Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “La Santina” di Cinzia Vanetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Un veloce sguardo allo specchio e Marta è pronta per uscire. Non ha bisogno di soffermarsi sulla sua immagine, sa di essere accettabile  e curata. La sua vita si svolge secondo un rituale fatto di attenzioni per se stessa e per tutto ciò che la circonda, soprattutto per le persone che la  incrociano anche casualmente  e che ricevono da lei un trattamento sempre speciale. Marta ha settantadue anni ma non si sente vecchia, non ha rimpianti e ama affermare che non tornerebbe indietro neanche di un giorno. Ha passato la vita accudendo e lavorando, lavorando e accudendo.

Nata in una famiglia contadina, prima di sette figli, già da bambina badava ai suoi fratelli che ricambiavano le sue attenzioni con sorrisi  sdentati e sguardi colmi di affetto. Marta era una bambina di buon animo con un portamento già eretto ma non altezzoso, sempre pronta a farsi avanti e a fare la sua parte senza, anzi addirittura  prima che le venisse chiesto.  Le persone che le stavano intorno si accorgevano di questa sua predisposizione al bene tanto che in paese l’avevano soprannominata “la Santina”. Marta sentiva di suscitare negli altri sentimenti di benevolenza e cresceva restituendo l’amore che riceveva senza rendersi conto che era da lei che partiva.

Le suppellettili della sua casa contadina erano quelle essenziali: una grande stufa per scaldarsi e cucinare, un tavolo con le panche intorno, la madia per le stoviglie e le provviste, un lavandino di pietra con i secchi per l’acqua che si prendeva dal pozzo nel cortile. La mamma le aveva infuso con i suoi gesti quotidiani che lei fin da piccolissima osservava e imitava, una grande propensione per l’ordine e la pulizia che considerava il punto di partenza per una vita dignitosa. Marta la guardava consumarsi le mani lavando e sgrassando le loro povere cose e i suoi figli e la mamma, sentendo i suoi occhi addosso, le diceva orgogliosa e convinta: “Poareti si ma neti come i siori!”  

Marta aveva frequentato la scuola fino alla quinta elementare e in qualche modo; si sa che anni son stati quelli fra il ’43 e il ’48, fra la guerra e il dopo guerra, ma intelligente e diligente com’era aveva imparato bene a scrivere e a leggere e a fare almeno “i conti della serva”.  A quattordici anni  entrò alla Filanda:dieci ore di lavoro in un ambiente umido e rumoroso. Lei non badava all’ambiente e alla fatica, si sentiva forte e, soprattutto, amava le compagne. “Cossa te gà sempre da sorider ?” le chiedeva Lina che aveva sempre il broncio ma poi Marta la contagiava con il suo buon umore e tra “tose”  si facevano  confidenze,  gran risate e si divertivano nonostante tutto.

