Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Piccola utopia privata” di Diego Ragazzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Fu verso la fine di maggio, qualche mese dopo il mio rientro dalla Cina. Ero stato immediatamente assorbito dal lavoro, ma non riuscivo a trovare sollievo da un senso di cupa inquietudine. Un’immagine mi perseguitava nei momenti di stanchezza:  la visione notturna di Shanghai dal ventiduesimo piano dell’albergo, una selva di gru e impalcature che si perdevano nel buio e nella pioggia fine come polvere. Di fronte, due mozziconi di grattacielo crescevano letteralmente di giorno in giorno grazie al lavoro ininterrotto delle formiche umane. Potenti fasci di luce tagliavano la notte per consentire alle squadre di operai di lavorare 24 ore su 24. Avevo decisamente bisogno di rallentare, di immergermi nella natura e riprendere il colloquio con me stesso. 

Perciò, avevo pianificato con cura questo trekking sulla riviera ligure, da Monterosso a Porto Venere. La giornata era apparsa subito magnifica, soleggiata ed eccezionalmente limpida. Giunto all’altezza del Colle del Telegrafo decisi di tagliare per il sentiero a mezza costa. Avevo appena superato una piccola frana quando mancò improvvisamente l’appoggio sotto il piede destro e persi l’equilibrio. Sentii un colpo secco alla base del cranio e un lampo bianco mi accecò per un istante. Mi rialzai senza apparenti problemi, imprecando contro me stesso. Per fortuna ero abbastanza lontano dalla scarpata.

 

Per un tempo che mi parve interminabile proseguii il mio cammino lungo la costa. Non riuscivo ad orientarmi, avrei dovuto da tempo incrociare il sentiero che sale in quota fino a Campiglia. Un paio di volte avvistai alcuni animali infilarsi velocemente nel sottobosco al mio passaggio. La prima volta mi parvero cani, la seconda cinghiali. Dopo forse un’altra ora di cammino mi apparve una casa bianca affacciata sulla scogliera. La sua forma mi stupì, ma non saprei spiegare per quale motivo. Di fronte alla casa, guardando il mare, si apriva una terrazza di pietra inondata di sole. Di lato, un giardino con alberi da frutta. Riconobbi limoni e aranci singolarmente grandi, insieme ad altri frutti che non riuscii a identificare. Decisi di chiedere informazioni. Mi accolse un uomo dai tratti indefinibili, che giudicai poco oltre i trent’anni. Era molto alto, con un fisico slanciato e dalle proporzioni vagamente inusuali. Sembrava straniero, ma non riuscii a identificare la provenienza. Non parve sorpreso dal mio arrivo, e mi accolse con grande cordialità. Dalla casa uscì anche una giovane donna. Più scura di pelle, aveva qualcosa dell’Africa nelle movenze, ma gli occhi splendidamente allungati tradivano una possibile discendenza orientale. Mi invitarono a bere qualcosa sulla terrazza. Non avevano mai sentito parlare di Campiglia.

“Il sentiero sulla destra porta al paese, dista solo due chilometri”, mi spiegò l’uomo.

“Sulla sinistra, il sentiero sale e prosegue sul crinale per poi scendere fino alla chiesa sul mare”, aggiunse la donna.   

Non capivo di che cosa stessero parlando. Forse sono stranieri e vengono qui solo per pochi giorni all’anno, pensai. Parlavano un italiano curioso, con un accento indefinibile.

 

La donna si congedò temporaneamente e rientrò in casa.

“Siete originari di qui?”, domandai.

“No, siamo nati nel Pacifico del Sud.”

“Nel Pacifico del Sud? Siete australiani?”

L’uomo sembrò non comprendere e riprese ignorando la mia domanda:

“Mi chiamo Kai. Io e Hadiya ci siamo stabiliti qui da qualche anno, dopo aver molto viaggiato, perché il Mediterraneo è la terra della conoscenza, dove è cominciato tutto. Adesso siamo nell’età matura, desideriamo fermarci e perfezionare la nostra comprensione del mondo. C’è qualcosa nell’aria, nel pulsare del mare, nelle scogliere inondate di sole, nei profumi della terra, qualcosa che aiuta il pensiero a distendersi, l’intelligenza diviene più acuta, la speculazione più penetrante.”

Dovette notare il mio smarrimento, e si affrettò ad aggiungere:

“Capisco la tua sorpresa. Non càpita spesso che i nostri mondi vengano in contatto. Di solito dura solo qualche ora, se questa misura di tempo avesse un senso per descrivere la singolarità che genera la connessione. Probabilmente non ricorderai nulla della nostra conversazione, ma per il momento puoi farmi tutte le domande che desideri.”

 

Per un attimo ebbi l’assurdo impulso di andarmene senza fare domande. Invece chiesi:

“Il vostro mondo è sempre stato così?”

