Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Due impronte” di Giacomo Ricci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Erano ore che camminavo sotto il sole.
Dopo tanto tempo, dopo un periodo di lavoro incredibilmente senza soste, ero riuscito a ritagliarmi un giorno durante la settimana tutto per me. Ed avevo deciso di dedicarmelo alzandomi presto e iniziando di buon ora un lungo percorso a piedi. Partendo poco più in là dei confini estremi della città, là dove le case di periferia iniziano a diradarsi e il terreno a incresparsi in colline dolci e dai molteplici colori. Man mano che sentivo il mio corpo faticare, il mio cuore pompare, i miei muscoli spingere, le corde che tutti i giorni mi legano al mio posto alla scrivania e nella società si facevano sempre più lasche, fino a sciogliersi e cadere sull’erba che il sole non aveva ancora asciugato. Come tante molliche di pane che anziché servire per ritrovare la strada del ritorno, erano buone solo per perdersi in quella giornata di libertà.
La borraccia già esaurita mi suggeriva senza sosta di cercare una fontana o una delle case che si facevano sempre più rare, ormai lontani dalla città, per chiedere un po’ di acqua fresca e due parole da scambiare. Avendo deciso di lasciare la strada per avventurarmi nei sentieri, affidandomi esclusivamente al mio istinto e al mio senso dell’orientamento, mi sentivo immerso in un altro mondo, lontano anni luce da quello che avevo lasciato poche ore prima. Ed estremamente affascinante. Niente attorno a me mi dava una collocazione cronologica; boschi di pini, castagni e querce troneggiavano ovunque. Qualche ruscello solitario, nuvole(poche), e un cielo di smalto erano tutto quello che vedevo attorno a me. Potevo essere capitato in un angolo di mondo dove il tempo si era fermato cento o duecento anni fa, niente attorno a me confermava o smentiva questa ipotesi.
Ancora altre ore di cammino trascorsero, con qualche sosta nel mezzo. E continuando ad affidarmi al solo istinto -il senso dell’orientamento aveva già perso ogni cognizione- non potevo rendermi conto di dove fossi di preciso. Dietro la prossima collinetta avrebbe potuto apparire in lontananza la statale percorsa decine di volte, o un luogo di cui ignoravo completamente l’esistenza. Attraversando i monti a piedi potevo aver scollinato e raggiunto luoghi che in auto richiedono tragitti ben più lunghi. Anche questa era una nuova sensazione, in ogni momento della mia vita avevo sempre avuto la percezione, più o meno approssimata, di dove fossi. Adesso invece no. Dietro una curva del sentiero, di un bianco allucinante sotto il sole perpendicolare, si stagliò l’immagine di un piccolo borgo orgogliosamente seduto sulla cima di un promontorio. Ulivi antichi impreziosivano la vista, e il sentiero che sinuoso raggiungeva quelle poche case era accompagnato nel suo percorso da innumerevoli papaveri, e poi fiori gialli, viola e di mille altri colori. Il tripudio della natura risvegliata prepotentemente dalla primavera e di tutta la sua forza e vitalità.
Man mano che salivo verso l’agognato paesino, mi accorsi che vecchie pietre miliari e muretti costeggiavano, un po’ nascosti dall’erba e dai fiori, quel sentiero che un tempo doveva essere l’unica strada che concedeva l’accesso al paese. Mi sentii un viaggiatore di cent’anni prima, che a piedi arrivava in quel borgo per chissà quale commissione, cercando al suo arrivo un po’ di acqua, di ombra e quell’antica accoglienza e solidarietà oggi persa. In effetti al mio arrivo una donna, sulla quarantina, simpatica e solare mi si fece incontro. Gestiva un piccolo agriturismo , unica attività tra quelle tre case. Non potei fare a meno di chiederle dove fossimo, ma proprio mentre mi rispondeva la mia attenzione fu rapita dal cielo, che mentre ero indaffarato a superare la salita si era riempito di nuvole che improvvisamente si erano fatte cupe e minacciose. I lampi del temporale presero il posto dei raggi del sole, e la donna mi offrì subito riparo nella sua casa, dove avrei anche potuto riposare un po’. Preferii però starmene fuori sotto il porticato, dove mangiai il mio pranzo e aspettai che spiovesse, ammirando la bellezza dell’acqua che cade dal cielo. Appena le nuvole si diradarono salutai e ringraziai la signora per l’ospitalità, e dopo aver riempito la borraccia ripresi i miei passi.