A diciassette anni l’incontro con l’amore della sua vita. Alla festa del paese i giovanotti si sfidavano all’albero della cucagna, un palo sporco di grasso in cima al quale venivano legati salumi e prosciutti. Mario veniva da un paese vicino ed era considerato un gran bel fusto. Aveva messo gli occhi addosso a Marta e vinto la cucagna per far colpo su di lei. Si sposarono dopo circa un anno e si trasferirono nel milanese dove trovarono lavoro in fabbrica, Mario in fonderia e Marta in tessitura, e un piccolo appartamento in una casa di ringhiera come quelle della via Gluck di Celentano. Marta pensa spesso a quegli anni, quei vent’anni tra il ’55 e il ’75 vissuti tanto intensamente da essere volati via in un soffio. Ricorda quanto era innamorata di suo marito tanto da coprirlo di attenzioni che lui riceveva senza accorgersi di quanto le costassero. Si alzava sempre per prima in nome dell’ordine e della pulizia e gli faceva trovare pronti la colazione e il pranzo da portare in fabbrica. Dopo il lavoro correva a casa a preparare una cenetta speciale e cercava in tutti i modi di renderlo felice. Ma Mario era ombroso, irascibile, spesso rincasava tardi, si sedeva a tavola senza scusarsi e mangiava senza notare quanta cura lei ci avesse messo nel cucinare. Marta invece di arrabbiarsi cercava in tutti i modi di fargli passare il malumore: gli si sedeva in braccio e lo riempiva di bacini finchè lui finalmente la sollevava e la portava a letto. Nel ’57 nacque Paolo  e Marta pensò che doveva stringere al petto suo figlio per sapere cosa fosse la felicità: amore assoluto, gioia infinita!  Adesso c’era suo figlio prima di tutto e di tutti. Mario riceveva le attenzioni di sempre ma se rientrava di cattivo umore e trovava Marta troppo impegnata col bambino per dedicarsi a lui, sentendosi trascurato si metteva a sbraitare. Le prime volte lei lo guardava con gli occhi colmi di stupore, non riusciva a capire come lui potesse sentirsi estraneo all’appagamento che lei provava per avere un figlio, una famiglia. Poi prese ad escogitare dei piccoli trucchi per fargli sbollire il malumore. Aspettava alla finestra di vederlo arrivare,  gli andava incontro sulle scale e gli metteva il bambino a cavalluccio sulle spalle. Qualche volta preparava una torta e gli diceva di invitare i suoi amici a bere un bicchiere.

Non avevano ancora l’automobile e la lavatrice ma nel 61’, con l’avvento degli acquisti a rate, si comprarono  la televisione e la sera, almeno nei primi tempi, le cose andarono meglio.

 Nel ’61 arrivò anche Laura, bella come il sole.

Fabbrica, casa, marito brontolone, figli, compiti, “Mamma dammi..”, “Mamma fammi…”,  “Mamma, mamma, mamma….”

A Marta sembrava di essere salita su una giostra che girava troppo velocemente ma era orgogliosa e appagata perché faceva la sua parte fino in fondo. Voleva essere soprattutto un esempio per i suoi figli, come lo era stata per lei sua madre.

Nel ’75 Mario finì sotto un tram, uno stupido incidente forse a causa della nebbia; in fabbrica iniziò la ristrutturazione e a Marta che era rimasta vedova prospettarono il part-time invece del licenziamento; Paolo cominciò a partecipare alle manifestazioni studentesche e Laura, in prima liceo, a frequentare i collettivi femministi.

 Mario se ne era andato e lei aveva pianto tutte le sue lacrime. Aveva pianto per lui, per il padre dei suoi figli ma finite le lacrime si era resa conto di non aver perso l’altra metà della mela. Mario era stato suo marito ma non il suo compagno, aveva sempre dovuto tirarselo dietro, badare a lui come a una persona bisognosa di attenzioni e lo aveva fatto con tutto l’amore possibile.

Non era rimasta sola, era sempre stata l’unico adulto responsabile della famiglia e poi doveva pensare ai ragazzi.

Paolo voleva lasciare la scuola e trovarsi un lavoro ma Marta pretendeva per i suoi figli una vita diversa da quella della fabbrica.

Trovò una portineria in centro a Milano dove, oltre ad avere un piccolo stipendio e l’alloggio, poteva fare le pulizie negli appartamenti del condominio e sbarcare il lunario.

I suoi condomini le dicevano che era nata per fare la portinaia: discreta, disponibile, sempre sorridente e tanto, tanto pulita. Lei ricambiava la stima con mille attenzioni per tutti. Si faceva pagare per le pulizie negli appartamenti ma mai per le piccole commissioni  e per i piccoli favori che si offriva di fare prima che le venissero richiesti. Così era stato con la Signora Anna ultraottantenne che stava al 3° piano, Marta le aveva proposto: “D’ora in poi posso portarlo fuori io il suo cagnolino? Ne approfitterei per far due passi!” Preparava la merenda in portineria per i bambini che rientravano prima dei genitori e insieme a Paolo e Laura li aiutava a finire i compiti.

