Premio Racconti nella Rete 2017 “L’ultimo anno di scuola superiore” di Pina Spinella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017L’ultimo anno di scuola: addio Nino!
Tante storie ci accompagnano nella nostra vita e man mano che le viviamo ci congediamo da alcune e riempiamo il vuoto di quello spazio che si libera con mondi nuovi e sconosciuti, con nuove esperienze, con nuove storie.
Attendevamo la campanella dell’ultima ora, pigramente messe in fila, sbadigliando di fame e un po’ di noia. Il grande portone che dava sul Corso Umberto di Acireale veniva aperto per lasciarci sciamare verso casa, chi a piedi, chi con l’auto dei genitori. Qualche volta, l’ultimo anno, io ed alcune compagne prendevamo nel bar vicino una granita alle mandorle, la cosa più gustosa che io ricordi della mia adolescenza; ci sedevamo festanti sotto un tendone scuro infuocato e facevamo discorsi di grandi sogni, di grandi speranze, di grandi parole. Man mano concludevamo con pettegolezzi sui ragazzi che ci piacevano, sulla scuola, sui professori, sugli esami ormai prossimi.
Poi una passeggiata lungo il marciapiede di basolato lavico fino a Piazza Duomo: ampia, assolata, elegante. Sovrastata dall’imponente Duomo, abbellita dall’artistica facciata di San Pietro e dall’elegante Palazzo del Comune si compiaceva dei tanti antichi palazzi barocchi. Mi dilungavo a osservarne i particolari, respirando l’odore di limoni che arrivava da qualche giardino interno e allungando l’occhio fino al mare da Via Romeo.
Avevo ormai diciassette anni e, pur essendo più piccola di un anno rispetto alle mie compagne di scuola, mi sentivo ormai grande. Tuttavia quando passando, sentivo ragazzini giocare per strada a nascondino o ad acchiappa-acchiappa mi veniva un desiderio enorme di condividere i loro giochi e di fare una corsa liberatoria.
Leggevo tanto, discutevo di storia e filosofia, mi preparavo con impegno agli esami.
Il rinomato Collegio Santonoceto, una scuola privata che raccoglieva ragazze da tutta la Sicilia, mi aveva accolta e preparata per poter proseguire gli studi con l’Università o per provare ad iniziare qualche esperienza lavorativa, ed io lo frequentavo con profitto. La chiesetta che si apriva ogni giorno alle nostre preghiere era piccola ma assorta, le classi erano ampie e luminose, il grande salone dove si svolgevano gli incontri con i genitori era elegante e pulitissimo, il cortile enorme ci accoglieva durante la ricreazione e permetteva le nostre ronde in cerca di movimento e libertà.
Una volta l’anno, a giugno, vi si svolgeva un fantastico saggio ginnico e di danza con brani classici e le coreografie dell’insegnante Ida Pennisi, donna bella ed energica, vissuta a Roma e trapiantata ad Acireale per amore. Ricordo ancora il suo passo veloce ma elegante nei corridoi dell’istituto o durante le ore di ginnastica in cortile.
Il Santonoceto era ospitato in un grande palazzo a due piani che si affacciava sul corso principale della città.
Passato il portone d’ingresso, c’era un grande atrio con l’imponente scalinata che portava al primo piano, dove si trovavano le camere delle suore e le camerate per le ragazze “interne”. Andando in avanti, si usciva in un chiostro con alti alberi e aiuole fiorite e qui si affacciavano la stanza esageratamente pulita dell’economa, Suor Clemens, alcune aule della scuola materna ed elementare, il salone del teatro, la stanza della direttrice, Suor Ida e quella di Suor Vincenzina, da cui spesso provenivano le note allegre del suo pianoforte. Era giovane la nostra insegnante di musica e ci faceva cantare canzoni gioiose, con cui accompagnavamo la Messa, rendendola un momento festoso e coinvolgente.
