Premio Racconti nella Rete 2016 “Laddove” di Valentina Ferrari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Lentamente scendeva dietro di me.
Collo piegato indietro e poi a sinistra, poi di nuovo all’indietro e poi in basso.
Gli occhi socchiusi e poi la luna nella finestra del bagno, alta, oltre le colline.
Le mani strette al lavandino e poi i gomiti, stretti all’interno, sempre di più.
Poi gli occhi negli occhi nello specchio sopra il lavandino.
Quattro occhi grandi che si guardano alle spalle e dritti.
Apro l’acqua, la lascio scorrere. Mi bagno i polsi e dietro il collo. Respiro forte e stretta in quel bagno con i nostri asciugamani attaccati al muro e quello spazzolino nel bicchiere che abita un desiderio recondito di “casa”.
Suoni. Immagini.
Attimi cristallizzati nella luce calda.
Nette distanze, annullate da abbracci.
Verde e blu. E i contrasti in cui perdersi, affacciarsi, trovarsi.
Restiamo a guardare qualcosa che brilla, un po’ più in là.
Mi affaccio sul rebus spruzzato nel muro dai contorni netti di una bomboletta nera dalla tua finestra, dove si annulla la distanza tra il differenziato e un palloncino rosso volante anch’esso, intrappolato sul muro.
Antenne che vogliono raggiungere nuvole e infilarsi tra loro, ma sono ancora troppo lontane, mentre ruggiscono i tuoni al di là di quei tetti e tu mi aspetti con un the caldo nel letto.
Al di là dei soffitti, al di là degli spazi, si mischiano nell’ombra del cielo rimbombi e colori.
Da qui forse ritrovi la corteccia degli alberi, il verde dei rovi, mentre ti spogli alle mie spalle nello scroscio dei suoni. Si è freddato ormai il the, ma che importa.
Gli occhi si mischiano partorendo colori.
Le scale della casa erano fredde e il tuo corpo nudo adagiato lì in mezzo, sembrava di cristallo o di grano, sul punto di spezzarsi da un momento all’altro, ma così non fu. Sembrava un’ombra, una goccia d’acqua, un petalo, un rivolo che s’insinua in una fessura aperta.
Un baratro sulla realtà.
Hai gli occhi grandi di una promessa che sta per cedere, mentre nel silenzio ti chiudi, sparendo chissà dove nel labirinto che abiti, quello che ancora non conosco. Un patto, tacito accordo di un segreto ingenuo, speranza sottile ancorata alla ragnatela del quotidiano.
La verità, ci diciamo. Mentre mi guardi in silenzio con il viso adombrato, come un ciliegio d’inverno.
Nella tempistica di un pensiero che non è mai puntuale, che arriva quando smetti di contare i giorni, dimenticare i passi. Alberi, verde, acqua, bandiere. Colori nel caldo del cielo portati dal vento. E forse anche tu come una di loro, una di quelle bandiere, sei lì piantata, aggrappata a quel granello di sabbia umido, che ti lasci intenerire dal vento che arriva quando vuole e si approfitta di quel sale che hai addosso, arrivando a leccarti l’anima, nuda nel mare. Uno per uno, traccerei una linea con le dita su ognuno dei tuoi nei, ognuno di loro lo conterrei nella bocca, accarezzerei con le labbra adesso rosse e gonfie e salate di te e del mare.
Di te e del mare, un sapore che il vento asciuga addosso e non voglio toglierlo.
Ora non voglio toglierlo.
Un pensiero soffuso si fa spazio tra i rumori che fracassano le nuvole, stappa l’ancora dal buio, lo scalino che nel sogni fa cadere. Il risveglio.
È un attimo e sono in una bolla. Un giorno qualunque d’estate … e poi il bianco.
Il caldo sbatte alle finestre come un pettirosso impazzito.
Esco scalza sul terrazzo, mi piace sentire il freddo del pavimento sotto i piedi e mi affaccio alla ringhiera. Mi stringo nelle spalle e sono solo silenzio in questa estate stanca e fastidiosa come una zanzara. Guardo oltre le case, fino a perdermi dove non trovo più contorni a me familiari, dove tutto sembra etereo e indistinto. Il mio corpo sembra cambiare e in un attimo mi sembra quasi di essere inconsistente anch’io, persa tra l’afa e il fresco ma, all’improvviso, una specie di mugolio, rantolo, verso -sì, un verso!- mi riporta alla ringhiera: lei. Si rigira nel letto come una bambina, portandosi dietro il lenzuolo e continuando a dormire. Tutto quel silenzio mi sembra perduto ora, distrutto da un suo verso che forse neanche sa di aver fatto. Si agitano i ricordi. Mi aspetta nel letto, ad occhi chiusi, con un sorriso stampato sul volto.
