Premio Racconti nella Rete 2017 “Ti credo, riposa in pace” di Romano Parodi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017
Alcuni anni or sono, durante un’esercitazione subacquea, è morto un tenente elicotterista dell’eliporto di Luni. Ne parlarono i giornali. Si chiamava Vincenzo Simonini e abitava con la nonna, la moglie e un bambino, a 200 metri dalla casa di mia figlia. Il giorno del funerale, lungo quella strada che porta alle scuole, al parco giochi, alla chiesa e al cimitero, c’era un mare di gente e tantissime uniformi. Oggi in quella casa abita solo la nonna. Tutte le volte che passo, saluta il mio nipotino, e scambiamo qualche parola. E’ una bella signora, sui novanta, sempre curata nel vestire e nel portamento, sempre mesta, sempre a curare le rose del suo piccolo giardino. Tutte le mattine, col suo bastone e dei fiori, va al cimitero: “La mia famiglia è tutta li”. Una volta ci sono andato anch’io, le ho portato l’acqua. E’ un bel cimitero, tutto a gradoni, in salita. Ci sono molte Pietà, molte Madonne, anche intarsiate e a colori, ma quello che attira la mia attenzione in questi luoghi sono le dediche. Nella lapide di Vincenzo, con la grande foto di un bel ragazzo sorridente, nel bordo inferiore, e a caratteri piccoli, in corsivo, come per un senso di pudore, c’è il saluto della moglie: “Il tuo sorriso sarà la mia vita”. Poco lontano c’è quest’altra: “Ti credo, riposa in pace”. Ho chiesto…la signora mi ha raccontato:
Giulio aveva tre anni, quando, in incidente stradale con la moto, perse il padre. Con la mamma e la sorella di dieci anni più grande vennero ad abitare qui, dalla nonna materna. A dieci anni perse anche la madre, alla quale, il ragazzo, era attaccato in maniera morbosa. Rimase con la sorella sposata e con la nonna. Il suo carattere però subì un profondo mutamento: era introverso e silenzioso. Non partecipava ai giochi, nemmeno se lo chiamavano. Stava a vedere, appartato e solo. Spesso s’isolava nel bosco, dove aveva trovato un capanno dei cacciatori e vi stava delle ore. Lo portarono anche da uno psicologo: “Diamogli tempo”. Tutte le mattine prendeva la corriera e andava a scuola. Anche se non molto studioso, era un ragazzo mite e ubbidiente che si faceva benvolere da tutti. Giocava spesso con la nipotina, dalla quale era adorato. Aveva dodici anni, quando, un sabato pomeriggio, lo lasciarono solo con la bimba e andarono al mercato. assicurando che sarebbero tornate presto. La bimba aveva più di tre anni. Parlava e sapeva farsi intendere in tutto. Da più di un anno faceva i suoi bisognini da sola, senza nessun aiuto,, ma quel giorno, tutta presa dal gioco, se la fece addosso. La cacca le colava giù per le gambe. Giulio aveva visto spesso la nonna e la sorella che la pulivano, ma non se la sentiva di farlo e cercò di temporeggiare in attesa del loro arrivo. La bimba però cominciò a piangere e allora dovette prendere l’iniziativa. La portò nel bagno e le tolse la mutandina, sporcandosi le mani e strizzando la bocca schifato, poi prese un rotolo di scooteck e cominciò a pulirla. In cuor suo sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma…piangeva… Bagnava la carta e la passava sulle gambe e sul sedere della bimba. Aveva quasi finito e stava pulendole le parti intime quando, una furia umana si avventò su di lui, con urla e schiaffi. Il ragazzo riuscì a sfuggirle e a scappare. Sulla porta la nonna cercò di bloccarlo: “Che cosa hai fatto delinquente”, ma lui riuscì a divincolarsi e ad allontanarsi velocemente: “Non ho fatto niente”; ma in cuor suo sapeva che l’aveva fatta grossa, la reazione della sorella glielo confermava. I maschietti non devono toccare le parti intime delle bambine. Non erano tanto gli schiaffi a farlo star male quanto quelle parole che non aveva mai sentito: porco, pervertito, depravato, maiale…
La sorella capì subito di avere preso un grosso abbaglio: nel water c’era una montagnola di carta sporca di cacca, e le mutandine in bella vista ne era piena, e sul bordo del bagno c’era quella pulita. Lasciò la bimba alla nonna e corse fuori a cercare il fratello. L’avevano visto andare verso il sentiero che portava in città. Telefonò al marito di andare a cercarlo e tornò a casa preoccupata. Dopo qualche ora l’uomo arrivò, ma il ragazzo non l’aveva trovato. Partirono entrambi. Andarono a parlare con i suoi compagni di scuola, i conoscenti, e tutti gli abitanti lungo la strada: niente. Cercarono fino a notte fonda, domandarono a tutti: nulla. Allora andarono dai carabinieri e ne denunciarono la scomparsa. Subito iniziarono le ricerche su vasta scala. Alcuni giorni dopo una donna disse che domenica mattina, il giorno dopo la scomparsa, alle quattro e mezzo, mentre scendeva dal treno alla stazione di Viareggio, aveva visto un bimbo che invece vi saliva. Il treno andava verso Genova. Le rimase impresso, perché, così piccolo, era solo, e senza bagaglio. Pensò che fosse abituato a prendere il treno tanto era sicuro di se: forse rientrava a casa pensò, e quello, per lui era un viaggio abituale. Lo cercarono alla Spezia, a Genova e lungo tutta la tratta del treno, ma invano. Cominciarono a parlarne i giornali, e le ricerche si estesero in tutta Italia.
