Premio Racconti nella Rete 2017 “La strada” di Silvia Romano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Stava cominciando a piovere. La solita pioggerella “assuppa viddanu”, pensò mentre apriva lo sportello della cara vecchia Renault 5 grigio topo dei suoi genitori. Quattro porte, piccola e leggera ma con una buona tenuta di strada. Ne aveva macinati tanti, di kilometri, quella scatoletta, negli oltre venti anni di onorato servizio, senza incidenti seri. Un po’ di graffi e qualche ammaccatura sui fianchi, dovuti alla guida inesperta da neo-patentato, mai niente però che non potesse essere sistemato, con un paio di martellate al punto giusto, da parte di “Ringo”, com’era soprannominato il carrozziere di fiducia dei suoi. Entrato nell’abitacolo, inserì la chiave. Ma, prima di mettere in moto, accese l’autoradio e si allacciò la cintura di sicurezza. Quel gesto di mettersi la cintura gli ricordava sempre le parole dello zio Tano quando passava da casa sua con l’apecar e da sotto il balcone gli gridava: “Veni Maccuzzu, acchiàna! Però teniti, ah… nun fari spittizzi!” e lo faceva salire dietro. Marco spittizzi non ne faceva per niente, si sdraiava sul pianale con le mani sotto la testa e si godeva il tragitto lento verso il mare, perdendosi a guardare quella strada di cielo e nuvole incorniciata a volte da alberi, a volte da case. L’odore forte dei pini marittimi e della salsedine gli faceva capire quando erano quasi arrivati, e allora si alzava, pronto a saltare giù non appena zio Tano si fosse fermato. Andavano a fare i tuffi dagli scogli, in un angolo nascosto della pineta, non molto frequentato dai turisti perché non c’era la sabbia per piantare gli ombrelloni né per costruire aree attrezzate per picnic o campeggi. Stavano lì un paio d’ore, lo zio Tano gli stava insegnando ad andare sott’acqua in cerca di ricci da mangiare subito dopo, con un po’ limone spremuto sopra. Quei pomeriggi d’estate a fare i tuffi con lo zio Tano erano la cosa più bella che ricordava della sua infanzia.
Adesso, sul pianale dell’apecar non ci sarebbe entrato neanche raggomitolandosi come un gatto e zio Tano, se fosse ancora vivo, non gli arriverebbe a una spalla: Marco si era fatto alto, un gigante buono con la barba folta e la voce profonda. Era considerato il più affidabile della comitiva, quello che riportava a casa gli amici che avevano bevuto troppo. A forza di tuffarsi a cercare ricci da piccolo poi, negli anni si era appassionato alla pesca subacquea tanto da arrivare a prendere il brevetto e andare a fare escursioni in giro per il mondo. In diverse occasioni era riuscito a fare delle belle foto dei pesci e dei fondali corallini che aveva esplorato, alcune erano orgogliosamente esposte, come trofei, nella sua stanza e nello studio di papà.
Quella sera lo aspettavano al bowling del villaggio turistico, che era stato costruito anni dopo vicino a quella pineta affacciata al mare da cui aveva imparato a tuffarsi. Era un po’ in ritardo ma il cielo non prometteva nulla di buono, la pioggia era diventata più fitta e pesante, quindi preferiva andare piano.
La radio aveva preso automaticamente una stazione con un segnale disturbatissimo, ma la canzone era bella e Marco la lasciò lì sperando che il segnale si ripulisse lungo la strada.
– Donciunnìd sambàri tu lov… , canticchiava masticando una gomma, dev’essere la mia serata fortunata, di solito ‘sti pezzi non li passano mai.
Mancava solo l’ultima curva, in discesa, e poi avrebbe potuto imboccare la stradina verso il parcheggio del bowling. Diluviava, il cielo sembrava aprirsi ad ogni fulmine. La Renault 5 attraversava un muro d’acqua in cui i fari servivano a ben poco.
— Ma no, non si sente più! Uffaaa…
Marco, non fari spittizzi.
— Vediamo se la ritrovo… No, non è questa. Cazzo, come piove, non si vede niente. Questa? No, neanche.
Qualcuno sulla corsia opposta fece segnali con gli abbaglianti, l’auto sobbalzò su una buca piena d’acqua mentre un fulmine illuminò la strada accompagnato da un tuono assordante…
Trasalì. La pioggia a scroscio si aggiunse ai rumori della strada, ancora trafficata nonostante fosse già notte fonda. Raccolse la coperta ai piedi del divano e andò a farsi una tisana; si sedette alla scrivania col gatto sulle ginocchia, in vena di carezze come al solito. E mentre il sabato sera entrava dalla finestra prepotente, col solito vociare di ubriachi sotto casa, bottiglie che rotolano e auto che sfrecciano, si mise a scrivere. Scrisse di Marco, di quel gigante che raccontava della strada di cielo e dei giri sull’apecar di zio Tano da piccolo, dei pesci fotografati chissà dove e di quella sera di un anno fa. In cui non era mai arrivato al bowling, ad abbracciarla.
Che bello Silvia!..brava.
Un racconto delicato di memorie recenti ma già consolidate dal tempo, che rendono la nostalgia di una perdita quasi leggera.
Grazie, Gianluca.
C’è sempre del vero nelle mie storie. Il tuo commento mi commuove perché ciò che racconto cerca di esorcizzare la paura della morte e lenire le ferite di coloro che ho perso.
Grazie ancora.
Silvia, quando capisci, arrivare fino in fondo costa fatica, ma la delicatezza della narrazione mi ha aiutata molto.
Ho finito e ho detto “o mamma!”, no, ho detto altro ma il senso era quello: tristezza, malinconia, pelle d’oca. Che bel modo di raccontare, pulito, efficace, intenso. Molto brava!