L’aria fresca dopo la pioggia, il riposo che mi aveva dato nuova carica, i panorami bellissimi e l’arcobaleno che andava a cadere proprio nella direzione scelta dal mio percorso casuale, mi spingevano ad andare avanti. Senza pensare che, in una maniera o nell’altra, sarei dovuto tornare indietro, qualora non avessi voluto dormire in quei boschi. Altre due ore di cammino erano trascorse, ma la stanchezza era confinata in un angolo dalla sensazione di libertà, dalla piacevolezza di quei boschi e di quella fatica e dalla tranquillità di trovarsi in un ambiente che sentivo non poter essere in nessun modo ostile. Giunsi ad un lago, il cui nome non mi diceva niente. Probabilmente avevo raggiunto una zona veramente distante dalla mia città e dalla mia vita. Ormai le ore di cammino accumulate erano molte, le ore di luce sempre di meno, anche evitando le divagazioni che mi ero concesso all’andata erano appena sufficienti per fare ritorno alla mia auto prima che facesse buio. Ma decisi di andare avanti ancora un po’, un po’ incoscientemente e un po’ sicuro che comunque non c’era motivo di preoccuparsi. Una salita in mezzo al bosco costeggiava il lago, decisi di arrivare sul promontorio che lo sovrastava e di tornare indietro. Il dislivello era accentuato, e la fatica cominciava a farsi sentire, ma la temperatura si era fatta più piacevole e il sole non penetrava le folte chiome degli alberi. Il sudore cominciava a ghiacciarsi nel contatto tra la maglietta intrisa e la pelle.
Dopo pochi minuti di cammino cominciai a notare che le foglie degli alberi, dal verde acceso della primavera, cominciavano a farsi giallognole. E andando avanti il suolo si copriva di foglie secche, come se di colpo fosse arrivato l’autunno. Rimasi perplesso, oltre che meravigliato. Avevo quasi raggiunto la vetta della salita quando decisi di tornare indietro, si era fatto veramente tardi ormai. Ma un nitrito di cavallo attirò la mia attenzione, decisi di percorrere ancora qualche curva; dietro l’ultima c’era un maneggio proprio dove la vista inebriante delle due vallate separate da quell’altura si fondeva in un paesaggio bellissimo. E che non riconoscevo.
Rincuorato dalla presenza di quel maneggio e delle persone che accudivano i cavalli – stavano lì a testimoniare la presenza di una via alternativa e più comoda per raggiungere quel luogo – avanzai, fiducioso di poter chiedere indicazioni o al limite un passaggio, se troppo lontano da casa. Allontanata ogni preoccupazione, mi misi seduto su una delle numerose panchine posizionate di fronte a quel meraviglioso panorama, immerso nella pace di quel luogo. Riposai un po’, e mentre spostavo lo sguardo su ciò che mi circondava, notai distrattamente una struttura abbandonata nel bosco vicino, era un edificio alto e abbastanza grande. Rimasi lì ancora qualche minuto prima di decidere di alzarmi per andare a chiedere dove mi trovassi.
All’atto di alzarmi, la coda dell’occhio cadde nuovamente su quell’edificio abbandonato, incuriosito decisi di andare a dare un’occhiata. Giurai a me stesso che sarebbe stata l’ultima divagazione prima di riprendere la via del ritorno. Avvicinandomi notai tanti ceppi di alberi tagliati e portati via, le radici ancora affondate nel terreno, quei monconi che affioravano sembravano le croci in un cimitero. Continuai a camminare verso quell’edificio , quando d’improvviso le mie gambe si pietrificarono e io rimasi gelato. Quella frazione di secondo mi sembrò di viverla al rallentatore, sentii la bocca aprirsi da sola, incontrollata. D’una tratto, come a teatro, il fondale che mi circondava era stato tolto e sostituito con un altro uguale ma completamente diverso. Avevo riconosciuto quel luogo, a me un tempo così familiare. Quello che fino a quel momento era stato ignoto e senza alcuna collocazione geografica, d’un tratto divenne, pur rimanendo uguale, uno dei luoghi a me più cari. Quel vecchio edificio era l’albergo dove, da piccolo e per molti anni, trascorrevo all’inizio dell’estate le vacanze con i miei nonni. Tutto era diverso adesso, la folta pineta che lo circondava era scomparsa e al suo posto una boscaglia fitta e disordinata aveva ricoperto tutto, poco più in là era stato costruito il maneggio e l’albergo era caduto completamente in malora. E a giudicare dalle sue condizioni, da molti anni. Le finestre mancavano del tutto, i cornicioni e le grondaie penzolavano pericolosamente se non giacevano già a terra. Una rete arrugginita delimitava il suo perimetro di morte, ma si vedeva che in più punti era stata violata, infatti l’interno delle stanze, per quanto si potesse vedere da fuori, era pieno di scritte sui muri e annerito da falò clandestini. Mi avvicinai fino a trovarmi davanti all’ingresso, facendomi largo tra mobili vecchi e sporcizia accumulata. L’insegna non esisteva più. Il bar interno che si affacciava sul piazzale era stato completamente sfasciato, gli specchi dietro il bancone, un tempo sempre pieni di bottiglie, riflettevano di nuovo la mia immagine in lontananza, invecchiata dopo tutti quegli anni. Prepotentemente si fece largo tra i miei pensieri confusi il ricordo di quel bar, sempre pieno di voci e di musica, odore di caffè e di racconti. Le corse con gli altri bambini dentro e fuori, le coppie che ballavano dopo cena, la nonna che rimaneva incantata a guardarle danzare e che non si curava delle richieste del nonno che voleva andare a dormire. La piccola strada che conduceva all’albergo dalla via principale era allora sempre piena di gente, auto parcheggiate e voci allegre, per questo non l’avevo riconosciuta.
