Premio Racconti nella Rete 2017 “Dalla finestra” di Emanuela Bianchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017Chiusi la conversazione leggermente irritato da quell’ennesima telefonata di mia madre. Il fatto che avessi la varicella, una classica malattia dell’infanzia presa con ogni probabilità sul treno Milano-Roma da una bambina tutt’altro che simpatica, le stava dando agio di ricominciare a trattarmi come un bambino. Passavo le mie giornate a sentirmi dire di non grattarmi (mi raccomando, ti ho fatto così bellino, non ti rovinare proprio adesso), quanto dormire (non restare tutto il giorno attaccato alle serie televisive, dormi piuttosto, perché il tuo corpo deve concentrarsi a combattere la malattia) e cosa cucinarmi (ricorda che, se impieghi più tempo a mangiare che a preparare, allora stai sbagliando). Io più che altro, una volta riassuntole il menù della giornata (con qualche aggiunta fantasiosa atta a convincerla che seguissi i suoi dettami laddove invece riscaldavo semplicemente cose già pronte), la usavo come cuscinetto per le mie ansie lavorative. Avevo appena iniziato il mio dottorato a Roma e, poche settimane dopo la firma del contratto, ero entrato in malattia. Sentivo che il mio supervisore, conosciuto già ai tempi dei miei studi a Milano ma solo superficialmente, non credeva davvero che io stessi tanto male da non poter lavorare ed ero certo che stesse smantellando la buona impressione lasciatagli dalla mia tesi di laurea via via che i giorni passavano. Di fatto, la questione della malattia infantile, per quanto certificata, non convinceva nessuno. Soprattutto la seconda recrudescenza, sopraggiunta a sorpresa dopo già due settimane di clausura, aveva fatto serpeggiare nel laboratorio il dubbio che io ci stessi marciando. Immaginavo facilmente quante battute poco lusinghiere su di me si stessero sprecando ed ero pieno di sentimenti di inadeguatezza. Riversavo allora su mia madre l’ansia del partire con il piede sbagliato e, pur di sentirmi dire che non avrei potuto comportarmi altrimenti, sopportavo la regressione del nostro rapporto, tramutandomi da autonomo studente fuorisede in ragazzino al suo primo camposcuola.
Chiusi il telefono e mi avviai verso il frigorifero alla ricerca di qualcosa che scacciasse l’eco della voce di mia madre. Trovai un vasetto di yogurt bianco, ci aggiunsi una quantità notevole di miele e mi diressi verso la portafinestra. Era un Ottobre piuttosto mite e, quando la febbre si manteneva bassa, sedermi in balcone rappresentava una delle poche attività capaci di garantirmi qualche contatto umano, fatta eccezione per lo scambio di battute con il ragazzo che mi portava la spesa dal supermercato sotto casa. Sul balcone alla mia destra c’era, come sempre, Fausto che sorvegliava la strada.
«Buongiorno signor Fausto! Si è già visto?».
«No, ma è ancora presto».
Mi rispose senza alzare gli occhi verso di me e io, puntellando i gomiti sulla ringhiera per poter mangiare comodamente il mio yogurt, seguii la direzione del suo sguardo. Di solito l’uomo con il cappello, come lo chiamavamo io e Fausto, stazionava al bar di fronte tra le undici e mezzogiorno. Dunque, effettivamente, era ancora molto presto. Così presto che decisi di restare a godermi l’aria frizzante di una mattina che si annunciava assolata. A quell’ora il bar era pieno di persone in cerca di caffè e cornetti, mentre io temevo il successivo momento di limbo tra la tarda colazione e il pranzo precoce, quando i tavolini all’aperto divenivano tendenzialmente vuoti e la presenza dell’uomo con il cappello non poteva che spiccare. Questo era, tra l’altro, uno dei motivi che mi facevano dubitare della storia raccontatami da Fausto: se quell’uomo fosse stato davvero un sicario, non avrebbe preferito confondersi tra la folla per poter agire indisturbato?! D’altronde era pur vero che, nell’ottica della guerra di posizione che oramai i due stavano portando avanti, la figura solitaria di quell’uomo ossuto ed elegante seduta a fumare la pipa sotto ai nostri balconi rappresentava un monito chiaro come il sole. E d’altro canto, cos’era quell’ostinazione di Fausto nello stare spesso in balcone se non il modo di rispondergli io sono ancora qui e non ho paura?! Di tutto questo, ovviamente, Fausto non mi faceva parola. Del resto, della storia in sé dietro quella reciproca sorveglianza avevamo parlato solamente al nostro primo incontro. Quel giorno ero stato portato ad uscire in balcone dalla voce di Fausto che chiedeva aiuto. Aiuto, diceva