Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2017 “Whitechapel, il sogno” di Luca Francesco Lioci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Come tante altre donne, anch’io salgo sul battello per andare in fabbrica. Viaggiare su quegli aggeggi è bruttissimo. Le persone a bordo sono talmente tante che ognuna ha lo spazio che basta per stare in piedi. Molto spesso prendo gomitate in varie parti del corpo e ogni volta mi ritrovo con chiazze scure sulla pelle. Inoltre, il Tamigi non è mai stato un fiume calmo. Il calore degli altri corpi e il continuo sballottamento mi fa venire la nausea. Provo ad avvicinarmi alla ringhiera per liberarmi nel fiume, ma è proprio l’acqua a darmi il colpo finale. Quando ero piccola, giocavo con i miei amici a bagnarci a vicenda. Facevamo a gara a chi contava più pesci. Adesso conto quanti pesci sono morti a causa delle scorie. Le carcasse dei pesci galleggiano con attorno dei vermicelli tutti presi a mangiarsi le viscere. Il fondo è oscurato dall’inquinamento. Vomito, buttando tutto su di un tronco, anche se ‘vomitare’ è una parola grossa. Tossisco ed esce un po’ di catarro. La colazione consisteva in un pezzo di pane e un po’ di patate, che dividevo con i miei figli. Mio marito era morto sul lavoro, quindi è compito mio sfamarli. Un po’ di tempo fa sono nate delle associazioni che si fanno chiamare ‘trade unions’. Servirebbero a tutelarci, ma il fatto che devo lavorare 17 ore in fabbrica non cambia. Mi pulisco la bocca con il vestito, un pezzo di tessuto che finiva con una gonna lunga, e alzo lo sguardo. Alte ciminiere sono disseminate lungo la riva del fiume. Tra queste, ne risalta una rossa. Indica la posizione di una fabbrica tessile, quella dove lavoro. Il fumo che esce dal suo alto comignolo è più denso e scuro degli altri e serve solo ad oscurare ancora di più il cielo.

I miei figli non hanno mai visto il sole. Non sanno neppure dell’esistenza dell’azzurro. L’unica cosa che posso fare è piangere e provare ad andare avanti. Anzi, solo provare ad andare avanti. Se piango, rischio di disidratarmi.

Il battello si ferma davanti ad una banchina di legno. Quando un tizio in blusa abbassa la scaletta, un ammasso di pecore si scaraventa su di essa per scendere. Io sono una di quelle. Una pecora bianca con lividi neri. A differenza degli uomini, che girano portandosi delle valige, io giro con solo dei vestiti addosso. Per il lavoro, bastano le mie piccole mani, simili a quelle di un bambino.

Dalla mia postazione, mentre lavoro ai fili di seta con una spoletta volante, assisto ad una protesta. Le persone esprimono il loro malcontento girando per le strade innalzando manifesti con molti errori grammaticali. Facevano prima ad andare a lavorare, penso. Manifestare in quel modo non serve a niente. Ai politici piace vedere la gente mangiarsi le scarpe. O prostituirsi. Molti dei clienti sono persone agiate. Forse faccio meglio a prostituirmi … Tanto, avrei fatto i soldi godendo o morendo per una qualche malattia. Non ho più la forza di andare avanti. Whitechapel non è lontana e io la sogno. Dopotutto, anche gli incubi sono sogni.

Credo di tornare a casa col tramonto, il solito grigio è un po’ più colorato. I raggi riverberano tra le nuvole e illuminano il fiume, rendendolo di un rosso accesso. Un fiume di sangue, dove i pesci muoiono. Provo invidia quando vedo galleggiare uno di loro. Ma non posso ancora morire.

Spalanco la porta bucata di casa e saluto il suo contenuto. Due bambini corrono verso di me, abbracciandomi le gambe. Quello più piccolo tenta di raggiungermi gattonando, ma cade in continuazione. Inizia a piangere e lo prendo in braccio. Lo coccolo portandolo al petto e lui tenta di ficcarsi nella scollatura. Fa sempre così quando ha fame. Mi appoggio al muro e lo allatto. Ci provo, almeno. Gli stanno crescendo i dentini e ad ogni poppata sento delle fitte al capezzolo. Ma non è solo quello. Non produco più latte. E lui, affamato, prova a succhiare più forte, tentando di bere quell’unica goccia rimasta in seno. Ogni volta devo sopprimere le lacrime. La mia inutilità è totale. Lavoro quel che basta per dar da mangiare ai bambini; il neonato sta per morire di stenti; i miei intenti suicidi … Noto un livido sul petto che non ricordavo di avere. Quello mi fa capire che, prima o poi, la piccola vita tra le mie braccia cesserà di esistere e, quando arriverà quel momento, il dolore mi porterà al suicidio. Io e i miei figli ci butteremo nel Tamigi, diventeremo carne per vermi.

Vedendomi triste, i due maggiori mi porgono un piatto con pane e patate. Sono più del solito, ci hanno messo anche la loro razione. Sorridono. Gli accarezzo la testa.

“Non so come ma, vedrete, ce la faremo”.

 

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