Premio Racconti nella Rete 2017 “La visita” di Laura Calderini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017«Mamma, devo darti una bella notizia» disse Enrica mentre guidava, entrando a gamba tesa nel mezzo di una delle rare, spensierate, chiacchierate, quasi un cicaleccio, in cui, giusto quella mattina, stavano divagando madre e figlia, che tanto scaldavano il cuore di chi, come Enrica, invece, non aveva avuto, quasi mai, il privilegio di goderne e di cui, quindi, si ingozzava avida, ogni volta, fino a farne indigestione «Pubblico il mio libro sai?»; che nemmeno lei sapeva come fosse riuscita a sputare fuori quella rivelazione tenuta in cova da giorni.
Lunga la gestazione dell’annuncio, la frazione di un secondo per generarne l’aborto consapevole: nell’attimo stesso in cui pronunciò quelle parole, infatti, con la certezza che sarebbe successo quello che stava per succedere, Enrica avvertì il brivido lungo la schiena e l’aria, all’interno dell’abitacolo, ghiacciare il fiato trattenuto da entrambe.
Ecco fatto, di nuovo; era bastato così poco.
Sarebbe stato sufficiente scartare di lato, dopo la prima parte dell’annuncio e inventarsi una baggianata qualsiasi, che però avesse prolungato quell’estasi emotiva, sempre precaria, sempre desiderata, e non cadere, per l’ennesima volta, nel trabocchetto di credere che lei fosse cambiata.
Ma d’altronde non poteva più sottacere le cose come quando vivevano insieme; non lo avrebbe più fatto, mai, perché la percezione mutata del bene e del male, ora, non glielo permetteva.
Dal recesso dove stava acquattato, però, scattò il segnale di pericolo, che quello era sempre radicato, sornione, in famelica attesa di nutrirsi della sua paura, e, come Gesù nell’orto, Enrica, tornata animale braccato, drizzate le orecchie e alzato il muso a sondare il vento, tentò di allontanare il calice, ululando muta: “No, no, no, indietro, per favore indietro; indietro; indietro” mentre con la coda dell’occhio, le era sufficiente guardarla anche in tralice, assisteva alla metamorfosi.
Mafalda stava mutando pelle e, come una serpe, sgusciò fuori, dapprima contorcendosi lenta, poi in un guizzo finale, la madre implacabile, la madre irreprensibile, la madre che non fa concessioni alla propria coscienza.
Le scorticature dell’anima ripresero a dolere, ma adesso, adesso più che mai, l’istinto di sopravvivenza emotiva, la spinse a concentrarsi sull’hic et nunc, e allora, come un lottatore di sumo, si piazzò con le mani ben salde sulle ginocchia piegate e si preparò a ricevere il ceffone.
Che non era tanto per quello che le avrebbe detto, ché lei lo sapeva benissimo cosa le avrebbe sbattuto in faccia, ma per il reiterarsi di quell’assurda strattonata affettiva che avrebbe reciso, ancora una volta, i sottilissimi legamenti che con pazienza e fatica, aveva intessuto con la saliva, come un ragno.
«Io penso che quelle cose che hai scritto, essendo cose tue, intime, purtroppo indecenti, di cui dovresti vergognarti, non devi farle conoscere a tutti: se proprio devi darlo in pasto al mondo, taglia quelle parti», sibilò.
Lo disse senza guardarla; senza mezzi termini, senza un accenno, figurarsi un aperto plauso, alla novità inaspettata; ma, almeno, un bravina …magari avrei scritto ….; sei stata in gamba, però…; mi fa piacere, ma …; che bello, tuttavia … ; d’altronde si stava ripetendo uno schema perfezionato in anni di repliche e a Enrica sembrava, ogni volta, di vivere un deja vu.
Pensò a quello che stavano di nuovo perdendo, proprio ora che sembrava avessero raggiunto un equilibrio, anche se assestato precariamente sopra un asettico patto di non belligeranza, che comunque era già qualcosa, ché la strada per ristabilire, ricostruire un rapporto materno/filiale vero e proprio era ancora lunga; pensò ai giorni velenosi che sarebbero seguiti; al rancore covato; alle parole che non si sarebbero dette; alle telefonate che non si sarebbero fatte; ai baci, pochi, sempre, che non si sarebbero date; alle lacrime che avrebbero versato, la sera, sul cuscino.
