Premio Racconti nella Rete 2017 “L’attesa” di Maria Stella Reitano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Adoriamo la tua Croce, Signore,
lodiamo e glorifichiamo
la tua santa risurrezione.
Dal legno della Croce
è venuta la gioia in tutto il mondo.
(Venerdì Santo. Antifona al Salmo.)
Dentro di noi c’è una parte che sa immaginare un futuro migliore. E la chiamiamo coscienza, più spesso speranza, è l’approccio statico, il senso tra precario e stabile di un atto insolito… È conoscerla, e professandosi, benedire.
Avevo ventanni, venuta dal Sudafrica per sfuggire all’apartheid, io donna negra approdata a Roma a lavorare come cameriera in un ristorante. L’italiano lo studiavo all’università, filosofia, teologia, antropologia religiosa e dello Spirito, storia del Cristianesimo. So esprimermi con correttezza e precisione, non quell’italiano dei letti e delle discoteche, come mi consigliavano i miei amici. Non ho avuto mai dialogo con loro per non creare disagio. Mi annoiavano, sorridendo ai miei propri pensieri. Così, mi ero seduta tra i banchi introdotta nel rito collettivo che invitava giovani e anziani, femmine e maschi, poveri e ricchi a riappropriarsi di Dio. Non volevo evitare il senso religioso, nè solo un’esperienza passiva di consumo, dentro le forme emblematiche e definitive, quello scambio tra scena e platea che ricrea la nostra metà nascosta come se ci facesse inseguire un animale. L’animale scappa e ne vedi sempre la coda, non la afferri mai, ma non è questo l’importante, quello che conta è continuare ad inseguirlo. Così mi ero trasformata in un uccello. Per un atto di fede. Avrei potuto volare nel tempo oltre che nello spazio, come in un film di animazione il mio corpo poteva diventare epico e monumentale dentro tutti i rituali e i tic della preghiera. E mi ero fatta avanti. -Padre? Io vorrei la monacazione ma solo per me stessa.- -Sorella, l’amore vuole amore.-
Una scena primaria, la mia, dove l’affetto, il sesso, il potere sul corpo, il rifiuto della massificazione sono un estremo grumo di attrazione odio dipendenza abuso? Mi ero proferita senza raccontarmi nella mia implorazione.
Rientrare in un cono d’ombra fagocitata su questa biografia estrema impastata e bloccata in una sorta di empasse analitica. La mia vocazione dove tutto fisiologicamente o virilmente è spontaneo volontario scaturito da me stessa? Fuori dal tempo, un altrove indisponibile… Un unico tema: disfarsi dai legami, dall’amicizia, dalla fiducia e l’instaurarsi o il perpetuarsi di una barbarie, mia, che non prevede esenzioni, nascere a ridosso di una voragine. L’attesa di quel giorno, dove questo stesso corpo dalle dimensioni simboliche, comunicative, rituali e sociali, inoltrandosi nelle dimensioni del paradosso, del non ovvio, della necessità e della relazione, performer in un vuoto imprescindibile ha come appiglio la consacrazione.
Sono passati due mesi dai miei quarantanni. Ho una deformazione alla colonna vertebrale, una morsa, quando sento dolore chiudo gli occhi e riproduco arabeschi, vorrei mettere fine a questo stato. Evito il cibo, l’Eucaristia, gli stralci del quotidiano deglutito deformato mai vissuto, l’orrore contemporaneo leggero abituale impercettibile. Niente di grave. Lo Spirito e il vento non sono calati. Spazzate via le ultime tracce di assurdo? Non ancora. Siamo ancora al principio dell’estate, i moscerini turbinano vorticosamente sull’erba in attesa della pioggia. Mi dirigo verso la chiesetta per cercare riparo e ritrovo lo stesso sacerdote di quella lontana confessione. Sono vent’anni che non lo vedo, casualità. Lo accompagna un accolito, dal suo accento capisco che, come me, viene dal Sudafrica. Sorride, i denti bianchissimi e forti, decido di andare via immediatamente. Non voglio ricordare. Non voglio siano la storia di come sono morta dentro la mia avventura con Dio. Una relazione d’amore e furia dove non ho saputo restare fedele.
È un frattempo, entro appena in un bar, una vodka dopo l’altra un amico beveva con me, un musulmano, perchè, per lui, anche Allah potrebbe avere avuto fame o sete e Maometto è solo il suo profeta. – Voglio farti una domanda…- istantaneo e invadente – cosa spinge due sconosciuti uno nelle braccia dell’altro?… e soprattutto cosa ve li trattiene, ancora? Desiderio allegria curiosità, forse disgusto- La sua risposta mi lascia senza fiato. Solitaria e lacerata al desiderio della mia ordinazione religiosa, in fondo siamo fatti per l’amore… perchè innamorarsi?- Siamo fatti per l’amore… perchè innamorarsi?- Così per anni mi sono concessa momenti di assoluta spensieratezza, con dentro un punto fisso da reclamare.
