Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Gelosia” di Cristina Giuntini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Prego, Signora, il Suo cappotto.”

Accenno un sorriso, mi sfilo con un gesto distratto ed automatico il mio soprabito grigio e lo porgo, con un lieve cenno del capo, al cameriere, che si inchina leggermente e si allontana. Mi giro verso lo specchio, scruto la mia immagine fasciata in un abito rosso troppo vistoso, troppo gioioso. Addirizzo la schiena, faccio due passi e mi metto di traverso come quella famosa giornalista. Dio, quanto mi sento stupida. Pazienza, oramai sono qui, devo stare al gioco. Prendo un respiro lungo, profondo, chiudo gli occhi per un istante e mi dirigo verso l’entrata della sala.

L’enorme lampadario di cristallo mi si para davanti, abbacinandomi, e il mio cuore manca un battito. Non è da me farmi spaventare da un lampadario, ma stasera sono incredibilmente tesa. Mi guardo intorno spaesata: mobili in legno dorato, tappezzeria rossa ed oro, tavoli apparecchiati sontuosamente. Mio Dio, dove sono capitata, alla corte della Principessa Sissi? Tutto questo sfarzo mi mette più a disagio di quanto già non sia. Potrei semplicemente voltarmi ed affrettarmi ad uscire da qui, gettare la spugna, accettare l’inutilità della mia lotta: ma è troppo tardi. Il maître si è già avvicinato con un sorriso cordiale, ignorando la mia aria confusa, mi ha già chiesto il mio nome, mi sta già guidando al mio tavolo, e, con professionalità, mi sta aiutando ad accomodarmi.

Il mio tavolo. Solo adesso mi rendo conto della portata di quello che sto facendo. Finora non ci avevo realmente pensato, avevo considerato il tutto da un punto di vista astratto, non mi ero chiesta cosa avrei provato sedendomi qui, senza più alcuna possibilità di fuga.

Qui, da dove li posso vedere chiaramente.

Non si sono neppure voltati, hanno fatto finta di non vedermi. Io invece non riesco ad assumere un’aria indifferente, e come potrei? E’ ancora mio marito, lui.

Guardandolo intensamente, come mi accorgo di non avere fatto da troppo tempo, mi rendo conto di quanto poco i segni degli anni si siano fermati su di lui. Certo, i capelli sulle tempie sono leggermente imbiancati, ma è un velo sottile, una spruzzata di zucchero vanigliato, un soffio di dolcezza, di allegria. Anche il fisico è leggermente appesantito, ma il tempo passa per tutti… Nel pensarlo, istintivamente mi aggiusto il vestito sui fianchi e mi mordo le labbra, poi porto una mano al viso per spostare una ciocca ribelle. Stupida. E’ colpa mia, solo mia. Non era abbastanza, oramai significava solo routine, una presenza scontata… Stupida, quanto sono stata stupida, me ne rendo conto adesso che lo vedo con lei. Non gli stacco gli occhi di dosso, sperando che il suo sguardo, per un attimo, mi cerchi, mi accarezzi anche solo furtivamente. Niente. Lui continua a guardare solo lei, che sorride rilassata e che adesso ha avvicinato il suo viso a quello di lui per iniziare una conversazione fitta e segreta, e, a giudicare dai loro visi, anche molto divertente. All’improvviso scoppiano a ridere, avvolti in una gioiosa complicità che mi provoca una vampata di rossore alle guance ed una serie di pensieri rabbiosi, verso di loro e verso me stessa.

Bisogna dirlo, è una donna di classe, lei. Una di quelle donne che ti fanno sentire inadeguata con un solo sguardo, davanti alle quali gli unici pensieri che ti vengono in mente sono che il tuo vestito ha l’orlo scucito, le tue calze un filo tirato, la tua sottoveste il pizzo staccato ed i tuoi capelli una ricrescita di due centimetri, mentre davanti a te c’è l’Essere Perfetto. Alta, con due gambe che sembrano non finire mai, stretta in un tailleur sobrio e professionale che non si capisce come faccia ad apparire, allo stesso tempo, dannatamente sexy, occhi penetranti dietro un trucco praticamente invisibile, capelli da pubblicità dello shampoo più in voga. C’è da stupirsi che lui non si sia neanche accorto che io sono qui, a pochi metri da loro due?

All’improvviso lei appoggia una mano sul tavolo, con aria casuale, ma, in realtà, rivolta verso di lui. Lui ci casca in pieno, avvicina la mano alla sua, le loro dita si sfiorano, si accarezzano piano per poi arrivare a stringersi, mentre i loro occhi non si staccano gli uni dagli altri. Sento lo stomaco che si contrae, la nausea che sale, ma devo dominarla, non ho scelta. Non devo pensare a cosa succederebbe fra di loro se non fossero in un ristorante così raffinato. Certamente non si fermerebbero qui… Devo scacciare l’idea, non ce la faccio.

“E’ pronta per ordinare, Signora?”

No, mi scusi, non sono pronta. Non sono pronta per tutto questo, per questa tortura cinese, per questa canzone francese suonata da un vecchio giradischi, “Ed io tra di voi…”. Accorgersi in ritardo di quanto si ami qualcuno è come morire, signor cameriere. Ma a Lei non importa, vero? Scorro velocemente il menù. Salmone, con il salmone vado sempre sul sicuro. E vino bianco, chissà che non mi riesca di ubriacarmi e scordare tutto, o semplicemente di prendere un po’ di coraggio.

Il cameriere si è allontanato, lasciandomi immersa nel limbo dell’attesa. Potrebbe essere il momento più bello della serata: quel senso di aspettativa che si stempera nelle chiacchiere gioiose di una compagnia di amici, o si divide in due nella dolce intimità di un discorso strettamente personale. Invece sono sola, sola, a due passi da quello che ancora, legalmente, mi appartiene, ma in realtà è troppo lontano, forse oramai irraggiungibile…

Ma… Mi sbaglio.

