamente, come buchi neri nella testa.
Le gambe procedono leste sopra le scale di legno malandate e cigolanti, mentre la giovane donna si regge alle pareti.
Segue il corridoio malandato e apre la porta in legno dall’altra parte del palazzo: è l’unica chiusa.
Il cuore batte all’impazzata, mentre un urlo così forte da frastornare il suo stomaco e le sue orecchie la depriva, con il suo silenzio forzato, di ogni altra sensazione: la matrona giace, con il suo abito bianco ingiallito dal tempo, in stato avanzato di decomposizione.
È inverno e il paese ancora dorme.
L’alba impietosa si è appena affacciata alla finestra.
Con un sobbalzo si sveglia la giovane donna nel suo letto.
Ancora con gli occhi saldamente chiusi, afferra con le braccia le sue ginocchia e, come ballerina di un carillon maledetto, inizia a dondolarsi.
Con gli occhi ancora serrati.