Un altro ingresso portava nel cortile, vicino all’edificio delle scuole medie, del magistrale e del liceo classico rumoroso delle nostre chiacchiere e frizzantino delle nostre risate. Qui vi era la mia aula; qui io e le mie compagne frequentavamo il quarto magistrale ed eravamo ormai prossime all’esame finale. I quattro anni precedenti avevano creato dei bei legami di amicizia e affetto che ci avrebbero accompagnato negli anni a venire…
La nostra insegnante di Lettere era una giovane suora torinese, Suor Emanuela, impeccabile nella preparazione e abile nella trasmissione dei contenuti. Ci incantava con spiegazioni brevi, concise ma ricche di particolare cultura. Quando si rese conto del mio smisurato amore per i libri, non supportato da un adeguato benessere economico, mi mise a disposizione la sua ricca biblioteca personale, prestandomi libri che sarebbero rimasti altrimenti sconosciuti al mio cuore e dandomi spunti eccezionali di riflessione e critica letteraria.
Era la mia docente preferita, rendeva piacevole e coinvolgente ogni lezione, mi faceva amare sempre più la letteratura italiana e straniera.
Avevo una compagna di banco con i capelli neri, lunghi e ricci che di solito teneva legati con un elastico colorato. Sara si sedeva composta e il suo viso lungo e regolare era sostenuto dal collo chiaro e sottile.
Amava disegnare volti di donna dal collo allungato, somiglianti alle affascinanti figure di Modigliani; le tratteggiava con le sue matite dalle punte perfette mentre fingeva di prendere appunti durante le spiegazioni che non le interessavano.
Era un’artista, leggiadra e stravagante, fumava di nascosto nel bagno e amava la musica dei Rolling Stones; io la stavo ad osservare, cercando di far miei alcuni suoi atteggiamenti che trovavo accattivanti.
Era brava in Italiano, materia che prediligeva, mediocre in Latino in cui spesso la aiutavo, assolutamente scarsa in matematica che avrebbe volentieri abolito dai suoi studi.
Altra compagna assai cara per me era Antonella, una ragazza dal fisico robusto ma dal cuore semplice di bambina. Le piaceva scherzare e ogni tanto mi invitava a casa sua, in Corso Umberto, a due passi dalla scuola. Ricordo che i suoi, vedendomi piuttosto magra, mi preparavano pietanze abbondanti e deliziose che io assaggiavo appena. Erano due genitori affettuosi e spesso mi portavano con loro nelle passeggiate domenicali. In macchina io, Antonella e Santo, suo fratello minore, passammo tanti momenti spensierati e allegri.
Quando da scuola tornavo a casa, nel mio rassicurante ambiente familiare, trovavo la tavola apparecchiata e la famiglia riunita attorno ad essa e mi sentivo serena fino a quando non arrivava l’ora di andare a dormire. Guardavo a lungo la televisione, soprattutto i film, ma appena a letto mi ritrovavo sola con i miei pensieri: la vita e la morte, la sensazione di sprecare gli anni più belli in una routine che mi soffocava, l’amore e la sua assenza, le emozioni proprie della mia età represse in un piccolo paese di poche vedute, la paura del futuro e allo stesso tempo la speranza che potesse essere avventuroso, eccitante e luminoso. I miei pensieri si muovevano a ritmo veloce e mi portavano a riflessioni che spesso oltrepassavano i limiti della mia età e valicavano la quotidianità.
In fondo, potevo ritenermi fortunata se ripensavo al lungo elenco di notizie del telegiornale: incidenti automobilistici, persone sfollate per disastri ambientali, profughi che scappavano da situazioni invivibili, malati che attendevano una cura efficace, disoccupati…ma il mio tempo era una grande opportunità che non volevo sprecare.
Il mio cervello non voleva fermarsi e l’insonnia era la mia compagna notturna. Avvertivo una tristezza profonda, talvolta confusa con la paura perché mi ponevo troppe domande sul senso della vita. La radio, mia instancabile sorella, cercava di farmi rilassare con le canzoni dei cantautori degli anni ’70 e le battute dei vari presentatori impegnati con gli esaltanti esperimenti di radio libere. Di mattina andavo a scuola e nel pomeriggio mi rifugiavo in camera mia per studiare.