Ho visto male.

No, ho visto bene, invece. Lui si è girato verso di me, mi ha guardata negli occhi. E lo sta facendo di nuovo. Il suo viso non tradisce alcun fastidio ne’ tanto meno rabbia. Anzi, sembra… intrigato.

Abbasso gli occhi, poi guardo altrove, faccio finta di non avere visto. Dopo qualche secondo torno a guardarlo, così, come per caso.

Mi guarda ancora.

Anzi, mi sta facendo l’occhiolino.

Lei continua a parlare, distratta, voltata dall’altra parte. Non vede. Mi appoggio allo schienale della mia sedia, getto indietro i capelli. Lui protende il corpo in avanti, nella mia direzione, osserva. Mi avvicino una mano al viso, la lascio scivolare lungo la guancia con leggerezza, poi, casualmente, sfioro le mie labbra. Lui continua a fissarmi, percepisco l’elettricità nel suo sguardo. Le mie dita scivolano sul collo, oramai sto flirtando senza ritegno, lo rivoglio, lo rivoglio indietro. Guardami, penso, guardami ancora, guardami…

Un movimento del suo sguardo, e l’attimo è già svanito. Lui sta di nuovo guardando lei, le sorride, le dice qualcosa. Lei annuisce, gli appoggia una mano sul braccio, posso sentire da qui la pressione affettuosa che esercita. Poi si china verso di lui, gli sussurra qualcosa all’orecchio, lui ride di gusto.

Me lo merito, mi merito tutto. Anche questa pellicola liquida davanti agli occhi, che mi annebbia la vista e fa magicamente apparire un’altra immagine, che si sovrappone a quella di loro due, ma è praticamente uguale: un primo appuntamento, una nuova coppia, l’entusiasmo di una storia che inizia. Ma nella mia immagine non c’è lei, ci sono io, in un déjá-vu straziante. Eravamo così, io e lui, unici come tutte le coppie del mondoi. Stasera va in scena una replica, ma l’attrice principale non è più la stessa. Eva ha spodestato Eva, lasciandola a leccarsi le ferite.

Ma ecco che il gioco sfibrante riprende, lei ha di nuovo girato lo sguardo, lui ha ripreso a fissarmi. Sta giocherellando con l’unico fiore infilato nel vasetto davanti a lui, lo accarezza come se volesse porgermelo. Mi assale il dubbio che stia facendo il doppio gioco: magari in questo momento le sta facendo piedino, che ne so, non lo posso certo vedere, con quella tovaglia che arriva fino a terra. Il suo atteggiamento ambiguo mi fa salire la rabbia, la disperazione. Distolgo lo sguardo in continuazione per poi riportarlo su di lui ad intervalli di pochi secondi, mi sento soffocare, maledico lui, lei, me stessa, questa paradossale, assurda situazione nella quale sono andata a ficcarmi…

Lei.

Si è voltata.

Mi ha vista.

Ci ha visti.

Ha visto tutto.

Mi guarda, sorride ironica. Dice qualcosa a lui, che annuisce. Si alza, sistema la gonna e si dirige verso di me con quel suo passo fermo, deciso, ma senza smettere un attimo di sorridere. Si avvicina al mio tavolo, si siede. Mi guarda dritta negli occhi.

“Allora?”

Silenzio.

“Qual è il problema?”

Vorrei parlare, ma non ci riesco. Ho come una spina ficcata nella gola.

“Sbaglio o ho intravisto i chiari sintomi della gelosia?”

Mi arrendo, chino il capo. “Sì”.

Il sorriso si fa più disteso. “Bene! Allora vuol dire che il vostro rapporto è recuperabilissimo”.

“Dottoressa, io…” balbetto. “Mi scusi, ero così presa… Credo di essermi immedesimata troppo…”

“Questo è un bene, è servito allo scopo. D’altronde questa è la parte più dura della terapia, e l’abbiamo superata.” Mi guarda con soddisfazione. “L’ho sconvolta, vero? D’altronde le avevo detto che come consulente matrimoniale uso dei metodi… diciamo… originali. Ma si ricorda cosa mi ha detto non più di una settimana fa?” Accavalla le gambe. “La noia del suo matrimonio, la voglia di evasione, la vita scontata… Anche se trovasse un’altra, mi disse, non me ne importerebbe niente! La pensa ancora così?” Scuoto la testa. “No, dopo questa sera no. Eppure sapevo che era tutta una finta…” “Vede, troppo spesso si pensa al proprio rapporto in termini astratti. Allontanamento, tradimento, separazione, divorzio… Se ne parla teoricamente, riportando a pappagallo certe frasi che si leggono sui giornali, e si tende a sottovalutarne l’impatto emotivo. Ma trovarsi davanti al fatto vero e proprio, o anche solo alla sua rappresentazione, ha un sapore completamente diverso.”

Le sorrido. “Dottoressa… Grazie…”

“Aspetti a ringraziarmi: questo è l’inizio. C’è ancora tanta strada da fare, ma direi che le premesse sono ottime”. Si alza “Allora, a Giovedì. Adesso la lascio, ho l’impressione che non rimarrà qui seduta da sola a lungo, o sbaglio?”

La guardo allontanarsi, poi mi alzo a mia volta. Lui è sempre lì, e mi guarda con occhi speranzosi. Lo raggiungo e mi siedo davanti a lui. Ci guardiamo per un lungo istante, poi le nostre mani si incontrano.

C’è ancora tanta strada da fare, ma l’importante è averla imboccata.

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