Premio Racconti nella Rete 2017 “Casa dolce casa” di Stefania Medda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017In quella casa c’era uno schifo di odore. Non avrei saputo dire esattamente di che cosa si trattasse – sembrava come un odore di marcio – e nemmeno da dove potesse provenire, ma il fatto è che trasudava dai muri; il tanfo, che mi aveva investita appena varcata la soglia, mi aveva provocato un brutto senso di nausea. La signorina Zenatti, neo assunta all’agenzia immobiliare a cui da diverso tempo avevo affidato la gestione della vecchia casa dei miei genitori, mi aveva garantito che sarebbe stato tutto pulito e disinfettato prima della consegna delle chiavi, ma evidentemente aveva detto una balla. Sentivo che non mi potevo fidare di quella donna: troppo giovane, troppo bella, troppo inesperta nel suo lavoro. Tutte qualità che preannunciavano un disastro, dovevo saperlo bene. Il senso di nausea aumentava e mi precipitai ad aprire le imposte nella sala da pranzo, nel salotto e nelle camere: l’aria frizzante della mattina, e la vista delle montagne dalle cime appena imbiancate baciate dal primo sole, ebbe un forte effetto benefico sul mio stomaco. E poi, ero affacciata alla finestra di quella che era stata la mia stanza da bambina… Una lacrima calda mi attraversò la guancia: peccato che la bella sensazione fosse solo momentanea ma d’altronde, le cose belle non duravano certo in eterno, constatai con amarezza. Il malessere che provavo non era da attribuire esclusivamente a quel fetore: mi sentivo a disagio in quella casa semi-spoglia, anche se un tempo era stata la mia. Dove erano finiti i mobili di mamma? Mi chiesi avvilita. Poi, mi venne in mente che io stessa avevo acconsentito affinché gli inquilini che si erano susseguiti in casa dopo la morte dei miei, dieci anni prima, potessero utilizzare la loro mobilia, sicuramente più moderna e chiara rispetto al rustico prediletto da mia madre. Eppure avevo così voglia di essere circondata da quel legno scuro: me lo ricordavo caldo, avvolgente. Ritornai in salotto e lo sguardo mi cadde sugli scatoloni che invadevano il pavimento, una marea di scatoloni chiusi a “doppia mandata” con il nastro carta. E che, per inciso, non avevo molta voglia di aprire: li avevo riempiti in fretta, senza nemmeno scrivere cosa contenesse ciascuno di essi. Li avevo riempiti in fretta per non soffermarmi sul dolore e sulla rabbia che mi stava rosicchiando dentro, come una bestia crudele che si nutriva dei miei organi interni spappolandoli uno ad uno, cominciando dal cuore; e anche perché non avrei sopportato di passare neanche un minuto di più in quella che era stata casa mia e di Marco per ben vent’anni: avevo sgombrato il campo in favore dell’altra, lo sapevo e mi rodeva tremendamente, ma niente avrebbe potuto cambiare le cose. Avevo implorato. Oh, se avevo implorato! Dio solo sa se mi ero umiliata nel tentativo di convincere Marco a tornare su suoi passi. Ma mio marito, ormai non mi amava più. Mi sentivo così sola! Talmente sola, che mi pareva di avere una pietra piantata proprio in mezzo al petto. Addio Marco, addio Milano: avevo pensato di ricominciare dalle Dolomiti, in quei luoghi che mi erano tanto cari da bambina; pensavo di consolarmi respirando aria pulita e familiare, ma evidentemente tutto era cambiato in vent’anni: mamma e papà non c’erano più, e le mie vecchie amiche d’infanzia avevano seguito i mariti andando a vivere in altre regioni d’Italia: Luisa stava nelle Marche, Anna in Emilia e Stefania aveva addirittura espatriato in Svezia. Maria era l’unica rimasta al paese e avevo cercato invano di contattarla al telefono qualche giorno prima, non ricevendo tuttavia nessuna risposta: forse aveva cambiato numero, mentre io provavo e riprovavo con il solito. Guardai speranzosa il cellulare per l’ennesima volta, ma tutto taceva. Nessun messaggio, nessuna chiamata persa. Avevo una gran voglia di fare una passeggiata nei boschi, e di parlare. Sfogarmi. Possibile che le amiche di un tempo si fossero dimenticate di me? Si che era possibile: dopotutto non mi ero fatta sentire molto spesso, e neanche vedere al paese dopo la morte dei miei. Marco, la spugna umana, assorbiva tutto il mio tempo.