Faceva un gran caldo, sebbene fossero ancora i primi di giugno e dalla finestra arrivava odore di carne arrostita sulla brace. Spesso, per riposarmi dallo studio in vista dell’esame ormai imminente, salivo sul terrazzo di casa da dove vedevo l’Etna adagiata sui vigneti operosi e il mare all’orizzonte che mi invitava suadente fra le sue acque trasparenti.
C’erano, proprio ridosso alla nostra casa, un grande albero di ulivo che era stato colpito da un fulmine e mostrava il suo tronco mutilato da un lato e rigoglioso dall’altro, e un fico con le sue foglie che si muovevano ad ogni sussurro d’aria e con i frutti già evidenti. Respiravo l’aria afosa, pensando con angoscia ai giorni di studio che incombevano e sperando che tutto si svolgesse in fretta ma con soddisfazione.
Io e le mie compagne studiavamo a casa e qualche mattina ci vedevamo a scuola per ripetere e fare il punto sulla nostra preparazione.
Negli anni ’70 per l’esame finale si sceglieva una materia su cui ci si sentiva ben preparati e, dopo lo scritto d’italiano, ci veniva assegnata una seconda materia dalla Commissione d’esami. Io avevo scelto la Storia come prima materia perché da sempre mi appassionava e mi coinvolgeva con l’avvicendarsi di fatti e personaggi determinanti per il destino dell’umanità.
Qualche mattina studiavo con Angela Brasso, una mia compagna delle medie che frequentava la scuola pubblica; ripetevamo alternandoci e ci interrogavamo a vicenda. Lunedì avrebbero messo esposto l’elenco degli alunni ammessi agli esami e lei sarebbe andata a vederlo. Quando fu lì, mi telefonò turbata per dirmi che il suo compagno di classe Nino Corona risultava non ammesso ed era andato via imprecando. Lo conoscevo di vista perché era un ragazzo del paese limitrofo e spesso lo vedevo sfrecciare con la sua moto e i lunghi capelli al vento per la Via Nazionale.
Mi faceva rabbia che i professori non l’avessero ammesso agli esami.
- Perché – pensavo – non dargli la possibilità di fare gli esami?
Nino era un giovane vivace e inquieto, che credeva nella vita ma respingeva i sistemi morali e sociali precostituiti, che studiava con passione letteratura e filosofia rendendosi conto che il concetto comune di moralità pubblica e privata non bastasse più a indicare una condotta da seguire valida per tutti. Studiava la storia dell’uomo come dominatore della terra e protagonista di grandi gesta nei secoli passati, e si scopriva aggrappato ad un ideale di vita libero dai pregiudizi e da ogni sovrastruttura. Era figlio dei suoi tempi e a volte si chiudeva in un silenzio inquieto e risentito, carico di complessi, di rancori per i sogni che gli crescevano dentro e la convenzionalità della sua vita.
Il sabato si riuniva con altri ragazzi in uno scantinato sotto un bar, dove a volte qualcuno si esibiva cantando con un vecchio microfono scassato, la faccia bagnata di sudore e la voce rauca. Sotto la lastra di ghiaccio della cultura accademica e ufficiale vedeva un’acqua bollente fatta di protesta sociale e rivolta di pensiero. Aveva letto della beat generation e il suo cuore si era infiammato.
Si sentiva spesso attanagliato dal conformismo soffocante di una società di massa sempre più anonima ed impersonale. Anche gli altri che si riunivano con lui erano per lo più ragazzi più avanti del loro tempo, maturati in fretta per un’esistenza intrecciata a quella degli adulti, partecipi a ciò che succedeva nel mondo attraverso la televisione e i giornali, l’informazione superficiale e grossolana di cui si servivano gli adulti medi. Insieme bevevano caffè o intrugli disastrosi e discutevano a volte fino all’alba.
