Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Pensieri pazzi” di Valeria Tedde

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Una pausa pranzo in compagnia, da quando batteva nella zona di Via Giambellino, non le era ancora capitata, per quanto non è che si trattasse di una vera e propria tavolata. Le parole dei suoi improvvisati commensali arrivavano da dietro una siepe, e non si capiva quasi niente. Maschi. Giovani. Di questo s’era resa conto subito, conosceva bene quelle voci mezze gravi e mezze acute avendo un figlio di 16 anni. In quel momento suonavano basse, piene di borbottii e risatine. Per un attimo il senso del dovere ebbe il sopravvento e Gabriella si domandò se fosse il caso di palesarsi, poi ricordò a se stessa che era in pausa e con soddisfatto compiacimento sistemò le tonde natiche sullo sgabello, tirò fuori dalla borsa il panino da cui fuoriuscivano filetti di peperone e salsicce, e lo addentò con gusto. E che cavolo! La pausa è sacra in tutte le professioni, anche nella mia, si disse, guardando il cielo bianco e azzurro. Bello, pensò tra sé, la roba stesa in balcone asciugherà di sicuro e domani quasi quasi lavo i vetri. Non era male quella zona. Nei primi mesi non sapeva dove mangiare. Aveva provato alla tavola calda di Mohab un egiziano il cui locale si trovava a pochi metri dalla sua postazione. Di bello c’era che aveva per mezzora un tetto sulla testa e un tavolo sotto cui sistemare le gambe gonfie, di brutto che tra gli spaghetti e la cotoletta era un viavai di nuovi e vecchi clienti: in pratica non riusciva mai a staccare completamente. In seguito, grazie anche al fatto che a fine giornata faceva la spesa nei negozi della zona, aveva scoperto quei giardini tra i palazzi e una scuola superiore, pieni di arbusti, siepi, e così, arrivata la bella stagione, era diventato quello il luogo dove staccare a metà giornata. Apriva lo sgabello da pesca, parte della sua attrezzatura da lavoro, in un piccolo slargo tra un gruppo di basse conifere, tirava fuori il panino e si gustava il suo momento di pausa. Lì nessuno poteva vederla e comunque cosa avrebbero visto, si chiedeva, quando decideva di scambiare due parole con se stessa: una donna di mezza età in pausa pranzo. Sì, era in minigonna e calze a rete, ma di donne in minigonna e calze a rete se ne vedono ovunque, negli uffici, nei negozi… Lei non era certo una di quelle che si presentano nude sul posto di lavoro, non ne aveva bisogno, grazie a Dio, aveva una clientela regolare che la conosceva bene. Chiaro, ogni tanto Claudio le chiedeva di togliere, mostrare, esagerare ma così, un po’ per ridere, un po’ per fedeltà alla professione, lei s’era sempre rifiutata e lui non aveva insistito. Bravo ragazzo. Aveva capito perfettamente la sua situazione, con due figli in giro per la città bisognava mantenere un minimo di decoro… non che fosse una metropoli ma era lì che vivevano e studiavano Marco e Stefania. Sì, Claudio era bravo, non come quegli albanesi. Quei russi. Gentaglia, concluse e come ogni volta al pensiero dei papponi russi e albanesi, Gabriella scosse la testa, piena di riprovazione. Ruminando il suo panino, ascoltava i suoni di natura e di città, il cinguettio dei passeri, il traffico a due passi, le chiacchiere dei ragazzotti dietro la siepe, finché una frase tra le tante le punse l’orecchio con la ferocia d’una vespa. Lo vuole, ti dico che lo vuole, diceva un tizio che non poteva avere più di quattordici anni, Gabriella chissà perché se lo figurò secco, pallido e con mento aguzzo. Qualcuno altrettanto giovane rispose con tono sicuro: ma certo quando si vestono in un certo modo… poi ti vengono a dire che sono innamorate, ma che cazzo dicono? Ah, ah ah! Tutto per farti sentire in colpa, tutto per incastrarti. Scopatela e poi mollala… Ah, ah! Hai ragione, rispose il