Quanto sarebbe durato questa volta? Non voleva, non voleva assolutamente, rientrare nella tomba dei silenzi.
Sentì il rancore impastargli la lingua: «Io dovrei tagliare dei pezzi!? Io purtroppo avrei fatto quelle cose di cui dovrei vergognarmi!? E quali sarebbero quelle cose!?… Di tutto lo spirito della storia tu hai capito solo quello? Non ti sei resa conto che ho dovuto scriverti, scrivere un libro, otto anni per farlo, per confessare un amore che tu non mi hai mai permesso di dimostrarti? Che delusione mamma. Non sei cambiata. Eppoi! Non mi hai mai regalato nemmeno una pacca sulle spalle per le mie piccolissime vittorie, i miei pochissimi successi; li hai sempre misconosciuti, messi a confronto con chiunque avesse fatto di meglio; non sei mai stata felice delle mie felicità. NON LO HAI MAI FATTO», strillò al parabrezza, battendo il pugno sul volante, mentre gli occhi le pizzicavano, le orecchie le fischiavano, il cuore impazziva.
«Sei tu che non sei cambiata. Con te non si può parlare; diventi insopportabile; non ragioni; non dai retta!»
«MAMMAAAA!» urlò di nuovo con rabbia; Enrica tremava visibilmente ed aveva rallentato senza accorgersene, creando una coda innervosita.
«Basta! Fermati che voglio scendere» le ordinò Mafalda con la mano già sulla maniglia.
Era la chiusa; il punto di non ritorno, il momento in cui Enrica cedeva le armi e cadeva in ginocchio offrendo la gola: «Mamma» implorò adesso con dolcezza, voltandosi verso di lei per la prima volta «smettila adesso. Mi devi accompagnare alla visita. Dopo puoi fare quello che vuoi. Ti prego… » le disse attorcolandosi dentro a quel senso, ben noto, di impotenza che le toglieva il respiro.
«FERMATI, ho detto, che vado a casa a piedi» berciò; erano arrivate al parcheggio dell’ospedale dove Enrica doveva sottoporsi alla visita di controllo.
«Mamma ti prego! Dove vai; è tanta strada; è troppo caldo. Ti accompagno allora» disse con un filo di voce, preoccupata, nonostante tutto, al pensiero di vederla partire zoppicando, sotto il sole cocente.
Ma Mafalda, scesa quasi al volo, era già “lontano”.
«Grazie per avermi accompagnato alla visita» mormorò Enrica al sedile vuoto e raddrizzando le spalle, si soffiò il naso, si rassettò i capelli e si avviò.
Ciao Laura, il tuo racconto è scritto bene. Nella storia del tuo personaggio non è palpabile tanto il desiderio di approvazione da parte della madre, quanto piuttosto la ” quasi certezza” che questo desiderio verrà frustrato nuovamente, una speranza che si protegge dal dolore. C’ è una coazione a ripetere da parte di entrambe. A quanta pena portano i rapporti irrisolti con i padri e le madri…Bravissima, complimenti.
Grazie Gloria; era esattamente quello che volevo trasmettere, bravissima tu ad averlo LETTO con il cuore.
Racconto denso di dolore che rimanda ad altri momenti di vita (mal)vissuta. Perché non raccontarli, anzi tratteggiarli, magari attraverso i dialoghi tra le due donne? Si riuscirebbe ad avere uno spaccato più avvolgente di quello che è stato/è il loro rapporto. Anche in virtù di quella frase in cui la protagonista dice di aver mutato la percezione del bene e del male. E’ collegato alla visita? A un male incurabile o a una gravidanza?
Laura, difficile essere madre, difficile avere una madre. Il tuo racconto mi disturba, perché mi fa rivivere momenti troppo simili a quelli descritti. Efficace e veritiera la rappresentazione di meccanismi che si ripetono al di là di qualsiasi (apparente) cambiamento.