Leggevano Baudelaire e Poe, ma le parole non li interessavano come concetto o come sonorità bensì come possibilità di richiamare stati d’animo, situazioni e gesti primordiali, allo stato puro. Si ripiegavano su se stessi per potersi liberare dalle costrizioni della realtà contemporanea.
Nino assorbiva ogni parola, ogni emozione di quelle serate e le rielaborava facendole proprie.
Accanto a lui c’era sempre Mary, una graziosa mora con un’infinità di riccioli come un mare di onde scure. La sua risata era pronta e spontanea, con un’espressione talvolta maliziosa. Lo guardava affascinata, con gli occhi blu luminosi e ingenui, come se fosse l’unico ragazzo nella sala e stesse dicendo cose meravigliose.
La sera spesso Nino la portava sulla spiaggia a guardare il mare. Sentivano le onde cullarli dolcemente con la loro musica, accarezzarli con il loro dondolio, impregnarli con i loro freschi profumi.
Si accovacciavano vicini e lui le si metteva alle spalle come a proteggerla da ogni cosa, la stringeva e le parlava dei suoi sogni, le parlava di un mondo diverso, fatto di libertà, di condivisione, di gente impegnata a migliorare il mondo. La teneva stretta per ore e il suo amorevole abbraccio le faceva capire che la tenerezza e l’affetto, per lui, erano tanto importanti quanto l’intimità fisica che talvolta condividevano. Le baciava il viso, le mani, i capelli e ogni volta le ripeteva quanto era bella e quanto lui adorasse ogni cosa di lei; glielo diceva con la sua voce roca, dolce e un tono quasi solenne In quei momenti lei era fiera di quel suo ragazzo così bello e così pieno di ideali, un ragazzo diverso, fragile ma meravigliosamente deciso e forte.
Mentre tornava a casa Nino pensava a suo padre…Non era il figlio che lui desiderava, ma gli voleva un bene dell’anima. Il padre era un gran lavoratore, onesto e instancabile. Da anni faceva il postino nel paese, familiare con tutti; in più, quando aveva fatto il militare aveva imparato a fare le flebo in vena e quindi, al bisogno, molti lo chiamavano a casa per ogni necessità di punture endovenose.
Ogni mattina, prima di iniziare il suo lavoro di postino, aveva già attaccato una o due flebo agli ammalati che lo chiamavano, per la maggior parte amici o conoscenti, che cercava di tirare su con i suoi modi scherzosi o con una barzelletta.
Come faceva a dirgli: – Papà, non mi hanno ammesso agli esami?
Immaginava gli occhi delusi, amareggiati, se li sentiva addosso, quasi ad accusarlo.
- Vedi, te lo dicevo…la tua filosofia, il tuo ribellarti, a questo sono serviti! Ora hai perso un anno! Eri così bravo fino all’anno scorso, sempre garbato, educato, come ti ho insegnato. Ora invece sempre contro tutti, mai tranquillo…e questi sono i risultati. Nessun professore ti ha difeso: troppi scioperi, troppi cortei!
Dopo aver visto le ammissioni, Nino aveva fatto la strada di ritorno e si era fermato vicino casa, la osservava a distanza. Gli angoli delle porte cominciavano a scrostarsi e c’erano macchie d’umidità che salivano dalle fondamenta. Il giardino di limoni che le stava dietro, era ricolmo di frutti, piccole bolle gialle succulente che emanavano un profumo aspro e fresco.
Era cresciuto in quella casa; lì erano i suoi ricordi più belli, i giochi, i sogni. Poteva sentire il profumo della salsa di pomodori e delle melanzane fritte che la madre preparava per il pranzo: il suo piatto preferito!
Per un motivo inspiegabile si era ritrovato con gli occhi pieni di lacrime, aveva girato la moto e si era diretto altrove.
Un’idea nuova, terribile gli era nata in testa e voleva assecondarla a tutti i costi.
No, Nino, l’energia della rabbia e dell’odio non ti porterà da nessuna parte, solo quella del perdono riuscirà a cambiare la tua vita in modo positivo! Fermati e perdona te stesso!