primo. Ma l’hai vista Sara in quelle foto? Eccome se l’ho vista! Quasi si vedeva tutto! Aspetta che te la invio. Ah, ah. Tutte uguali. Sono tutte uguali. Ah, ah ripeté Gabriella tra sé. Riprese a masticare. Lo sguardo perso tra i fili verdi d’erba nuova prestava orecchio senza volerlo a ciò che veniva detto, ora più che altro opinioni e commenti su seni, sederi, espressioni del viso. Era l’età. Era il mondo che andava così. Erano gli uomini. Era il mondo degli uomini e delle donne. Era la vita. Gabriella masticava. Un raggio di quel timido sole lombardo le illuminava i glitter dell’orlo della gonna facendoli risplendere come lacrime. Li osservò meravigliata: belli, concluse, poi voltò il viso verso il fogliame che nascondeva il gruppetto di ragazzi. D’un tratto le era giunta irresistibile la voglia di abbinare dei visi a quelle parole e così si avvicinò agli aghi di pino, concentrò la vista e seppur non nitidamente apparvero: uno aveva davvero una faccia aguzza e pallida, uno era biondo e slavato. Ne notò altri due, capelli accuratamente pettinati, sguardi indifesi e aggressivi insieme. Poco più che bambini. Ma di che parlavano? Di donne. Ma che ne sapete? Si dovette trattenere dal girare attorno alla siepe per porgli direttamente la domanda, che ne sapete, urlò quindi tra sé, come faceva quando decideva di scambiare due parole con se stessa. Voltò di nuovo le spalle e si assestò sullo sgabello. Stavano arrivando, veloci e inesorabili, con il loro frullare disordinato, quelli che aveva ribattezzato “pensieri pazzi”. Sospirò. Odiava i pensieri pazzi. Inutili e dannosi. Accavallò le gambe e si accinse ad aspettare che quello sbattere folle avesse termine, cosa che capitava ogni volta, si trattava solo avere pazienza, attendere con calma che tutto tornasse al suo posto e che la mente si rimettesse a riposo, come piaceva a lei: ferma, immobile, inattiva. I minuti passavano ma non succedeva nulla, e in più i pensieri pazzi, stimolati dai discorsi di quei giovani imbecilli, quei possibili futuri clienti, formulavano spontaneamente risposte, provocazioni, battutine che premevano sulle sue labbra per uscire, precipitarsi verso di loro e aprirgli gli occhi su mondi sconosciuti. Magari insieme a un bello schiaffone da madre severa. Zoccola e madre severa. Ora neanche riusciva più a mangiare, mannaggia a loro, e puntuale, immancabile, il pensiero pazzo più pazzo, il peggiore di tutti: lei stessa che diventava osservatrice esterna della sua vita, senza i filtri e i ragionamenti strani e intorcinati che anni prima aveva elaborato con fatica. Via, sparito tutto. Nel cono di luce della verità lei non era altro che quella che era: ex impiegata, disoccupata ora puttana. Senza ombre, senza chiaroscuri ecco l’umiliazione di quel chiamiamolo lavoro, ecco la miseria della dignità buttata nel cesso, ecco il dolore al cuore per ogni bugia detta a chi per amore fingeva di crederci. E in più, grande, a lettere cubitali, sullo sfondo la scritta: quanto potrò ancora andare avanti? Gabriella subì l’attacco del pensiero pazzo più pazzo con stoicismo. Sarebbe andato via anche quella volta. Vero, erano pensieri odiosi e bastardi e in più, nel concreto, avevano la fastidiosa capacità di paralizzarla. Ad esempio in quel momento le impedivano di fare quello che aveva una voglia matta di fare e cioè uscire allo scoperto, girare attorno alla siepe e pigliare a ceffoni i quattro dementi. E poi dirgli qualcosa sulle donne, qualcosa che mai quella Sara di cui parlavano racconterà loro, qualcosa che si trova proprio tra quei seni dalla forma perfetta, nel cuore, perché la prima cosa che differenzia una donna da un uomo è che il cuore viaggia sempre insieme ai pensieri e confonde tutto, ammanta ogni cosa del suoi colori, rosa, rosso. A volte nero. Le donne spesso non dicono nulla perché è