Un alito di vento portò via i miei pensieri, e tornai di nuovo davanti alla mia immagine invecchiata, riflessa da quegli specchi rotti. Presi la macchina fotografica e cominciai a scattare delle foto. Girai attorno all’edificio e dalle finestre rotte intravidi il grande camino della sala principale. Da bambino immaginavo quanto mi sarebbe piaciuto stargli vicino d’inverno a scaldarmi, con la neve fuori. Adesso era circondato di sporcizia, calcinacci e vecchi cestini del pane, brandelli di una passata – felice – quotidianità.
Feci per entrare, ma appena mosso un passo all’interno tutte quelle scritte, quel degrado e quella solitudine irreale mi spinsero subito fuori, con un misto di paura e di claustrofobia. Ancora non mi capacitavo per la grande sorpresa che avevo avuto, quando ripresi la via del ritorno.
Decisi di ripercorrere, di buona lena, la via fatta all’andata, volevo riflettere un po’ su quanto avevo visto. Mi domandavo come potevo essere giunto fin lì senza accorgermene. D’accordo non riconoscere l’albergo, così profondamente cambiato in tutti quegli anni, ma almeno i profili dei monti circostanti avrei dovuto riconoscerli. In realtà anche il lago era cambiato, un piccolo torrente vicino era stato deviato . Di quel laghetto che era meta delle passeggiate pomeridiane con i nonni era rimasto ben poco.
Sorprendendomi, ad ogni bivio azzeccavo la strada giusta, e forse ce l’avrei fatta a raggiungere l’auto prima che calasse il buio completo. Il paesino dove avevo trovato rifugio dalla pioggia si vedeva in lontananza, sempre seduto sulla cima della stessa altura. L’esplosione della sorpresa era avvenuta davanti al vecchio albergo, ma l’onda della deflagrazione si propagava con i miei passi. Ogni luogo lo vedevo con occhi diversi, ogni angolo poteva essere stato il luogo di un ricordo di bambino sepolto nella mia memoria. Tutto assumeva un sapore e una luce nuova. Avvolto nei miei pensieri, ricordavo quando i nonni assieme ai loro amici partivano a piedi, di buon ora, per raggiungere un paese vicino. Io rimanevo in albergo con gli altri bambini e qualche mamma che si prendeva cura di noi, ma me ne stavo triste ad aspettare il loro ritorno, volevo andare con i grandi a vedere quei luoghi che immaginavo bellissimi e misteriosi. Ma ero troppo piccolo per quelle camminate, e potevo solo aspettare che gli anni passassero. Poi quando crebbi, i nonni erano troppo anziani e quelle passeggiate non le facevano più.
Ebbi la sensazione che quelle loro escursioni non fossero altro che il percorso che stavo attraversando, e il borgo che ormai stava davanti a me la loro meta. Molti anni dopo e inconsapevolmente c’ero arrivato anch’io.