“No. È così da circa duecento anni, dopo un lungo periodo di transizione seguito ai grandi sconvolgimenti che hanno segnato la fine del ventunesimo secolo.  Verso la fine di quel secolo iniziò un periodo di instabilità diffusa, con frequenti conflitti. Le risorse sempre più scarse del pianeta non erano più in grado di soddisfare la domanda crescente di un’umanità ormai ben oltre i 15 miliardi di individui. L’interdipendenza della macchina economica era tale che bastava che un anello qualunque della catena si allentasse o si aprisse per gettare intere nazioni nella depressione, e in alcuni casi ridurle alla fame. Ci furono milioni di morti per fame alla fine del secolo. Le guerre rallentavano temporaneamente l’esplosione demografica, ma nel contempo riducevano le capacità dell’economia di sostenere la pressione crescente e la sete di risorse. Era chiaro che occorreva cambiare radicalmente il paradigma su cui si fondava lo sviluppo umano, se non si voleva l’estinzione pura e semplice della specie. Quando infine si fece strada la consapevolezza della necessità di mutare paradigma, il pianeta era allo stremo. La prima azione fu una riduzione drastica della popolazione umana, attraverso politiche di controllo volontario delle nascite che nel giro di un secolo decimarono la popolazione. Oggi siamo circa 250 milioni su tutto il pianeta. Poi fu necessario ribaltare il modello di sviluppo. Non più basato sulla produzione e la modifica dell’ambiente, ma sulla crescita della conoscenza e la fusione nell’ambiente.”

 

Ormai si era fatta sera. I raggi obliqui del sole accendevano una lama di scintille palpitanti sul mare. Una brezza piacevole portava i profumi dell’entroterra, liquirizia, timo, rosmarino, limone. Mi parve di scorgere un dorso scuro inabissarsi nel mare, proprio sul margine destro della lama di luce.

“Sono balene. Hanno ripopolato il Mediterraneo da una cinquantina d’anni”, mi spiegò Kai. “Avrai incontrato anche lupi e cervi lungo il sentiero”.

Ci raggiunse anche Hadiya, portando un enorme cesto di frutta.

“Probabilmente non conoscerai molti di questi frutti”, disse Hadiya con un sorriso. “Sono stati creati da Kai, è il suo passatempo. Non ti preoccupare, non ti faranno alcun male.”

“In che nazione ci troviamo?”, ripresi rivolgendomi a Kai.

“Non esistono nazioni, sono cadute in disuso da molto tempo. Siamo liberi di girare il mondo e stabilirci dove ci piace. Spesso riutilizziamo le vecchie abitazioni e i siti antichi. Viaggiamo solo sfruttando l’energia naturale: il vento, le correnti.”

“Quindi avete deciso di tornare alla natura, di abbandonare la scienza e la tecnologia?”

“Alcuni fecero questa scelta, e adesso popolano varie zone del pianeta. Hanno ricreato un sistema tribale simile alle società di cacciatori-raccoglitori delle origini. Ma la maggior parte di noi ha solo abbandonato la volontà di potenza, non la scienza e la tecnologia. La nostra tecnologia è così integrata nell’ambiente che è divenuta invisibile.”

“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”, mormorai.

“Osservazione interessante, è tua?”

“No, di un autore della mia epoca.”

“Abbiamo compreso i meccanismi fondamentali della macchina umana”, proseguì Kai. “Possiamo garantire il buon funzionamento del corpo almeno per duecento anni. Io e Hadiya siamo ancora nella prima metà della vita, abbiamo quasi settant’anni. La logica e la matematica, dopo i colpi inferti da Gödel, hanno trovato una nuova sintesi che ci ha permesso di espanderne i confini verso livelli di astrazione e profondità sorprendenti. La fisica continua ad approfondire la nostra comprensione della manifestazione materiale. Le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni si sono completamente integrate nell’ambiente. Possiamo accedere a tutta la conoscenza del mondo semplicemente ricordandola, grazie alle estensioni di memoria impiantate nel cervello. Possiamo comunicare con chiunque e in qualsiasi momento…”.

“… ma solo se lo desideriamo”, aggiunse Hadiya con il suo solito sorriso.   

“Capisco”, mentii. “Ma come funziona la società?”

“Tutte le energie dell’umanità sono state convogliate nello sviluppo della conoscenza. L’economia è basata unicamente sulla creazione e lo scambio di conoscenza.”

“In gioventù viaggiamo alla scoperta del pianeta”, disse Hadiya. “Poi ci prende il desiderio di fondare una casa e stabilirci.”

“Avete sconfitto la morte?”, chiesi senza molta convinzione.

“La vostra guerra contro la morte non ha senso. La morte è l’unica esperienza che ci consente di trascendere i nostri limiti. È un percorso lungo, per cui ci prepariamo tutta la vita. Gradualmente, cresce la nostra comprensione del mondo, e si sfumano i confini dell’io individuale. Quelli di noi che hanno ben oltre un secolo di vita hanno raggiunto un livello spirituale talmente elevato che non potresti conversare con loro, non riusciresti a comprenderli. Dopo circa duecento anni, l’uomo è pronto per affrontare se stesso e si ritira in solitudine. Nel corso di alcune decine di anni di contemplazione e meditazione, la sua coscienza individuale gradualmente si spegne per fondersi con una coscienza più vasta. Al termine del processo, il corpo viene cremato o viene lasciato esposto agli elementi naturali.”

 

La notte era calata. La piccola terrazza era illuminata dalla luce calda e tremante di alcune fiaccole disposte lungo il perimetro. Mi assalì una piacevole sonnolenza, aiutata probabilmente anche dal vino fresco e singolarmente speziato che avevamo bevuto. L’ultima immagine che ricordo è il sorriso luminoso di Hadiya, quasi materno. Ancora oggi non so che valore dare a questi ricordi impressi nei miei neuroni. Forse si tratta di un’immagine sfocata del delirio che mi prese mentre rimasi svenuto lungo il sentiero, poco oltre la frana. Da allora, tutte le volte che ritorno, dopo il Colle del Telegrafo prendo sempre per il sentiero a mezza costa, ma non ho mai più ritrovato la casa bianca sulla scogliera. 

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