Superò magazzini di pietra e campagne contornate da bouganvilles e ginestre quasi sfiorite e si fermò a mangiare un panino nel bar di un rifornimento. Dopo aver bevuto un caffè, si fece riempire un bidoncino di benzina da cinque litri e prese la strada che portava sull’Etna.
Man mano che saliva, seguiva i tornanti e le curve sempre più impegnative. Vedeva scorrere vigneti e alberi d’ulivo, poi iniziarono castagni e querce. L’Etna lo invitava, suadente come una ninfa leggiadra e lui le andava incontro senza pensieri, senza ricordi. Le ginestre, quando raggiunse i mille metri, erano ancora fiorite e profumate e si alternavano a muschi e rovi.
Trovò una radura che gli sembrò proprio adatta: era brulla ma luminosa. Fermò la moto e scese. C’era un’arietta frizzante che lo investì e si alzò d’istinto la cerniera del giubbotto. Con il bidone in una mano e l’altra in tasca, avanzò in avanti a testa china, con l’aria che gli pungeva la faccia e gli scompigliava i capelli.
L’avrebbero pagata quei bastardi dei professori! Glielo faceva vedere lui quanto valeva! Il cielo grigio gli ricordava quello autunnale che precedeva un bell’acquazzone; un grosso uccello gli passò sulla testa, con le ali immobili, spinto dal vento. Giunto al centro della radura si fermò; l’aria era umida e fredda. Alzò il bidone con la benzina, tolse il tappo e la lascio scorrere sui capelli, sui vestiti, attorno a lui. Davanti, in giù, vedeva il mare; si girò alle spalle e osservò ancora una volta l’Etna in tutta la sua maestosità. La figura di Mary gli passò davanti come una farfalla ma la ignorò. Doveva lasciare un segno, doveva costringere quei boriosi professori a riflettere, a pensare al male che potevano fare con un voto negativo! Vermi schifosi!
Dopo essere stato qualche minuto a occhi chiusi, tirò fuori l’accendino e si diede fuoco.
Per un attimo tutto si fece fiamma e luce: il dolore si fece atroce, insostenibile e Nino cominciò a contorcersi come a voler uscire dal corpo cui era irrimediabilmente incatenato. Subito dopo tutto diventò buio. Pochi secondi e si svegliò per le voci e le grida che sentiva intorno. Era esanime e cosciente allo stesso tempo. Una coppia di turisti che passava casualmente aveva visto quell’orribile spettacolo: un ragazzo con un bidone in mano si versava del liquido addosso e si accendeva orribilmente come una torcia!
Raccapricciati da quella scena inverosimile, erano scesi, avevano afferrato un lenzuolo che avevano in macchina ed erano corsi verso il ragazzo, cercando di spegnere le fiamme. Urlavano e cercavano di vincere l’impressione e il senso di vomito che li vinceva. Urla, odori nauseanti e terrore per ciò che vedevano li guidarono nel tentativo di salvare una vita. Lo misero in macchina e partirono a velocità massima verso Catania, verso il più vicino centro ustionati.
Povero, piccolo, indifeso incosciente! Mi si spezzava il cuore al pensiero di ciò che eri e che potevi diventare e al pensiero di com’eri adesso: un tizzone nero, incosciente che atrocemente agonizzava e lottava disperatamente contro la morte. D’accordo non eri stato ammesso agli esami e tu volevi finire la scuola, realizzarti in un altro modo, chiudere quel capitolo…ma si poteva pensare a un gesto tanto folle?
Mentre pensavo a lui sdraiata sul letto della mi stanza, ascoltavo Bach e mi strizzava l’anima il pensiero che Nino non avrebbe più ascoltato la sua adorata musica, non avrebbe amato più la sua Mary che seduta a terra davanti al reparto soffriva le pene dell’inferno, non avrebbe…quante cose non sarebbero state più sue!