Anche io avevo seguito Marco ai tempi che furono; brillante neolaureato in Economia mi aveva fatto perdere la testa e sarei andata con lui anche all’inferno se me lo avesse chiesto. Fortunatamente le offrirono un lavoro in un posto meno caldo, e dopo il matrimonio ci trasferimmo a Milano; dopo poco che eravamo sposati scoprii con immenso dolore di non poter avere bambini a causa di una malformazione, e – Marco aveva giurato che non sarebbe mai cambiato nulla tra noi, che mi avrebbe amato nonostante non potessi dargli un figlio – cominciai a vivere solo in funzione di mio marito: adoravo portargli la colazione a letto, cucinare quello che preferiva, indossare quello che gli piaceva e andare in estasi ad ogni suo piccolo complimento; stirare le sue innumerevoli camice senza essere mai stanca. Ero una marionetta, una felice e consapevole marionetta nelle sue mani. Adottavo la formula di mamma: compiacere tuo marito sempre e comunque. Per lei e papà aveva funzionato per quasi sessant’anni, diamine! Quando mamma se n’era andata per un infarto, papà l’aveva seguita l’anno dopo. Era chiaro che non poteva vivere senza di lei. Ma io, dove avevo sbagliato?
–È capitato Carla, mi dispiace. Tu non hai nessuna colpa, credimi– aveva detto Marco semplicemente una sera, di fronte alla scoperta del suo tradimento.
Capitato? Come se buttare al cesso vent’anni di vita insieme fosse una cosa normale. L’altra era giovane, molto più giovane di lui, assunta di recente dallo studio di commercialisti di cui era socio. Molto in gamba, a sentire lui che le aveva fatto da tutor fino a tarda sera per un mese intero mentre io, ignara di ciò che succedeva sopra quella scrivania, lo aspettavo in piedi per fargli un bel massaggio quando sarebbe rientrato distrutto; e lui si lasciava coccolare come sempre e io non avrei mai immaginato cosa stesse covando dentro. Sapevo che nell’ufficio giravano ragazze giovani e carine – stagiste, per lo più, e io stessa avevo visto sguardi languidi in direzione di Marco o di altri suoi giovani colleghi quelle volte che lo andavo a trovare al lavoro – ma non mi ero mai preoccupata, Marco non me ne aveva mai dato motivo. Oh, se avessi saputo gliela avrei piantata in mezzo alle costole, quella boccetta di olio per i massaggi! E se penso che un paio di volte l’aveva anche portata a pranzo a casa nostra…Che poi Valentina – così si chiamava la stronza – era tutto il contrario del suo prototipo di donna! Bassottina, vestita spesso e volentieri di scuro sicuramente per sembrare magra, visto che a occhio e croce rasentava la 48. E io che mi facevo un mazzo in palestra quattro volte a settimana per non perdere il mio personalino che, a detta di Marco, lo aveva sempre eccitato da morire. Che buffone. Era andato a vivere con lei nel nostro appartamento; all’inizio mi aveva addirittura proposto di tenerlo io, forse mosso da un’inutile senso di colpa: lui in caso si sarebbe trasferito a casa di Valentina. Ma io non avevo accettato, non volevo vivere nella nostra casa senza di lui neanche un attimo in più del necessario; feci fagotto: Valentina non avrebbe mangiato nei miei piatti, e tanto meno avrebbe dormito sopra le lenzuola del mio corredo.
Asciugai gli occhi e mi attivai, cercando di scacciare i brutti ricordi. Feci un giro di ricognizione in casa e naturalmente trovai qualche rogna: il tubo del lavello in cucina perdeva, la vasca da bagno era ammaccata in diversi punti e la finestra del bagno non si chiudeva bene. Telefonai stizzita alla svampita Zenatti chiedendole di mandarmi immediatamente qualcuno che potesse risolvere quei problemi; mi rispose con un odiosa voce smielata e, fintamente costernata, mi assicurò che sarebbe arrivato qualcuno al più presto. Controvoglia, cominciai ad aprire gli scatoloni e a cercare la macchina per il caffè: volevo farmene uno bello forte, una tazza piena che mi aiutasse ad affrontare quella giornata difficile.. Stavo rovistando, quando la faccia di Marco si presentò davanti ai miei occhi, con il suo sorriso seducente che in quel momento mi sembrava soltanto beffardo. Indietreggiai come se avessi visto il viso di Satana in persona, e arrabbiata mi chiesi perché non avessi bruciato quelle foto invece di portarmele dietro; è che la vista di mio marito mi provocava una fitta al cuore, nonostante tutto, e questo mi faceva incavolare. Feci per strappare tutto, ma da brava vigliacca non ci riuscii; non ero ancora pronta a distruggere quella parte del mio passato ma non avevo neanche intenzione di ritrovarmela tra i piedi almeno per i prossimi dieci anni, ammesso che sarebbero bastati a sanare le mie ferite. Decisi di portare quello scatolone in cantina e di nasconderlo alla mia vista una volta per tutte.
