Premio Racconti per Corti 2010 “Un professore e la sua stella…” di Alessandra Ponticelli Conti
Categoria: Premio Racconti per Corti 2010[Firenze, Liceo Classico ” Galileo”, aprile 2005]
In una piccola aula in fondo al corridoio, gli alunni della IIIC stavano aspettando, durante il cambio dell’ora, il ” mitico” Professor Resta: ” Eccolo!”, disse un alunno vedendolo sbucare dalle scale…” “E’ qui!”. Affannato per la corsa, l’uomo entrò in classe, raggiunse la cattedra e si sedette. Dall’ultima fila qualcuno chiese:” Prof, ce li ha, vero, i compiti di latino?”. “Sì, sì”, rispose Resta mentre stava firmando il registro di classe.” Ora…ora ve li consegno…un attimo, per favore!”. Si chinò e dalla cartella estrasse un pacco di versioni. Sorrise e aggiunse:” Siete andati tutti bene; anche nel commento. Sono contento che amiate così tanto Seneca. Adesso, adesso però, voglio leggervi quello che ha scritto il vostro compagno G. a proposito della Settima Epistola nella quale, come ben sapete, il filosofo invita a fuggire la folla”. E iniziò: ” L’individualismo del recede in te ipsum quantum potes, che alcuni critici hanno definito quasi romantico, non deve essere confuso con l’isolamento. Il percorso di crescita interiore va di pari passo con quello dell’educazione degli altri animi: insegnando si impara. Crescere rappresenta un momento necessario per poter comunicare con gli altri e per aiutarsi reciprocamente”. “Bravo! Bravo, davvero!”, esclamò il professore congratulandosi con quell’allievo tanto speciale.
[Firenze, aprile 2038]
” Ascolta” disse il professor Resta, mentre cominciava a leggere, seduto sulla sua poltrona:
” Quel giorno la città era particolarmente bella. Si avvertiva arrivare da fuori un silenzio inusuale: i rumori assordanti del traffico, il chiasso quotidiano che l’animavano ormai da decenni, sembravano essersi spenti, di colpo; tanto che ebbi la sensazione che qualcuno da lassù, dall’altra parte del cielo, avesse premuto, all’improvviso, esausto, un pulsante. Mi figurai una grande mano longilinea che, risoluta, poggiava l’indice sulla leva di um’immensa tastiera di mille colori, per arrestare, per sempre, senza possibilità di replica, la grande miriade di suoni indistinti e incomposti prodotti da quegli esseri sciagurati che sono gli uomini. Soddisfatto e felice, decisi di fare una passeggiata. Mi misi addosso una vecchia giacca spinata di tweed, presi dal comodino il mio manoscritto, la mia penna, i miei piccoli occhiali da lettura e, dopo aver spento la luce e chiuso la porta, uscii. Le strade erano deserte. Mi avviai verso il viale che conduceva a Fiesole percorrendo, pigramente, la via nella quale avevo sempre abitato. Le molte macchine parcheggiate ai margini dei marciapiedi sembravano finalmente compiacersi per quel riposo tanto agognato; i grandi e piccoli negozi aperti, ma privi di qualunque presenza umana, rilucevano con le loro vetrine vivaci come false pietre preziose sulle grigie e anonime facciate di palazzoni soffocati da una maschera di polvere scura. Un buon odore di bistecca cotta alla brace e altri profumi accattivanti di pietanze uscivano dalla porta semiaperta del ristorante all’angolo della prima traversa; dallo spiraglio creato dalle due imposte non si vedeva anima viva, mentre ai tavoli piatti gustosi e fumanti aspettavano di essere consumati da avventori che non c’erano. I pochi alberi che svettavano da un cortiletto interno di un vecchio edificio si godevano rilassati i tiepidi raggi di un sole che, immobile, fissava la terra. Appagato, proseguii il mio cammino, goffamente, accompagnato solo da quel paio di lunghi baffi, ormai bianchi, girati all’insù, con i quali involontariamente avevo divertito generazioni intere di studenti, e dalla mia vecchia e rugosa cartella di cuoio marrone. Da un davanzale di una finestra un completo di lenzuola celesti, una coperta e un cuscino sembravano stanchi di attendere di essere riportati nel loro letto.
Imboccai la salita di San Domenico, lanciando di tanto in tanto un’occhiata alle belle ville che, seminascoste tra piante d’olivo, latifoglie e cipressi, parevano spiare, basite e ammutolite, quell’unico pellegrino in marcia. L’erta si fece più ripida e temei per le mie deboli gambe. Uno stormo di uccelli si staccò coralmente dalla vetta di un’antica torre e si allargò in un volo rapido e avvolgente sopra di me, per poi sparire, repentino, dietro un’alta muraglia a secco.