La madre non aveva più lacrime, il padre era invecchiato di colpo di vent’anni per lui che aveva deciso di darsi fuoco il giorno della sua festa, il giorno del suo onomastico. Tutto il paese si era fermato, annichilito dalla notizia e in attesa di ulteriori risvolti. Se ne parlava a bassa voce, quasi per paura di pronunciare parole di troppo. Un fatto atroce, che aveva scosso tutti e mosso a pietà l’intera comunità. Nei pochi attimi di lucidità, poiché lo tenevano pietosamente sedato, Nino cercava di lottare disperatamente contro la morte, chiedeva aiuto, implorava il padre di salvarlo e gli chiedeva perdono. I medici facevano tutto il possibile, ma le ustioni erano su tutto il corpo e gravissime. Implacabili. Mortali.
Dopo due giorni ci aveva lasciati. Era partito per l’ultimo viaggio, con la moto, i lunghi capelli sulle spalle e la sua chitarra a tracolla. Tutti piangemmo per te, giovane fratello, cuore generoso; per te e per i tuoi familiari: tuo padre inebetito dal dolore, tua madre quasi impazzita, tuo fratello che sentiva la tua voce chiamarlo anche ora che non c’eri più.
Avevo comprato l’ ” Ora ”, il giornale di Palermo. C’era un articolo su Nino, un’aspra condanna verso la scuola e gli insegnanti sordi ad ogni dialogo. Nella lettera ai genitori aveva concluso dicendo: — Perdonatemi, non sono un vigliacco, faccio questo contro l’ingiustizia sociale……E infine, sui manifesti di lutto incollati ai muri delle case il tema della giustizia violata ritornava “Giovane, bello, generoso, amava la vita e la giustizia ma, in un momento di sconforto…”,
Ancora oggi che lo ricordo a distanza di quarant’anni le lacrime solcano il mio viso e sono incredula per una morte tanto atroce quanto inutile.
Ti lascio al tuo quieto riposo, dolce fragile Nino, con la poesia che allora ti dedicai:
Divorato
da un vortice
di fiamme
sei
morto
per donarci
la possibilità
di essere
ancora
vivi . 20 Giugno 1973
Era veramente duro ritornare a riaprire i libri dopo l’accaduto. Quando nel cuore vi è sofferenza non va ignorata perché non scomparirà se fingiamo che non esista; essa deve essere accettata e metabolizzata.
Così, quasi a lavare il dolore, nel pomeriggio avevo fatto il primo bagno nella spiaggetta di Stazzo: l’acqua era ancora fredda ma rigenerante e il sole mi dava forza ed energia. Stavo un po’ ad osservare la spiaggia e camminavo a piedi nudi sulla battigia: le sensazioni gradevoli come il contatto dei piedi con i sassolini combattevano con i ricordi spiacevoli dei giorni precedenti.
Nei giorni successivi molto studio e stanchezza: Dante, storia e filosofia per almeno quattro ore al mattino e altrettante nel pomeriggio. Ogni tanto riuscivo a fare un bagno, se qualcuno mi dava un passaggio per arrivare alla spiaggia. Erano momenti di refrigerio e rilassamento che servivano ad allentare la tensione degli esami imminenti.
Finalmente l’uno luglio lo scritto d’italiano: un tema storico sull’undicesimo articolo della Costituzione Italiana “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa per gli altri popoli”. Per me fu abbastanza semplice commentare e riflettere sul rifiuto della guerra e delle sue gravi conseguenze.
Il due luglio ci fu il compito di latino: una versione complessa e lunga, per fortuna tutta completata. Ora ci aspettavano gli esami orali.
Ebbi un ottimo risultato e salutai insegnanti e compagne con leggerezza. Spesso ciò che guardiamo attraverso la nostra limitatezza, è del tutto parziale: in realtà il loro ricordo, misto al rimpianto di quei tempi, mi avrebbe accompagnata sempre.
I nostri giovani cuori emanavano musiche nuove e pure; la vita ci chiamava con le sue lusinghevoli attrattive: il mondo era nostro, il futuro ci incuriosiva e ci apparteneva.