in affanno sporgendosi verso la mia ringhiera, Aiuto, mi vogliono uccidere, ripeteva con lo sguardo assente e i capelli ritti in testa. Io stavo riprendendomi dalla prima ondata di varicella e pensai fosse semplicemente un vecchio strampalato con i postumi di una nottata tormentata. Tuttavia, durante i miei tentativi di calmarlo, i fatti vennero pian piano a galla. Dalle sue frasi, disconnesse per l’agitazione, mi feci un quadro abbastanza circostanziato di come lui e suo fratello fossero implicati in una certa fuga di informazioni (della quale non chiarì portata e contenuti), di come si fossero nascosti per un periodo in casa di amici, di come suo fratello fosse sparito senza lasciare traccia e di come lui avesse di conseguenza deciso di tornare a casa propria e barricarvisi dentro. Da quel momento, sono controllato a vista, aveva sussurrato indicando con il mento la strada sotto di noi. L’uomo con il cappello era lì, seduto al bar, a quattro piani di distanza dallo sguardo terrorizzato del mio vicino. Avevo allora suggerito, sussurrando anche io, che denunciasse immediatamente i fatti alla polizia. La polizia lo sa fin troppo bene, aveva risposto Fausto con un singulto che non seppi interpretare ma che mi frenò dal chiedere se la polizia sapesse, ma non potesse intervenire, o se invece fosse proprio la polizia a tenerlo sotto sorveglianza. Della microcriminalità romana ero informato soprattutto da quei libri, serie televisive e film che si fregiavano di raccontare un sottobosco invisibile persino a molti dei residenti in città e quindi, privo com’ero di amici autoctoni con i quali confrontarmi, restai combattuto tra il timore di immaginare trame troppo cinematografiche dietro le parole di Fausto e la convinzione di aver scelto il quartiere sbagliato per prendere casa. Mentre ci riflettevo su, Fausto scomparve.
Quel segreto condiviso era stato il nostro modo di rompere il ghiaccio ed era poi rimasto il filo conduttore delle nostre brevi conversazioni, perché, sebbene Fausto non avesse fatto più cenno alla faccenda, io sentivo il bisogno di monitorare le azioni dell’uomo che minacciava il mio vicino. Non potendo sapere se avessi di fronte un sicario senza scrupoli o un poliziotto in incognito, cercavo infatti di tenermi dentro una soglia di sicurezza minima. A tale scopo, tutti i giorni, chiedevo se si fosse già visto e poi, se la risposta era negativa, mi dileguavo con discrezione, per paura che, se fosse arrivato e mi avesse visto chiacchierare con Fausto, avrebbe potuto erroneamente pensare che io stessi diventando un confidente pericoloso. Essendo quel giorno molto presto, invece, non volli negarmi il piacere della conversazione anche se l’uomo, ovviamente, non era ancora passato.
«Come si sente oggi?».
«Stremato. La notte non dormo».
«Neppure io. Dormo troppo di giorno e di notte mi annoio».
Parlammo, come spesso facevamo, dei nostri acciacchi. Poi, esaurito il bollettino sul nostro stato di salute, sentii il bisogno di lamentarmi di mia madre, che quel giorno aveva davvero superato il limite delle telefonate mattutine. Ribadii, come avevo fatto con lei in chiusura, il numero esatto dei miei anni, confidando che la mia età fosse più che sufficiente a spiegare il desiderio di essere trattato come un adulto. Fausto non fece commenti in merito, forse pensava che i miei anni fossero comunque pochi (qualunque numero, persino quello di mia madre, sarebbe risultato basso rispetto al suo), ma dopo qualche minuto di silenzio prese a raccontarmi di sua mamma. Non ne avevamo mai discusso prima di allora e mi stupii che parlasse di lei al presente, come fosse in vita, cosa che catalogai da subito come improbabile, risolvendo che si trattava di un modo amorevole di darle una consistenza reale. Iniziò dicendo che anche sua madre non era d’accordo con l’operato dei suoi due figli. Questo sottintendeva che, nel suo parere, mia mamma disapprovasse quello che facevo (ponendosi idealmente sulla stessa sponda del mio supervisore di dottorato, eventualità che mi avrebbe distrutto di sensi di colpa), ma non protestai e lasciai che Fausto proseguisse. Disse che, secondo la madre, lui e suo fratello avevano intrapreso una strada troppo pericolosa. Non specificò se tale pericolo fosse legato a pratiche criminali o se, al contrario, lodevoli. E io, ancora una volta, non indagai oltre. La sua affermazione mi parve però ricollegarsi al fatto che lui fosse sotto minaccia di vita e feci notare, scherzando, che forse la madre non aveva tutti i torti.
