Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Rocket” di Michele De Negri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

«Un’ambulanza. Dài, sembra una barzelletta. Come quella dell’autobus: “scusi, dove devo prendere l’autobus per andare al cimitero? In faccia”. L’ha preso in pieno un’ambulanza che andava agli ottanta e non si era fermato col rosso all’incrocio; non poteva fermarsi, era un’emergenza. Raffaele, tra il motore della moto da cross e i Coldplay nelle orecchie, non ha sentito la sirena. Dài, una barzelletta, no? Capisci perché non posso baciarti, qui, ora, oggi?».
Giulia fa un passo indietro, si appoggia contro il muro. Ha gli occhi liquidi.
«Una volta ci eravamo scambiati. Io e Raffaele. Eravamo a un parco giochi, c’erano i dinosauri di plastica enormi. I miei genitori e i suoi genitori. Stava tramontando il sole, i grandi si stavano salutando prima di ributtarsi in autostrada. Noi eravamo piccoli, molto bassi: arrivavamo appena alle anche dei nostri genitori. Era strano il mondo da lì, vedevamo tutto a metà, un sacco di piedi. Io ero stanco, sai quando ti inizia a dondolare la testa? Volevo andare a casa. Ho fatto qualche passo all’indietro, e ho appoggiato la schiena alle gambe larghe di mia mamma. Le ho detto: “andiamo a casa?”, e ho strascicato tutte le vocali, più a lungo possibile, per farle sentire tutta la mia sofferenza. Lei mi ha detto “ora andiamo, tesoro”, e mi ha accarezzato la testa. Poi un sussulto. Aveva chinato lo sguardo su di me. Non ero suo figlio. Lei non era mia mamma. Era la mamma di Raffaele. Da piccolo ero un po’ biondo anche io, visti dall’alto ci potevamo confondere. I genitori si sono messi a ridere. Io mi sono vergognato tanto. Ci eravamo scambiati per un attimo, mi sembrava una cosa incresciosa».
«Sì, ma cosa…»
«Ascoltami, Giuli, ti prego!»
Giulia la prende male, mette un broncio carinissimo che le appallottola il mento.
«Ti prego», ripete lui.
«Ochei», e Giulia scioglie il mento e allontana lo sguardo, in ascolto delle parole impastate del ragazzo. Rocket lancia un guaito, si siede sulle zampe posteriori, apre la bocca, tira fuori la lingua e sbava.
«Non se lo potevano portare dietro?», dice lui.
«Piantala. Almeno siamo da soli, per una volta! Ti muovi a…»
«Dài, Giuli ti prego! Lasciami finire».
«Cazzo, parla!»
«Dicevo…», guarda il soffitto e prova a ricordarsi.
«Che eravate biondi entrambi e…»
«Ecco! Ci eravamo scambiati. Capisci? Ci eravamo scambiati una volta, perché non rifarlo? Voglio dire: perché sua mamma ora non vorrebbe rifarlo? Cioè, dài: un’ambulanza. Quanto darebbe sua mamma per scambiarmi ora, con lui? Io sotto quel lenzuolo bianco, vicino a me il rottame di una moto da cross, l’ambulanza che ci pensa un po’ – vado dritto con il paziente che ho dentro, mi fermo e soccorro quello che ho appena messo sotto, vado dritto, mi fermo, ne carico due? –, poi si ferma, per fortuna. Ma tanto non serve a niente. Ho il collo rotto. Dài, quanto darebbe sua madre per fare scambio ora? E mentre Raffaele se ne va, io rimango qui, continuo la mia vita da sedicenne, faccio cose da sedicenni. Tipo, magari, mi metto anche a dare il mio primo bacio a una ragazza. Capisci? Non posso farlo. Non posso continuare la mia vita, rubandola a un altro».
«Ma ti sei drogato?», gli dice Giulia, che non sa neanche cosa vuole dire essere drogato, ma a scuola si sente dire.
«Giuli, ti prego, eddài! Prova a capire. Afferra il concetto. È come negli scacchi, quando un pedone mangia un pedone. All’inizio corrono, fanno due salti a testa. Poi un passo uno, un passo l’altro. Finché non sono vicini, uno di fronte all’altro, un po’ obliqui. Tocca a chi tocca. Il primo a cui capita fa il salto laterale, si mangia il pedone dell’altro, e in quella casella – quella dove prima c’era il pedone del tuo avversario – ora c’è il tuo, di pedone. Sostituito! Il tuo va avanti per il tabellone, l’altro esce dalla scacchiera e guarda dagli spalti. Ma non è bravura, quella del pedone. È fortuna. Chi arriva, arriva. È terribile no?»
«Così è», dice Giulia. Rocket si è stancato di aspettarsi qualcosa da noi. Si stende sulla sua pancia grassa a pelo corto. Sta lasciando un laghetto di condensa sotto il suo naso.
«Così è, ma non va», continua lui, impossessato. «Non posso, Giuli».
«Ma santo cielo, io manco lo conoscevo questo tuo amico. Non saremo mai più da soli in casa mia».
«Andremo in un parco».
«Come i drogati!»
«Ma tu manco sai cosa sono i drogati, Giù! Ti prego, piantala con i drogati e prova a afferrare il mio concetto».
«Ma io non voglio afferrare nulla, se non la tua vergine lingua di ragazzino».
«Ma come parli, ora?»
«Mi baci, dannazione?»
Lui alza le mani. Fa una piroetta, cade sul letto dei genitori di Giulia: prono.
«Non hai capito niente», dice una voce ovattata dalle lenzuola.
«Non ti sopporto quando fai il filosofo, Mò».
«Eccola lì», lui si tira su, siede sul bordo del letto con la schiena curva, «prima i drogati, ora i filosofi. Ma nomi con un senso, tu, mai? Guarda che non ti ho riempito la testa mezz’ora solo per romperti. C’è un motivo, sai, se faccio così. Se sono… bloccato! Non è la prima volta che mi succede».
«Cosa, ti succede?». Giulia si è seduta vicino a lui, si appoggiano l’uno all’altra come sassi.
«Questa cosa del pedone. Mi è già successa una volta. Che io vado avanti, in cambio di qualcuno che si è fermato».
«Non ci credo…»
«Ti giuro, Giuli. Due anni fa. Prima liceo. Hai presente il saggio di teatro? La recita?»
«Eh», Giulia sbuffa.
«Che è stato?»
«Niente, è Rocket che russa».
«Ma i cani russano?»
«E sognano. Ma chissene? Ti muovi con la storia?»