Adesso ho settantanni. Incontro il prete e l’accolito, più anziani, l’altro adesso è già sacerdote. Mi offre un dolce. Parliamo con toni lieti, amabili, con i gesti che avrebbero potuto essere normali per accettare un pasticcino o una tazza di tè. -Ti fidi di me?- Hanno detto. Non è l’asimmetria, mancanza di riconoscimento, violenza formale, diventata anche fisica, dentro il mio corpo che invecchia. Alla percezione storica, e allucinata, trovi solo come un malinconico dinosaurogiocattolo, l’incubo divenuto ordinario in cui il riflusso della storia getta un’esistenza immersa nell’identità di un tempo equalizzato sincronico sull’istante, in un eterno presente puntuale e ossessionante… dove ogni variazione è una differenza illusoria destinata a ripetere il tema… non ho mai voluto nè un uomo, nè figli, e poi qualcuno mi offre dei dolci grossi tondeggianti… marzapane. Il palcoscenico si svuota, resta deserto, con tutti i pensieri che non sono in grado di pensare da sola. Non sostenere. Ripeto il solito gioco comprimo la colonna vertebrale, schiaccio il corpo con la testa all’ingiù, la blocco tenuta ferma con la testa sul mio torace, e la morsa dapprima leggera adesso si è fatta fitta, stringente, copro gli occhi, con gli occhi chiusi riproduco arabeschi -Ti fidi di me?- Quella voce è una raffica bassa e precisa. Sono una donna anziana.
E’ stato un lento avvelenamento senza fine, verso un dio che sa come la mia vita, tra una gioia di sublime intensità e l’abisso dell’angosciosa disperazione. Amo la mia vita quanto la odio. Può l’amore avere ragione a farci continuare ad odiare? Eppure… amo la vita che mi trascina all’inferno. Superare l’angoscia e nell’angoscia sprofondare migliaia di volte. Ogni giorno e ogni notte. Se l’angoscia è dentro di me, il sacro è la scintilla che mi scatena. Non voglio essere aiutata ad uscirne. È un dolce miele. Sono come l’Angelus Novus nel quadro di Klee. Un angelo in procinto di allontananrsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ho occhi spalancati, bocca aperta, ali distese. La tempesta mi ha sospesa a mezz’aria fra le macerie del presente e il vento del futuro. Io volevo essere amata, per tutti. Dolore antiquariato della mia storia naturale e il suolo resta arido deserto fino a toccare il fondo.
A volte decido di andare a dormire sul divano invece che nel letto. Spazio fisico, pieno di angoscia. A chiedermi il quando e il se, a quella chiamata che mi stavo negando, se l’avrei fatta con qualcun’altro.
Ho ottantanni, liquido come rugiada un fremito mi scuce la veste nell’oscurità delle tue mani. E’ così bello o mio Signore essere per te ancora giovane… Cosa donarti mio amato? Ho scoperto un sentiero nel bosco dove respiri di muschio ci stringono le dita intrepide, ormai. Perchè tu mi hai condotta per mano. Cosa donarti mio amato? E’ l’alba. Sono uscita a cercarti col mio piccolo cane. Cosa donarti mio amato? La mia via del ricordo quando mi abbracci di un solo abbraccio, così sospesi. Trattienimi, il mio respiro assente sulla tua bocca. Descrivi breve le mie forme, questo mio corpo e il tuo attenti. E poi mostrami ciò che nascondi, lascia che io impari tutto quello che a questo mondo c’è da imparare. Ho sperato, ho creduto, ho amato e tu eri il Dio dentro le mura che mi tenevi chiusa come un uccello nato in gabbia al buio, dove non viene mai il Sole. È adesso la stagione e il tempo, per venire al pozzo di nuovo bambina ormai cresciuta, giocare la cavallina fra le compagne sgambettanti su di Te spettro disteso. Mi hai trovata sola nei campi. A giugno o a mezzogiorno, dove la campagna è desolata, ho aperto le gambe e la tua spiga gialla in mezzo al grano mi avrebbe toccata, forse. Mi avresti detto sì sul mio fianco aperto e vuoto come un cucchiaio, e mi avresti riempita tutta e presa. Ogni mia forma o cavità impressa in te e custodita. Così ogni giorno e sempre. E sono come l’isola sconosciuta dove capiti un naufrago, i miei fianchi catene rocciose e le mie gambe la dolce spiaggia dove una notte di tempesta sei approdato. Io l’isola e tu il naufrago. Monti declinati in piane assolate e nelle valli uccelli hanno trovato rifugio, le bestie di varie specie dimorato all’ombra. Io l’isola, tu il naufrago. Percorri i miei sentieri a giorno alto, di notte ti apposti sulle rupi. Mangi il cibo pescato. Io sono l’isola, tu il naufrago… E l’eco lo ripete altrove.
Mio Signore, mio angelo, mi hai donato il tuo cuore così bello, così puro, così immacolato, così pieno d’amore e di umiltà. Stanotte eri nel Pane della Vita, e ti ho amato come tu mi hai amata, servita come tu mi hai servita. Il mio volto è sfigurato, ma non è più dei più poveri dei poveri, ora che ci sei Tu. Amen.