«Non c’era altra scelta per noi».
Fu così lapidario che non ebbi il coraggio di insistere e lasciai che proseguisse quel dialogo con la madre. Mi stupii nel vederlo agitarsi velocemente, quasi avesse in sospeso molte cose da definire. Ad un certo punto, al culmine della concitazione, dichiarò di voler rientrare in casa a parlarle. In pochi attimi rimasi fuori da solo, a chiedermi se avessi sentito bene. Non credevo davvero possibile che la madre vivesse con lui, sia perché non avevo mai avuto sentore di altre presenze, sia perché mi sembrava anagraficamente alquanto improbabile. Eppure tutto poteva essere. Forse la donna non si affacciava alla finestra per via della sua estrema anzianità, o forse per tenersi protetta, almeno lei, dall’uomo con il cappello, o forse ancora si trattava di una proiezione della mente di Fausto, minata dalla scomparsa del fratello. Oppure, in fin dei conti, avevo sentito male le ultime parole che Fausto aveva pronunciato prima di ritirarsi in casa. Onestamente non avrei saputo dirlo. E, non potendo lasciare il mio appartamento, non mi rimaneva che aspettare l’incontro successivo.
Dopo quell’episodio, però, non incrociai Fausto per parecchi giorni. Che fosse invischiato in faccende poco chiare non mi piaceva, ma mi pesava dover fare a meno della sua compagnia in balcone: mi ero abituato al nostro modo di commentare i passanti insieme e mi rendevo conto che farlo da solo non era altrettanto appagante. Dal momento che iniziavo a riprendermi anche dal secondo ciclo di bolle, pensai che, non appena fossi tornato in forma, sarei passato a bussare alla sua porta. Non vedevo l’ora di uscire dalla mia prolungata prigionia, la quale, in fondo, era poca cosa rispetto a quella cui era condannato Fausto. Qualche giorno prima della mia ultima visita medica, quella che mi avrebbe appunto liberato, mentre meditavo in finestra, ancora una volta solo, e organizzavo mentalmente tutto ciò che mi sarebbe crollato addosso nell’arco di pochi giorni, vidi senza ombra di dubbio Fausto entrare nel bar di fronte. Rimasi di stucco e continuai a seguire i suoi movimenti, cercando segnali di non so neppure cosa, fino a quando lui non rientrò nel portone del nostro palazzo. Pochi minuti dopo, socchiusi la mia porta di casa quel tanto che mi consentiva di vederlo aprire la sua, ma non ebbi il coraggio di palesarmi e chiedere cosa fosse cambiato. Sembrava sereno, non certo un uomo che aveva appena rischiato di essere sequestrato (questo immaginavo fosse il rischio più concreto). Non avevo spiegazioni plausibili in proposito e me ne restai barricato con le finestre chiuse per tutta la giornata.
La mattina successiva, quando il ragazzo della spesa bussò alla mia porta, decisi di dirimere la questione una volta per tutte. Sapevo che anche Fausto si faceva portare la spesa da lui, ma mi ero sempre trattenuto dal chiedergli informazioni, sia per prudenza che per imbarazzo. Tuttavia dopo quello che avevo visto ero deciso a sapere chi fosse davvero il mio vicino. Sebbene cercassi un approccio ragionevolmente delicato alla faccenda, lo sguardo vitreo del mio interlocutore mi guidò verso una spregiudicata chiarezza.
«Senti, ma tu sai chi vorrebbe morto il signor Fausto e perché?»
Il ragazzo mi guardò prima sbalordito, poi incerto e infine con sincero divertimento.
«Chi voleva uccidere Fausto ormai è morto da tempo»
A quel punto fui io ad essere sbalordito prima e incerto poi.
«Lo sanno tutti qui nel quartiere perché ha sempre vissuto qui, sempre nella stessa casa, tra l’altro. Quando era ragazzo, insieme a suo fratello maggiore, Fausto ha partecipato a delle azioni partigiane. Erano giovanissimi e poco sospettabili, ma alla fine i fascisti li individuarono. Riuscirono a prendere suo fratello, ma Fausto si salvò, credo perché arrivò tardi a un appuntamento: la sua bici aveva bucato. Ultimamente l’Alzheimer gli riporta alla luce questi ricordi, non devi farci troppo caso…»