«Sì», lui esita, guarda il soffitto.
«La recita di prima liceo…», lo imbocca lei.
«Ecco, la recita. Per una volta non facevo un ruolo del cazzo. Cioè, tipo che entravo a due secondi dalla fine, dicevo una battuta e sipario. Ero protagonista, Giuli. Pro-ta-go-ni-sta. Puck».
«Ma Puck non è il protagonista!»
«E chissene? Certo che lo è, lo hai visto L’attimo fuggente?»
«Quello con l’amico di Dottor House da giovane? Sì, sì. Wow».
«Appunto…»
«Eri pro-ta-go-ni-sta», Giulia scandisce con uno sbadiglio.
«Ecco. Protagonista assoluto. Un mese a ripetere le battute. Mi alzavo alle 6:00 di mattina, e leggevo, provavo a ripetere. Poi la sera prima di andare a letto, come un’Ave Maria. La sapevo perfetta, Giuli, perfetta».
«E stica’».
«Infatti. Anche il costume, me l’ero fatto io, con foglie di carta crespa di tre tonalità. Insomma, è il giorno della recita. Vado in scena perfetto, sublime. Quando esco di scena, tutti i compagni che mi dicono che sono portato, che sono una forza, che devo fare l’attore. Anche la prof di Latino, estasiata. Quando usciamo, i genitori degli altri, in visibilio. Le bidelle, un trionfo. Poi vado dai miei. Bravo, una mano sulla spalla. Mio papà distantissimo, gli occhi appannati. Avrà dormito, penso. Come quando mi porta al cinema».
«Poi arriviamo a casa, mi faccio una tazza di latte e biscotti, perché la performance mi ha messo fame. I miei mi bloccano sul frigo, con lo sportello aperto mentre sceglievo la bottiglia che scadeva prima. Mi dicono: “è mancata la nonna”. Di mio papà. La mamma di mio papà».
«Cazzo, Mò».
«Eh! “Ma quando?”, dico. “Stasera, qualche ora fa”. Cioè, quando era iniziata la recita, più o meno. Mio papà le aveva detto ciao, si era fatto il suo pianto, e era venuto alla recita. Arrivando in ritardo, implorando di entrare perché dentro c’ero io che facevo il protagonista. Capito? Il giorno della mia nascita, del mio debutto al mondo, della mia fioritura come talento. Se n’era andata la nonna. Mi aveva lasciato il posto. Anche lei, come Raffaele. Si sono messi da parte, per lasciarmi andare avanti. Ma io non posso reggerla questa pressione. Perché me? Perché sacrificarsi per me? Sono sempre un pedone. Un cazzo di pedone come lo erano loro. Non ho niente di speciale, sono solo partito prima. Culo. Culo sfondato.
«Capisci, Giuli, perché non ti posso baciare? Non posso darti il mio dannato primo bacio, dopo che due – due! – mi hanno lasciato il posto. E chissà quanti ne accadranno ancora. Chissà quanti mi daranno questa fiducia, completamente infondata. E allora penso di avere qualcosa di speciale: tipo Spiderman, tipo Harry Potter. Un prescelto dagli altri. Però, ti giuro, io non ho ancora sentito niente: nessun potere o altre specialità. Sono nullo, e mi sento una cacca secca per aver preso il posto di altre due persone e in cambio non fare nulla. Non riuscire manco a dare un semplicissimo primo bacio a una ragazza gnocca come te. Dài, Giuli, dài. Perché?»
Lui si volta verso il corpo di Giulia, adiacente al suo, ma ormai sdraiato, assopito sul letto materno. Ronfa come il suo cane bulldog.
«Ti ho annoiato per bene, eh, Giuli? Sono un disastro cosmico».
Si alza in piedi, gironzola per le stanze di quella casa vuota abbandonata dai genitori della sua fidanzata.
«Che bella roba. Me ne sto qui a parlare da solo. Hai casa libera, e parlo da solo, mentre tu dormi insieme al tuo cane. Bella roba. Non potevo baciarti, e finirla lì? Mica è complicato. Apri la bocca, ci butti la lingua. Giri. Invece no. Filosofeggio. Parlo che sembro pure drogato. Faccio il filosofo drogato, dài!»
Ora è in cucina, conta le calamite sul frigo.
«Che poi non sono l’unico. Almeno quello. Non sono l’unico prescelto. Glenn Miller. Il carinettista di Glenn Miller. Anche lui ha avuto fortuna. Il clarinetto prima non se lo filava nessuno. Poi una sera, prima di un concerto, uno dei sassofonisti si è scheggiato un labbro. Forse bevendo da una lattina. Non poteva suonare, allora l’hanno sostituito con il clarinetto. Che è come sostituire uno squalo con un’acciuga. Una pelliccia con una canottiera. Ma comunque. Glenn Miller non era il primo che passava. E l’ha fatto suonare, quel clarinetto, insieme ai sassofoni. E ha coniato il suono di Glenn Miller. Un bel colpo per il clarinettista».
Ora è nel salotto, guarda i quadri di casa d’altri, e si chiede perché siano stati scelti.
«Certo, mica è morto, il sassofonista. Un conto è scheggiarsi un labbro, un conto è rimanerci. No. Decisamente, io sono il peggio. A prezzo più un alto, hanno preso uno per niente speciale. Almeno Glenn, in cambio solo di un labbro, si è costruito una carriera. Io nulla. Non ho dato nulla in cambio. Che poi come si fa a parlare di Glenn Miller a sedici anni? Manco volessi fare colpo su una tipa. Dannato Discovery Channel».
Ora lui è di nuovo nella camera coniugale. Rocket sente i suoi passi e alza il muso umido, subito sveglio. Lui si accuccia all’altezza del cane, come fanno i grandi coi bambini piccoli.
«Siamo rimasti io e te, Rocket. Non è che mi rimani tu, in cambio di lei, ora che dorme? Devo baciare te?».
Poi torna a altezza uomo, si inclina sulla sua Giulia appisolata. Le stampa un bacio sulla bocca dischiusa dal sonno.
Poi si volta, sta per lasciare la stanza e lasciare la casa e lasciare dormire la sua ragazza.
«È per questo che sei speciale», dice la voce rauca di Giulia.
Lui si gira e la vede in mezzo al corridoio che si lega i capelli in una coda.
«Hanno fatto bene a lasciarti andare avanti», dice Giulia.
«Non dire stronzate», fa lui mentre ha già aperto la porta di casa e se la sta tirando dietro. «Non ci ho nemmeno messo la lingua».