Una storia che intensamente ti coinvolge come se il tempo non fosse passato. La cura delle descrizioni e le emozioni forti che l’autrice sapientemente regala al lettore, fanno rivivere con intensità un triste fatto accaduto con dolore e rinnovata speranza in un futuro migliore.
L’autrice descrive vicende passate con dovizia di dettagli,risvegliando così emozioni profonde soprattutto in chi ha vissuto esperienze di questo genere.
L’autrice descrive efficacemente i luoghi, suoni e colori della sua città, permettendo al lettore di riconoscerli in maniera inequivocabile. I sentimenti positivi, quali l’amicizia con i coetanei e l’ammirazione per gli stupendi paesaggi siciliani, si mescolano alle ansie legate per il periodo di preparazione agli esami. Infine, il dolore per una inattesa tragedia: un segno indelebile nel cuore dell’autrice e di tutti coloro che amano la vita.
Intelligenza e sensibilità accentuata dalla tragica vicenda il cui protagonista spinge alle estreme conseguenze l’insofferenza di una generazione che si sente derubata del suo tempo per la cronica mancanza di opportunità, quindi oggettivamente impedita ad esprimere le proprie capacità ostacolate se non irrise da un tessuto sociale retrogrado e ancora incapace di cogliere il nuovo, ancorché di favorirlo e incoraggiarlo. Scrittura scorrevole ed efficace con inevitabili toni di malinconia per il tempo che fu.
Quello che leggiamo prende vita davanti ai nostri occhi: la città di Acireale, il Santo Noceto, i paesaggi familiari alla scrittrice, i suoi compagni coetanei. Quello che leggiamo ci fa sentire l’odore dei limoni e provare le stesse emozioni della scrittrice. Chi è di questa generazione poi si immedesima nei sogni e nella ribellione dei ragazzi che avrebbero voluto cambiare il mondo. La morte di Nino appare così assurda, così struggente; NIno, che futuro lo aspettava? come sarebbe oggi? avrebbe realizzato i suoi sogni? Purtroppo non lo sapremo mai e questo ci interpella sulla sensibilità a fior di pelle dei ragazzi, la stessa di quelli di oggi, il cui estremo disagio spesso non viene percepito come si dovrebbe.
Un racconto che trasporta chi legge accanto all’autrice e ai personaggi, coinvolgendo e dando ottimi spunti di riflessione. Splendida descrizione dei luoghi vissuti e delle emozioni trasmesse al lettore con immediatezza ed efficacia.
Quando le descrizioni di luoghi, sensazioni, odori ed emozioni sono così dettagliate, l’immaginazione prende facilmente il sopravvento e inconsapevolmente ci si ritrova dentro al racconto. Coinvolgente e toccante, la storia invita a riflettere sull’importanza della vita e sulla fragilità dei giovani.
Pina Spinella, anche in questo racconto, seppur breve, dimostra la sua spiccata sensibilità per un tema a lei molto caro: la vita. La vita vissuta in un periodo dettagliato della sua storia personale che coincide con l’ultimo anno della scuola superiore. La memoria storica è esaltata dall’uso sintattico semplice e da un lessico che manifesta appieno la capacità intellettiva dell’autrice. L’estro letterario di Spinella si riflette nella tragica morte di Nino lasciando il lettore dubbiosamente tra varie domande.
Un grande omaggio a Nino, simbolo di molte delle cose che appartengono alla gioventù, compreso l’ignorare di essere giovani. Ho riconosciuto con grande tenerezza tante delle emozioni che ho provato allora e quei rituali che si praticavano nei bar alla vigilia della maturità. In pratica alla vigilia della vita. Un bellissimo modo di raccontarla, la vita. Grazie.
Pina, chi in quegli anni c’era, al Nord come al Sud, si è certamente riconosciuto.
Grazie a tutti per i commenti che hanno colto sentimenti e sfaccettature del mio racconto. Siete davvero lettori “speciali”