difficile trovare parole per descrivere quel guazzabuglio di calcoli, ragionamenti ed emozioni dove a volte tira l’uno a volte tira e l’altro. Come potrebbe Sara spiegare a mento aguzzo che con quelle foto sul cellulari sta cercando l’amore? Chi le crederebbe? Eppure è lì, chiaro come il sole. Gabriella si alzò per dominare l’agitazione, mentre continuava ad ascoltare di Sara, Sara, Sara. Sara che sarebbe potuta essere sua figlia. Tutte uguali… Ironia della sorte la sua Stefania era talmente dignitosa, talmente trasparente e seria che Gabriella l’amava come il cuore del suo cuore e guardandola si domandava come avesse potuto proprio lei mettere al mondo una creatura così. Non siamo tutte uguali, ricordatevelo, ve lo dice una che è zoccola e che le zoccole le conosce bene, una che fa parte di quel gruppo di donne con la soglia del pudore bassa, di donne che giocano volentieri alla seduzione, di donne che in un mondo come quello di oggi che ti urla che la sessualità è un diritto, che va vissuta, che si può fare tutto fin dall’adolescenza, camminano sul ciglio del burrone e ci vuole un attimo per cadere, e poi, da giù, hai voglia a gridare. Hai voglia… infatti dal fondo del baratro urlava anche lei tutti i giorni, ma tra sé e sé, come aveva imparato a fare anni prima, quando aveva iniziato a scambiare due parole con se stessa, quando per sopravvivere s’era duplicata, da una parte Gabriella puttana dall’altra Gabriella madre, e grazie a quel trucco, le sue grida le udiva solo lei e si dava pure delle risposte. Pensieri pazzi inutili e dannosi. Pensa ad altro Gabriella, ordinò a se stessa, pensa ad altro. Quel pomeriggio avrebbe incontrato, una decina di clienti in tutto, l’elenco si presentò davanti ai suoi occhi, com’era sul foglio di excel che le aveva chiesto Claudio, colonne con nomi e cognomi, abitudini, vizi, manie, pagamenti. Li conosceva tutti bene, un paio le erano anche affezionati. Come succedeva all’incirca una volta alla settimana da quando s’era data alla prostituzione, ormai dieci anni, era stata fortunata, subito con Claudio, un italiano, si allontanò di qualche metro e vomitò. Si pulì la bocca. Si ricompose. Chiuse il suo sgabello, lo infilò nella borsa capace, poi decise che quel giorno sarebbe stato un giorno di regali. Si voltò e con passi lenti da sonnambula girò attorno alla siepe. La faccia dei tre, a bocca aperta nel veder una puttana vera, in carne ed ossa ad un metro da loro, valeva una bella risata, ma Gabriella allontanò l’ilarità con fermezza. Serviva la rabbia, il senso dell’umorismo, che pure emergeva trionfante in quella scena, meglio lasciarlo a dopo. Individuò mento aguzzo, lo raggiunse, allargò il braccio, puntò il piede e gli scaraventò sul viso la mano aperta in una sberla come di sicuro non ne aveva mai ricevuto.

“Idioti!” sibilò e girati i tacchi tornò al lavoro.

Schiaffo più insulto, un gran regalo tutto da capire.

Per Sara, per Stefania, per me.

Pensieri pazzi, alla prossima.

Si sentiva tranquilla. La mente a riposo.

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3 commenti »

  1. Bel racconto Valeria.Scritto bene, crudo ma mai freddo. E grazie alla protagonista di quel regalo liberatorio

  2. Valeria, sto tentando di leggere tutti i racconti; alcuni li inizio soltanto, altri li finisco per accorgermi che manca qualcosa… nel tuo c’è tutto: forza disperazione amore dignità, e una scrittura che si fa leggere fino alla fine senza intralci sintattici e inganni lessicali.

  3. Un neorealismo contemporaneo. Potrebbe essere un corto, e un personaggio così potrebbe essere affidato a una Ferilli, saprebbe interpretare quella umanità e dignità che attraversano tutto il racconto, con in più un pizzico di sana ironia.
    Mi ha coinvolto, mi è piaciuto. Grazie!

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