Con la mente rapita da questi pensieri accelerai il passo e un’ora dopo il tramonto raggiunsi la mia auto, parcheggiata ai margini della città. Quella sera mi addormentai presto, stanco caddi in un sonno così profondo da non lasciare spazio ai i sogni. Verso le tre di notte mi svegliai, mi sentivo riposato, il letto era riuscito a rinfrancare il mio corpo. La mia mente continuava però il suo incessante lavorio nella memoria, il ricordo dell’albergo abbandonato tormentava la mia curiosità e questa, per liberarsi, non poté fare altro che buttarmi giù dal letto per andare ad accendere il computer e vedere le foto scattate nel pomeriggio. Pochi scatti, ma poco era sfuggito all’obiettivo. Cominciai a cercare la nostra camera, quella che anno dopo anno ospitava le nostre vacanze. Era al terzo piano, ma non ricordavo esattamente quale fosse. Ingrandivo le foto sullo schermo alla ricerca di qualche dettaglio che mi consentisse di riconoscerla. Ma troppo tempo era passato, e stabilire con precisione quale fosse era difficile. Decisi allora di spegnere tutto e di tornare a dormire, ma quando spostai il mouse per chiudere l’immagine, per sbaglio azionai il comando dello zoom e l’immagine si ingrandì, proprio su di una finestra del piano di sotto.
Dall’apertura si intravedeva qualcosa di non ben definito, come un’ombra. Ingrandii ulteriormente l’immagine, e una volta messo a fuoco una lama fredda mi percorse la schiena. Tutto il corpo ghiacciato e immobile. Quell’ombra era la sagoma di una persona, visibile dal torace in giù, che tiene tra le dita un foglio con su scritto : “ CIAO GIULIO”.
La mia mente era assolutamente incapace di calmarsi e riflettere, e neanche di domandarsi chi fosse quella persona. Come e perché sapesse il mio nome e che sarei arrivato fin là, dal momento che nessuno, me compreso, lo poteva sapere. Raggelato tornai a letto, con gli occhi sbarrati attesi la mattina, quando presi l’auto e mi recai di nuovo in mezzo a quel bosco, davanti a quel vecchio albergo. In piedi davanti alla facciata sentivo che quell’ambiente, un tempo e fino a ieri pieno di momenti e ricordi spensierati, era diventato inquietante e irreale. In bilico tra la paura e la follia entrai dal retro, passai accanto al vecchio camino ma questa volta non lo vidi neanche. Cominciai a salire le scale e arrivai al secondo piano. Tutte le porte erano divelte e giacevano sul pavimento. Una sola era socchiusa, proprio quella della foto. Mi sentivo in una dimensione surreale, e forse è stato proprio quello a darmi il coraggio di aprire la porta, mentre mi imponevo di non farlo.
La stanza era vuota, dismessa e abbandonata come le altre. Al centro ma vicino alla finestra una scatola di legno, chiusa con dei chiodi. Due impronte di scarpe sopra. Si trovava nella posizione in cui la luce che entrava dalla finestra illuminava fino all’altezza del torace della figura, lasciando celato il volto. La sollevai, era leggera ma inclinandola qualcosa dentro si muoveva, qualcosa di leggero ma che si sentiva rotolare al suo interno. La tenevo sollevata e continuavo a muoverla, cercando di capire cosa contenesse dal rumore che faceva. D’un tratto uscii dal torpore sbigottito che mi avvolgeva, e resomi conto della singolarità della situazione in cui mi trovavo cominciai a correre a rotta di collo giù per le scale, cercando di scappare da quel luogo, anzi, volendo essere già fuori. La scatola era sempre tra le mie mani quando giunsi alla panchina vicino al maneggio su cui mi ero seduto il giorno prima.
Con il cuore a mille e il fiato grosso, più per la tensione che per la corsa, mi misi seduto con la cassetta sulle ginocchia, deciso a scoprire cosa contenesse. Tirai fuori il coltellino svizzero, e piano piano cercai di forzare la chiodatura. Ad ogni movimento sentivo il contenuto rotolare al suo interno. Dopo circa dieci minuti di lavoro riuscii a forzare completamente i chiodi, potevo sollevare il coperchio. Un sospiro e poi lo alzai…

Niente, quella scatola conteneva nulla. Nervosamente e con un sorriso di pazzo sulle labbra cominciai ad agitarla tra le mie mani…nessun rumore proveniva più da quell’oggetto, a terra niente, non era caduto niente. Pietrificato rimasi immobile su quella panchina non so per quanto tempo, incapace di capire e di spiegarmi quello che avevo visto e vissuto.
Ancora, a distanza di tempo, non riesco a capire . Riesco solo a scrivere queste parole, unica testimonianza di quanto ho vissuto in quei due giorni. Forse, aprendo quel coperchio, ho lasciato uscire la mia memoria, il mio passato, quello dei miei nonni o di qualcun altro…non lo so, non ne ho idea. L’unica cosa che so è che da quella scatola è uscito il mio senno…da quel giorno non lo trovo più.

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2 commenti »

  1. Un lungo viaggio nella memoria.

  2. Sei riuscito a tenermi sulle spine fino alla fine, sorprendendomi con questa tua storia surreale… Complimenti!

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