Le faceva piacere vedere quei bambini intorno al suo tavolo mescolati ai suoi ragazzi ormai cresciuti. Le ricordava la cucina della sua infanzia, il grande tavolo con intorno più bambini che adulti.

I ragazzi frequentarono l’Università, Paolo il Politecnico, Laura la Facoltà di Architettura.

Marta era molto orgogliosa per come erano venuti su. Avevano voglia di cambiare il mondo i suoi figli! Parlavano di ideali, di emancipazione, di giustizia sociale. Facevano parte del movimento studentesco e Paolo per un periodo aveva frequentato un gruppo di estrema sinistra ma presto se ne era staccato perché non voleva sentir parlare di lotta armata; non era un estremista e non tollerava il fatto che alle riunioni girassero gli spinelli. Nell’82 prese la laurea, trovò lavoro e si innamorò di Giulia con la quale andò a convivere. Laura finì nell’85 e, dopo aver riempito la testa a Marta  con i suoi progetti di ragazza emancipata che sarebbe andata andare a vivere da sola, avrebbe girato il mondo e non avrebbe mai fatto la serva a nessuno, intendendo con questo che sua madre invece aveva sempre fatto la serva a tutti, era caduta come una pera cotta tra le braccia del suo Lucio col quale aveva messo su casa e fatto tre figli uno dietro l’altro. Lucio per fortuna era  un marito emancipato e faceva tutto insieme a Laura tranne stirare. Marta era convinta che Laura avesse  trovato l’altra metà della mela ed era molto felice per questo. Felice anche di occuparsi dei nipotini nelle ore libere.

Nel ‘ 91 Marta compie cinquantaquattro anni e può andare in pensione: ha lavorato quarant’anni!

Lascia la portineria e lascia Milano per tornare in Veneto dai suoi genitori. E’ sola, è in pensione, i suoi figli hanno le loro famiglie e gli altri nonni che li possono aiutare con i bambini: tocca a lei, la figlia più grande, occuparsi dei suoi anziani genitori. Suo padre nel ’91 ha ottant’anni, sua madre settantasei. Le fanno un’infinita, un’infinita tenerezza! Lui ha sempre parlato poco e preferibilmente solo con sguardi e  cenni del capo. E’ quasi sordo ed è magro, con le braccia nodose come rami e le mani enormi sformate dal lavoro. Lei ha quel suo particolare sguardo di cane buono e l’enorme seno ormai appiattito sullo stomaco. E’ costretta sulla sedia a rotelle dal diabete che se la sta divorando. Quando la riabbracciano i suoi genitori si guardano rincuorati: è tornata “la Santina”.

 

Nel 2009 Marta è di nuovo a Milano  ed è padrona del suo tempo, finalmente è padrona del suo tempo. Non riesce a crederci e se lo continua a ripetere: ”Son padrona del mio tempo!”

Vive sola in un piccolo appartamento arredato con allegria e semplicità. E’ andata all’IKEA con sua nipote Alice,vent’anni, figlia di Laura,  che ha scoperto essere una ragazza sensata e piena di buon gusto: “ Basta che sia semplice! Hai ragione tu nonna, anche a me piacciono le “cose sobrie” come le chiami tu!”

Vede i figli, vede i nipoti ma ormai ha una sola persona di cui occuparsi: se stessa e lo fa con lo stesso piacere con cui si è sempre presa cura di tutti. La cosa che più ama fare, dopo aver riordinato la sua linda casa e aver organizzato il pranzo per se sola o per qualcuno dei suoi di passaggio, è andare ai giardinetti di fronte a casa e mettersi su una panchina al sole, al sole tiepido di questa primavera del 2009 in cui ci siamo incontrate e in cui mi ha raccontato la storia che state leggendo, e lavorare a maglia. Lavorare a maglia le è sempre piaciuto ma una volta poteva farlo solo tra un’incombenza e l’altra: “Finisco un ferro e vado! Ancora due giri e poi pianto lì!” Adesso può lavorare in pace, godersi il sole e osservare la gente. Anche questo ama fare, ama osservare l’umanità che le vive accanto e la osserva non per criticare o per deridere o per giudicare, no! Affatto! La osserva e riflette sul senso della vita.

