Premio Racconti nella Rete 2016 “Odysseus” di Silvia Colonna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Stanno stappando una bottiglia di un qualche prezioso alcolico; non so cosa sia e francamente non mi interessa, ho solo riconosciuto quel gesto che hanno fatto così tante volte da non poterlo scordare mai più. Spesso il tappo è saltato via rimbalzando da tutte le parti; è forse questo l’aspetto principale che ricordo, quel piccolo affarino gommoso saltellante.Oggi c’è una grande festa, sono tutti allegri e brindano, chiacchierano, si fanno gli auguri. Qualcuno mi rivolge anche qualche parola – tenera, nostalgica, scherzosa – pochi istanti dedicati a me, prima di continuare a far baldoria insieme al resto della ciurma. Per il resto del tempo vengo ignorata, anche se la festeggiata qui sono io.Un festone con scritto ‘500’ campeggia a lato della sala, sopra una tavola imbandita con ogni bendidio; ovviamente ogni bendidio che sia possibile trovare nello spazio. Li vedo mangiare di gusto e mi chiedo come facciano a gradire quelle cose mollicce e appiccicose, per me non sono altro che un inutile modo per sporcare, per sporcarmi.Sento levare forte il mio nome, come levano in alto i calici: in mio onore. La festa è giunta al termine, la sala lentamente si svuota e ognuno torna alle proprie mansioni.In sala comandi, il timoniere inizia a premere dei bottoni in una sequenza che sa a memoria e quelli subito si illuminano uno dietro l’altro. Gli ufficiali si danno comandi, parole che non capisco, per me è tutto molto più semplice: accensione, partenza, spegnimento. E ovviamente c’è anche la funzione di salto interstellare, ma in fondo è sempre una partenza, l’andare da un punto a a un punto b, che sia navigando nello spazio aperto o con un ponte di Einstein-Rosen.Il motore è acceso, lo sento vibrare ansioso per il prossimo viaggio in un punto imprecisato che potrei definire come il mio basso ventre; all’altezza del mio petto, inizia invece a pulsare il congegno per creare wormhole, anche se non sempre viene utilizzato. Sento fremere anche lui, non con la stessa potenza del motore primario, ma è un solletico altrettanto irritante.Mentre inizio lentamente a muovermi, sento il capitano bisbigliare il suo ultimo augurio: «Buon cinquecentesimo viaggio, Odysseus.»Non so perché mi hanno dato quel nome, se ho ben capito deriverebbe da un vecchio, vecchissimo mito terrestre, un eroe epico. Non capisco queste due parole, non ho mai visto un ‘eroe’ in vita mia e non ho la minima idea di cosa possa essere definito ‘epico’, ma evidentemente hanno visto queste caratteristiche in me se mi hanno chiamata così.Ho accarezzato galassie di ogni sorta, visitato pianeti fra i più disparati. Il mio viaggio è sempre proseguito in avanti, verso nuovi mondi e nuove scoperte, non sono mai tornata indietro. Non sono mai tornata a casa. Non so dire se ne ho nostalgia; credo di no, sono una nave stellare dopotutto, non provo sentimenti.Ogni tanto qualche percezione mi coglie, come quella della gente che cammina per i vari ponti, colgo di tanto in tanto stralci di conversazione – per la maggior parte del tempo non mi interesso di questo – e poi c’è quella buffissima sensazione che chiamano ruggine. L’ho provata solo una volta, ma è stato un solletico troppo divertente. A volte la immagino nella polvere che si annida in ogni mio piccolo angolo, solo per ricordare, ancora un’ultima volta.Non siamo nemmeno a metà nel nostro viaggio che una spia inizia a lampeggiare, seguita da una seconda e poi da una terza: l’intera sala comandi è immersa in una pulsante luce cremisi. Scoppia il putiferio; c’è una falla sullo scafo esterno, sto perdendo materiale radioattivo. Se si perde nello spazio profondo non c’è nessun pericolo, ma se dovesse venire a contatto col mio nucleo generatore di wormhole potrei esplodere.Passano minuti interminabili in cui gli ufficiali tentano il tutto per tutto per rimettermi in sesto, ma non possono più correre rischi, non sono riparabile. Sento anche qualcuno dare la colpa all’unico divertimento che ho mai avuto, la ‘ruggine’. Poi quelle terribili parole che nessuno vorrebbe mai sentire.«Abbandonare la nave!»Il mio adorato equipaggio, con cui ho condiviso viaggi e avventure, sale sulle capsule di salvataggio, si sganciano, navigano lontano da me. Non voglio restare sola, non voglio morire. È forse questa che chiamano paura?Però non sono sola: il capitano è tornato nella sala dove solo poche ore prima mi stava festeggiando. C’è solo lui sulla nave, da una parte le sono grata per non avermi abbandonata, dall’altro vorrei tanto dirgli – urlargli – di mettersi in salvo come tutti gli altri. Sembra non volersene andare.Cammina lento, si versa da bere e si porta il calice alle labbra con una lentezza esasperante, poi parla. Parla a me, mi dice quanto ci tiene, che non vuole abbandonarmi, mi rivela cosa si cela nel suo cuore, si apre a me. E mi chiede scusa. Riempie un nuovo bicchiere e lo lascia lì, sul tavolo ancora imbandito; quel bicchiere è per me.Mentre il mio scafo inizia a cedere sempre più in fretta, il mio capitano corre verso la capsula di salvataggio più vicina evitando le scintille. Non ho labbra, ma emetto comunque un lamento: mi sto piegando in una curva innaturale, la mia schiena si sta spezzando.Vedo partire il mio capitano subito prima di rompermi a metà. Non posso dire addio, vorrei tanto farlo, ora che non sono altro che un relitto alla deriva. Posso fare solo una cosa: surriscaldo il mio cuore, gli permetto di funzionare anche se l’energia mi ha ormai abbandonata, e un piccolo tunnel spazio-temporale inghiotte il mio equipaggio portandolo al sicuro. Quello è il mio commiato a loro.E io resto lì, distrutta e alla deriva. Non esplodo, ma sono come morta perché nessuno, mai, verrà più a cercarmi o mi userà per un nuovo viaggio. Spero solo che il mio ricordo resti nei cuori di chi ha esplorato lo spazio profondo in mia compagnia.
Un racconto molto originale e scritto bene.Complimenti
Ciao Silvia. Condividiamo la passione per la fantascienza a quanto pare. Bella e originale l’idea di dar voce a una navicella spaziale, umanizzandola e raccontandoci il suo punto di vista. Una buona prova, anche per la buona conoscenza della ‘materia’ (hai letto Stephen Hawcking per caso?).
La strada mi sembra quella giusta, io insisterei. Solo un consiglio, se posso. Esistono molti concorsi letterari di genere, punta su quelli.
In Italia la fantascienza fuori da certi ambiti fatica ad imporsi (te lo dice uno che lo scorso anno ha partecipato con un racconto di fantascienza “LA TORRETTA DI GUARDIA” tra i più letti e commentati di sempre e che ha dovuto accettare il verdetto della giuria). Il racconto è ancora lì qui sul sito, puoi leggerlo se vuoi e lasciare un commento, mi piacerebbe conoscere il tuo parere. Ciao