Che giorno era? Non lo sapevo. Fino a quel momento non mi ero mai posto nessun interrogativo; quell’atmosfera speciale mi aveva frastornato, adagiato in uno stato di grazia soffice e riposante, facendomi perdere le coordinate del tempo. La piccola chiesa sulla mia destra, aperta e stracolma di fiori, se ne stava lì, spazientita e annoiata, ad aspettare prete e parrocchiani che non sarebbero mai arrivati.
Udii dietro di me un fruscìo ovattato, un refolo di vento fresco, leggero, che aleggiava sulle note mute di un profumo delicato e inebriante. Fu il primo e l’ultimo rumore. Mi girai: tante pagine bianche, sollevandosi da terra, volteggiavano lievi, a passo di danza, intorno a un enorme biglietto da visita, sul quale era scritto:
Lunedì dell’Angelo
Caro professor Resta,
a Lei che mi ha insegnato a tradurre Cicerone e Seneca; a Lei che ha saputo educarmi, silenziosamente, senza mai chiedermi niente in cambio; a Lei che mi ha fatto sorridere, e a volte piangere, che ha allenato il mio cuore a riflettere sul significato della vita e della morte, a Lei voglio dire grazie. Grazie, soprattutto per avermi dimostrato che le parole sussurrate dalla volpe al Piccolo principe nella favola bella di Saint-Exupéry non sono solo parole, e che l’essenziale è davvero invisibile agli occhi.
Con affetto, il suo
G.
Mi tolsi gli occhiali che avevo inforcato. Un brivido freddo attaversò il mio fragile corpo e mi ricordai. Mi ricordai di quel mio bravo studente di nome G., ” bello e di gentile aspetto”, che si era arrampicato, suo malgrado, tra le stelle, a soli diciotto anni, senza fare rumore, un Lunedì dell’Angelo…
Osservai l’orizzonte e stampato su un foglio di cielo lessi:
” Guarderai le stelle, la notte… la mia stella sarà per te una delle stelle…Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero…e quando ti sarai consolato… sarai contento di avermi conosciuto: sarai sempre il mio amico ( Il Piccolo principe, cap.XXVI).
Il Professore, dopo aver finito di leggere, posò il suo manoscritto sul tavolino che aveva di fianco e si alzò. Il concerto acuto dei clacson che arrivava dalla strada rimbalzava, ossessivo, sui vetri.
Fuori era già buio. Si diresse verso la finestra, chiuse l’avvolgibile e con un filo di voce disse al suo ospite:” Sai, io sono anziano ormai…accadde tutto alcuni anni fa… molto tempo dopo che G. ci aveva lasciati, e volli raccontarlo in questa breve storia. Non l’avevo mai letta a nessuno prima d’ora, e …”. “Incredibile!”, replicò l’altro commosso. “E’ giusto che la tenga tu”, continuò Resta, asciugandosi gli occhi, “tu che di G. fosti compagno di banco e di vita”.
La descrizione dell’ambiente, degli oggetti e dei sentimenti é ottima: sembra quasi di trovarsi lì e poter vedere attraverso gli occhi e i sentimenti del professore.
Bellisssimo racconto molto adatto a diventare un cortometraggio.
Complimenti davvero.
La descrizione del ricordo del professore, restituisce la magia dell’episodio dell’incontro tra il piano terreno dell’esistenza dell’ormai anziano docente, e quella non più terrena, ma ancora sfolgorante, dell’ancor giovane allievo. Molto acutamente, l’autrice insiste sull’aspetto della luce: quella della conoscenza, il logos che si trasmette nell’atto educativo tra il professore e G., e che stabilisce un legame che supera l’orribile vuoto della scomparsa, tanto da ritornare, come un gesto di gratitudine, nella sempiterna luce di una stella.
A quel professore, che la vita ha reso più vecchio dell’età che ha, auguro che la stella fornisca sempre un punto di orientamento, ricordandogli tutto ciò che di valido e di prezioso è stato in grado di dare al giovane G., quando assieme leggevano Seneca e Saint-Exupéry.
Molto bello.
Buon racconto, di certo. Non sono d’accordo con sasur però che possa rendere bene come corto: troppo statico.
Anch’io ho notato il tema luce
Ringrazio Matteo Teatini per il commento positivo. Non sono d’accordo, tuttavia, sul fatto che il testo non si presti ad essere adattato per un corto. La narrazione in tre tempi suggerisce -a mio parere- uno svolgimento teatrale dove passato e presente s’intrecciano dando luogo a una storia che può essere facilmente trasposta in campo cinematografico. Io, per esempio, l’ho scritto pensando di dividere il film in tre scene: la prima ambientata all’interno della scuola, l’altra nella casa del vecchio professore, il cui racconto, supportato da una voce narrante, può divenire una sequenza di flashback con i quali ripercorrere la sua particolare passeggiata in una città completamente deserta. Nella terza si svela l’identità del secondo personaggio, di nuovo nella casa del professore, intorno alla quale il mondo esterno ha ripreso la sua vita, mentre lui si appresta a lasciarlo.