Scesi le scale che portavano al seminterrato e a metà rampa mi fermai, storcendo naso e bocca. Quello strano odore che mi aveva accolto all’ingresso in casa si faceva più forte man mano che scendevo. Pensai con un certo ribrezzo alla carcassa di un animale morto, un gatto magari. La signorina Zenatti era spacciata, non l’avrebbe passata liscia, l’avrei costretta a passare in rassegna la casa perché gli accordi non erano stati rispettati. Quasi in apnea, aprii la pesante porta, e cercai l’interruttore che, guarda caso, non funzionava. Avanzai di qualche passo al buio e sistemai lo scatolone in un angolo, l’odore era troppo forte per avventurarsi più in fondo; e poi la cantina era sempre stato un posto pauroso per me, era principalmente papà che ci bazzicava. Però me la ricordavo bene: stretta, lunga e un po’ umida. Nella parete in fondo riuscivo a scorgere la vecchia cassettiera della camera da letto dei miei. Sorrisi. Avrei potuto recuperarla, così, per sentirmi un po’ meno sola e un po’ più a casa.
Appena girai le spalle per tornare sui miei passi, lo sentii. Lieve, ansante. Un rantolo. C’era un animale in quella stanza. Vivo. Mi coprii la bocca col foulard che avevo al collo e avanzai guardinga; in prossimità della vecchia cassettiera feci per allungare il collo ma mi bloccai. O meglio, qualcosa mi bloccò. Qualcosa di terribilmente freddo, che si serrò attorno alle mie caviglie impedendomi di andare oltre. Abbassai lo sguardo e cominciai a urlare, scorgendo con orrore che ciò che mi teneva ferma erano delle mani livide e avvizzite. Riuscirono a farmi perdere l’equilibrio e caddi a terra sbattendo forte la schiena; dopo il primo momento di dolore e sconcerto lottai per divincolarmi, ma riuscii appena a girarmi sulla pancia: annaspavo, come un pesce fuori dall’acqua, mentre quelle mani gelide mi tiravano con forza verso di loro . Io agitavo le mie, in preda al terrore, cercando di individuare con la coda dell’occhio ai lati qualche arnese utile a difendermi, appoggiato al muro. Scorsi un asta di ferro, che altro non era che lo scheletro di un abat-jour, ancora con la lampadina avvitata in cima; cercai di spostarmi di lato per acchiapparlo, con piccoli e faticosi scatti, e una volta preso mi girai di scatto e con tutta la forza che avevo colpii ripetutamente e quelle mani. All’inizio sembrava non facessero una piega: più sferravo i colpi e più la presa sembrava rafforzarsi, e i rantoli sembravano aumentare di tonalità, facendosi più rabbiosi. Qualunque cosa ci fosse dietro quella cassettiera era affamata, non c’era dubbio. Stavo per cedere, vinta dalla stanchezza, dolorante per la schiena e la posizione da cui stavo sferrando il mio attacco da ormai infiniti minuti. Poi, di colpo, quelle orrende mani abbandonarono le mie caviglie.
Mi tirai su con un balzo e corsi verso la porta zoppicando, uscendo e chiudendola con un colpo secco. Rabbrividii e mi ci appoggiai, scivolando giù lentamente e stringendo le ginocchia al petto; tremavo. Che razza di essere immondo aveva preso possesso della cantina? Mi massaggiai le caviglie arrossate e doloranti, provando schifo a toccare dove quelle mani putride mi avevano afferrato; poi la cosa cominciò a picchiare forte contro la porta facendomi balzare di nuovo in piedi; mi tappai le orecchie, quel casino mi avrebbe fatto andare fuori di testa. Dovevo tornare di sopra e chiamare la polizia, che avrebbe stanato la cosa da la sotto e rinchiusa in un manicomio o ancora meglio, l’avrebbe uccisa. Perché ero sicura che quella cosa non fosse umana. Stavo per salire le scale, ancora le gambe erano malferme, ma qualcosa inspiegabilmente mi riportò piano fino a quella porta dove dietro si udiva un flebile lamento. Restai in ascolto, trattenendo il respiro: la cosa piangeva; sembrava quasi implorare aiuto. Sentii di nuovo le lacrime scendere copiose e bruciarmi il viso arrossato dallo sforzo di poco prima. Perché sentivo compassione per quella cosa immonda? Perché, se poco prima aveva cercato di ridurmi a brandelli? Quei mugugni disperati mi penetrarono nel cuore come un proiettile; mi domandai con rabbia cosa potesse aver fatto di male per essere relegata laggiù, da sola in un angolo buio. Al freddo. Mi sentii così incredibilmente vicina a lei. Salii le scale e andai in cucina a riflettere: la cosa aveva chiaramente bisogno di carne, ma il frigo ovviamente era vuoto; mi ero ripromessa di andare a fare la spesa solo nel pomeriggio, dopo avere sistemato un po’ di roba. Mi affacciai alla finestra sbirciando sul cortile della casa di fronte: arrivando avevo notato che c’era un interessante via vai di gatti, di ogni razza e colore; la padrona era una vecchietta curva che viveva anche lei da sola. Potevo farci amicizia, magari offrirmi come donna delle pulizie qualche volta la settimana: dopotutto, un lavoretto lo avrei dovuto trovare prima o dopo (non avrei potuto campare a lungo coi pochi risparmi che avevo messi via; da sposata avevo solo lavoricchiato, c’era Marco che guadagnava abbastanza per tutti e due), e di tanto in tanto avrei potuto acchiappare qualche bestiola e lanciarla in cantina. Erano così tante che la vecchia non si sarebbe mai accorta della mancanza di qualcuna in particolare. Rabbrividii al pensiero di aprire ancora quella porta. Potevo…non so, la mia testa turbinava.