Lei un senso alla sua vita cercò di darlo subito quando inconsapevolmente da bambina scelse di essere preferibilmente la prima a tendere la mano agli altri e non si era sbagliata, ora ne è certa. Poche volte in tutta la sua vita le è capitato di incontrare qualcuno che abbia rifiutato la sua mano offerta. Forse l’unico, il solo da cui si era inutilmente aspettata di essere ricambiata totalmente, era stato proprio Mario ma forse se non fosse morto giovane, se non avessero avuto solo quei vent’anni da passare insieme, forse le cose avrebbero potuto cambiare, forse. 

La mattina i giardinetti dove si reca Marta sono frequentati da anziani come lei (Come? Lei non si sente affatto anziana!) e anche più vecchi. Alcuni di aspetto curato e ancora vitali  sembrano anch’essi godere del loro tempo e della primavera, altri si trascinano da una panchina all’altra lamentandosi perché al sole fa troppo caldo e all’ombra fa troppo freddo. Marta sorride a tutti e lavora. Ci sono anche  mamme e nonne con la carrozzina o  il passeggino e bimbi molto piccoli. Alcune  mamme fumano stando attente a tenere la sigaretta lontana dalla carrozzina che, pur sedute, continuano a spingere avanti e indietro per non svegliare il piccolo e  intanto tentano di leggere  o di parlare al cellulare. Le nonne in genere prendono su i pargoli per farli baciare dal sole e se li trastullano tra le braccia, avranno tutto il tempo per leggere il giornale o fare altro dopo averli riconsegnati alle madri. Ogni tanto suona un cellulare a una nonna e questa va in panico. Sarà la figlia o la nuora che vuol sapere del piccolo ma è dura tenere un bambino in braccio e frugare in una borsa strapiena!

“O Signur! Mia figlia me ne dirà una fracca perché non rispondo mai e poi se capisce che tengo il bimbo in braccio si arrabbia perché secondo lei lo vizio!”

Nel primo pomeriggio arrivano le badanti. Sono signore dell’Est: ucraine, moldave, polacche che  lavorano nei palazzi intorno e hanno la libera uscita dalle quattordici alle sedici. Si siedono su panchine vicine o sul muretto intorno alla fontana e chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano. Marta non capisce la loro lingua ma intuisce che non si raccontano la loro quotidianità di badanti a Milano ma che parlano della loro vita vera, quella che si svolge nei loro lontani Paesi  dove tornano uno, due, massimo tre mesi l’anno, dove hanno lasciato madri, sorelle, mariti e, soprattutto, dove hanno lasciato i figli. Queste madri hanno dovuto scegliere di lasciare i figli per poterli aiutare ad avere una vita dignitosa e, non potendo abbracciarli,  parlano di loro, parlano di loro e guardano le loro fotografie. Mangiano anche, cioccolatini e pasticcini che si offrono reciprocamente. Sono tutte un po’ cicciottelle.

Marta le osserva con infinita  misericordia.

Queste esuli volontarie la fanno pensare ad uno stormo di cicogne migratrici che ha trovato uno stagno dove stordire la solitudine e diluire la nostalgia.

Marta riprende il lavoro a maglia, osserva, riflette. Si rende conto di aver iniziato una nuova vita, quella della così detta terza età, ed è sicura che la sua esistenza si intreccerà con quella di altri esseri umani ai quali, se necessario, non mancherà di tendere la mano come ha sempre fatto, come è giusto fare per dare un senso alla  vita.  

 

 

 

     

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