 

 

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6 commenti »

  1. Interessante, adolescenziale ma profondo. Molto valido.

  2. Molte grazie, Costantino. Cerco sempre di tornare a quella sorta di linguaggio ancestrale che è la pappa di parole che si forma quando l’individuo è ancora in via di sviluppo.
    Ti leggerò a mia volta.

  3. Veramente molto bello! Ho sempre letto i monologhi con un po’ di scetticismo, perché il rischio di annoiare il lettore è sempre dietro l’angolo, ma qui, grazie alla tua originalità, posso dire che la prova è stata brillantemente superata. Hai detto tante cose interessanti in una piacevole confusione da ragazzini con il risultato di essere molto convincente. Bravo!

  4. Sarà che il Giovane Holden è uno dei miei libri preferiti, ma quando trovo personaggi che incarnano la confusione dell’adolescenza, ci resto attaccato. Costruito benissimo, a tratti divertente, a tratti profondo e con un finale bellissimo. La lingua ce l’hai messa, altroché. Su una pagina bianca, ma ce l’hai messa. Ed alla grande Michele. Complimenti.

  5. Grazie Patrizia e grazie Demian, le vostre sono parole apprezzatissime.

  6. Bello e profondo. Credo che il mondo adolescenziale sia difficilissimo da rappresentare eppure… Il dialogo è perfetto. Fa sorridere e intristisce allo stesso tempo.

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