Passarono i giorni, i mesi, gli anni, e poi l’interesse cominciò a scemare, e sulla scomparsa del ragazzo, scese l’oblio. Era svanito nel nulla, anche nella memoria; ad accezione della sorella che si portò addosso, per sempre i sensi di colpa. Perché non aveva capito? Perché non l’aveva inseguito lungo il sentiero?
Ma quella sera, il ragazzo non era andato lontano: passò parte della notte nel suo eremo “alpestre”. Non albeggiava ancora quando incominciò a piangere, e fu allora che prese la decisione estrema: si alzò, e, nella semioscurità della notte, corse a passi veloci, verso Viareggio.
Da allora, passarono quarantanove anni, e nessuno, neanche più si ricordava di quel bimbo scomparso nel nulla, quando un mattino, arrivò in paese un carro funebre di un’agenzia milanese con una salma. La targhetta diceva che era quella di Giulio Viviani. Sulla cassa c’era una scritta indelebile, fatta con uno stampo ardente: “NON GLI HO FATTO NIENTE – TE LO GIURO SULLA MAMMA”. Seppero che l’agenzia era stata pagata dagli amici del morto. La sorella e la nipote cominciarono a scrivere e vennero a sapere che era morto per un tumore ai polmoni causato dal fumo. Era vissuto tutta la vita dentro il porto di Buenos Aires, sul Rio de la Plata, L’avevano sempre visto lì. Aveva molti amici ed era benvoluto da tutti. Era un lavoratore, instancabile e onesto, molto ricercato. Gli ultimi giorni della sua vita lo assistettero loro; finché un mattino, lo trovarono morto.
Per volere della sorella, si erano informati e avevano saputo che era vissuto a Puerto Madero, con un vecchio vagabondo fin da ragazzo. Non sapevano null’altro, né come aveva fatto ad arrivare lì, né dove aveva vissuto la sua infanzia. Lo chiamavano Julio. Dormiva in piccoli container adibiti alla bisogna, offertogli dalle varie compagnie portuali, cui prestava la sua opera anche come guardiano notturno, e che aveva un po’ di soldi. In una lettera testamento, chiedeva di essere sepolto vicino a sua madre. Seguiva l’indirizzo e le parole, in italiano, che dovevano essere scritte in modo indelebile sulla cassa: e loro esaudirono il suo desiderio. Un mese dopo la sorella ricevette la lettera di un notaio, che le inviava un bonifico bancario e un pacco. Le due donne capirono subito che in quel pacco avrebbero trovato la sua anima. E così fu: dentro un prezioso cofanetto d’argento, trovarono un grosso cuore in oro massiccio, per la sua “adorata nipotina”, con questa frase. “Ti volevo un mondo di bene; mai avrei potuto farti del male, credimi, fammi riposare in pace”. Come nel “Processo” di Kafka, aveva vissuto tutta la vita, quell’oscuro meccanismo oppressivo che il destino gli aveva portato in sorte. Un’accusa che, anche se sapeva ingiusta, gli aveva pesato sulle spalle come un macigno, e morì con l’incubo che la vergogna potesse sopravvivergli: “…credimi, fammi riposare in pace”.