Forse questa è l’ultima volta che la vedrò, in questo posto che non appartiene né a me né a lei. Faccio per toccarla, ma la mia mano affonda nel cuscino che sembra avere una strana consistenza, quasi velluto … lo stesso di quelle poltrone.
C’era la musica quando sei arrivata.
C’era la musica ed io galleggiavo nell’aria come un sospiro. Ha un che di particolare il teatro a quell’ora di sera.
Entri, sembri una ladra con il tuo passo leggero e furtivo; annusi l’aria come un segugio, come un bambino che scopre un odore nuovo. Avanzi e sei un gatto che vede nel buio, una talpa sotterranea che scava cunicoli nella sua cecità. La porta alle tue spalle, chiudendosi, emette un leggero cigolio. Ti dirigi a tentoni verso uno spiraglio di luce più grande che trapela da quella che, evidentemente, sembra essere una seconda porta più in là.
Ti avvicini, forse sono io ad avvicinarti senza saperlo. Entri con accortezza e tutto ciò che vedi è un palco, una luce soffusa che lo illumina e delle poltrone di velluto rosso. Rimani nell’ombra.
Non mi accorgo della tua presenza. Suono e mi sembra di essere solo musica in quel teatro così vuoto e gonfio. È me che stai rubando. Suono per te, ladra. In quel momento sei le mie spalle.
Che rumore avevi fatto, lo ricordi?
Mi volto di scatto, interrompendo il percorso delle mie dita sulle corde. Diventano mute con me.
Mi sembra di vederti ora, seduta all’ultima fila. Non ci giurerei, ma credo di averti visto sorridere.
Senza un perché ci ritrovammo nell’attesa infinita di un buongiorno, quella mattina d’estate, sprofondata in qualche angolo della memoria. Ci siamo allontanate in silenzio, senza voltarci indietro. Abbiamo preso l’autobus quel giorno, sperando che ci portasse in qualche posto, uno qualunque che avrebbe scelto lui.
Senza un perché ci siamo infilate un foglio scritto in tasca, sorridendo senza guardare.
Ci siamo trovate a sorseggiare una tazza di caffè, gli occhi persi negli occhi, il girotondo dei ricordi impauriti. Senza un perché ci siamo trovate a guardare la città di notte, a qualche metro di altezza, con gli alberi a proteggerci dall’infinito delle luci che brillavano, nelle prigioni di vetro dei lampioni. O forse erano occhi.
Dimenticami.
Respiro.
Riapro gli occhi. Mi avvicino al letto, socchiudendo il resto del mondo alle mie spalle.
Lentamente torno a voltarmi in direzione del terrazzo. Non sento più il freddo del pavimento, i miei piedi si sono abituati. Io … mi sono abituata a quelle evasioni notturne, tra l’erba che brilla, al di là della ringhiera, il velluto rosso, lo scricchiolio del legno. La nebbia. Un applauso.
Sono vicina, faccio per toccarti e darti il buongiorno … ma non trovo niente e la mia mano affonda sola nel cuscino. Chino la testa così, tra quelle lenzuola … e respiro l’assenza, la nuda forma del vuoto.
Cerco lei, il suo verso e … non c’è.
Laddove ci saranno suoni, immagini, delicate contorsioni della mente, lì ci sarai anche tu.
Ti troverò nelle scarpe che mi hai lasciato, nella sigaretta di cotone blu conservata con premura nel cassetto.
Nel mazzo di carte con cui ho smesso di giocare.
Nell’inchiostro intrappolato nella lettera “O” della macchina da scrivere, quello che non ho mai tolto.
Laddove ci saranno strade, tracce, sentieri, orme di passi, odore di terra e di foglie, rami tra i capelli e tronchi troppo lontani a cui sorreggersi, lì ci sarai anche tu.
Laddove ci saranno tutte le differenze, di sesso, colore, genere, forme, occhi, mani, nasi, ombre.
Lì ci sarai tu.
E ci sarò anch’io.
Cara Valentina, mi piace come scrivi, mi piacciono le tue delicate espressioni..un pò alla “Pilipphe Delerme”. Certo dare forma ad un racconto usando tanta poesia non è cosa facile…ma se ci riesce, credo ne possa nascere qualcosa di sublime…brava
Ciao Gloria, grazie davvero per le tue parole e la tua attenzione!
…Philippe Delerm..