Il suono del campanello mi fece sussultare. Guardai l’orologio al mio polso: già l’una e mezzo, e avevo ancora un sacco di scatoloni da liberare; andai ad aprire e mi trovai davanti un uomo alto di mezza età in tuta da lavoro e una valigetta degli attrezzi in mano.
“ Ah, giusto…” – sbuffai sulle prime. Poi di colpo mi illuminai: ero proprio felice di vederlo. Ed era così alto e grosso…
“ Buonasera signora, mi manda l’agenzia immobiliare per quei lavoretti”– disse, sollevando la visiera del berretto e facendomi l’occhiolino.
Mi scrutava attento, e il suo sguardo indugiò sfacciato sulla scollatura a V della mia maglietta, che lasciava intravedere l’incavo dei miei seni generosi. Risposi piano al suo saluto e mi feci da parte per farlo entrare; lui si strusciò volutamente su di me, mentre con lentezza studiata varcava la soglia e si fermava al centro del salotto; con un sorriso ammiccante mi chiese da quale parte poteva cominciare. Io lo guardai fisso in quei suoi occhi torbidi, rispondendo al suo sorriso. Era un bell’uomo, un po’ rude ma gradevole, sotto quella tuta sporca e informe. Mi soffermai a osservare le sue mani grandi. La fede luccicava al suo anulare sinistro. Di nuovo mi prese la nausea, pensando per un attimo alla poveretta che lo aspettava a casa al rientro dal lavoro. Colmai la distanza che c’era tra di noi lentamente, elencando ciò che non andava in quella maledetta casa: la vasca, la finestra, il tubo. Le mie mani sfiorarono volutamente il corpo dell’uomo all’altezza dell’inguine e subito le sue mani si sollevarono per toccarmi esattamente nello stesso punto. Fermai la mano intrecciando le mie dita alle sue. Ero improvvisamente molto su di giri.
“ Ma prima se non ti dispiace avrei bisogno del tuo aiuto in cantina”- sussurrai passando con disinvoltura al “tu”- “vorrei portare su una vecchia cassettiera…sai, i mobili non sono mai abbastanza in una casa ”
L’uomo disse che non c’era nessun problema e ringalluzzito mi seguì, camminando dietro di me. Sentivo i suoi occhi fissi sul mio sedere. Quando, scendendo le scale quel fetore ci investì, mi promise solennemente che avrebbe setacciato la cantina per liberarla da quello che sicuramente era un gatto morto. Avvicinandomi alla porta non sentii nessun rumore, il lamento di prima era cessato. La cosa doveva essere ritornata nel suo angolino, in attesa. Aprii, invitando l’inconsapevole vittima a precedermi.
“ C’è anche da cambiare la lampadina, qui sotto” – avanzava impavido, trionfante, girandosi di tanto in tanto a guardarmi e a sorridermi. Che esseri stupidi, gli uomini.
Annuii, e lentamente richiusi la porta alle mie spalle. Sentii che mi chiamava: prima con voce calma poi con un tono sempre più alto, preoccupato, concitato. Di li a poco poco avrebbe sicuramente cominciato a gridare, ma io non lo avrei sentito; ritornando in sala da pranzo, improvvisamente realizzai che la vetrina nell’angolo era proprio quella di mamma. Mi sentii grata agli inquilini che evidentemente l’avevano apprezzata e non se ne erano disfatti come era accaduto per gran parte della mobilia. Sfiorandone i contorni con la mano, fui investita da una piacevole sensazione di calore: cominciavo a sentirmi a casa, e mi venne una gran voglia di liberare lo scatolone dai piatti. Canticchiando, cominciai a sistemarli per bene nella vetrina.