Premio Racconti nella Rete 2016 “Michelangelo Sparamonti” di Silvana Sonno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016I.
Di quel sabato di fine settembre ricordo ancora il freddo pungente, insolito per la stagione, e la foschia che già dal primo pomeriggio aveva cominciato ad addensarsi sulle viuzze del centro storico che si dipanano intorno alla nobile piazza di Arezzo, mentre mi aggiravo tra i banchi e i rumori della fiera antiquaria mensile. Un appuntamento a cui cerco di non mancare mai.
Le belle madie e i severi armadi dell’ottocento contadino, le pile di vasellame un po’ sbreccato, uscito chissà come dai salotti del decoro borghese, dove i servizi delle nonne hanno ceduto il posto alle porcellane seriali; le curiosità variopinte dell’artigianato orientale, e il materiale ottico che i russi espongono accanto alle inevitabili matrioske, e solo raramente a qualche prezioso fischietto in terracotta decorata: caprette e uccellini di lontana fabbricazione sovietica; il suono bolso dei flauti andini che mi raggiunge da qualche banchetto periferico, mischiato alle onde profumate degli incensi … tutto si compone in un’atmosfera capace, ogni volta, di farmi sentire come un’astronauta che si è imbattuta in una di quelle particolari increspature dello spazio-tempo, in cui è possibile ogni compresenza.Certo, i bei pezzi dell’antiquariato vero, quello per cui Arezzo va orgogliosa, solo ogni tanto occhieggiano tra la cianfrusaglia, ma è sempre possibile ammirarli nelle vetrine e dentro i negozi che accompagnano le strade ingombre. E proprio in uno di questi negozi, in cui ero entrata più che altro per scaldarmi un po’, prima di riprendere la via di casa: cinquanta chilometri più a est, altro spazio, altre storie; proprio lì è successo. L’ho visto.
Michelangelo Sparamonti, conosciuto e perso una tarda sera di almeno trent’anni fa. Non c’era da sbagliare: quel viso roseo dall’espressione attenta e un po’ pedante, per le piccole labbra strette tra le guanciotte piene; quell’inconfondibile caschetto di capelli biondicci pettinati compostamente all’indietro, a incorniciare le orecchie, quasi una pettinatura femminea, se non fosse per un accenno di calvizie che allargava la fronte già ampia e liscia, da bambolotto di celluloide; quell’età indefinita già trent’anni fa.
Michelangelo Sparamonti: credevo di averlo dimenticato e invece il suo ricordo era sempre stato acquattato dentro la mia memoria, ed era balzato fuori, come un pulcinella dalla scatola, appena me l’ero trovato nuovamente davanti.
2.
Avevo otto anni e anche quell’estate, come tutte le estati di cui avevo memoria fino a quel momento, mi trovavo in vacanza in Valnerina, al campeggio.Mio papà era un fanatico delle vacanze “naturali” e appena veniva la bella stagione, in pieno boom economico, quando tutte le mie amichette ripiegavano nelle valigie i completini da spiaggia e da passeggio, che le sarte confezionavano secondo i suggerimenti di certe riviste di moda che si vedevano circolare nelle case, appena l’aria cominciava a profumare di sole, e insieme alle loro famiglie si apprestavano a raggiungere il mondo incantato delle pensioni della riviera adriatica, noi – e intendo i miei genitori ed io – caricavamo in macchina la vecchia tenda, le pentole più scassate del nostro repertorio domestico, scatole di pasta e pelati, tanniche d’acqua, pochi vestiti pigiati in un’unica valigia, le scarpe più usurate ma comode, e ci dirigevamo verso la Valnerina, in quel posto che aveva incantato mio padre e mia madre in un momento imprecisato della loro vita prima della mia nascita.
Tutto sommato quel modo di passare l’estate a me non dispiaceva, sia peché non avevo esperienza d’altro, sia perché quello che mi premeva più che tutto era compiacere mio padre. Sentivo la responsabilità d’essergli figlia e figlio: non avevo fratelli né sorelle e avevo capito, non so dire da qualii sprazzi di conversazione strappati all’intimità dei miei genitori, che non ne avrei avuti mai; per cui dovevo assecondarlo con la mitezza di una fanciulla, ma anche stargli al fianco, accettandone le regole e i punti di vista, con la fiera determinazione di un ragazzo. Se papà diceva: Campeggio! Campeggio aveva da essere.Neanche mia madre si lamentava, ma in quell’estate dei miei otto anni lei era per me una figura minore, che certamente amavo, ma non interssante ai miei occhi di bambina un po’ confusa quanto a identità di genere.
Il campeggio dove montavamo la tenda ogni anno non era ben attrezzato come quelli di oggi, anzi lo definirei piuttosto uno spiazzo erboso a ridosso di un’alta collina dove, per consuetudine, un certo numero di famiglie si ritrovava all’inizio di ogni estate, per condividere i piaceri della vita all’aria aperta, delle passeggiate nei sentieri di montagna, della pesca alla trota nei gelidi ruscelli, delle chiacchiere intorno al pasto serale, alla cui preparazione tutte e tutti partecipavano, come a una sorta di cerimonia tribale, ritmata dal canto dei grilli e delle ranocchie, e osservata dalle stelle più numerose e lucenti mi sia mai stato dato di vedere nei cieli dei miei anni a venire.Da giugno a settembre quel solitario prato della vallata del Nera si animava di tende e personaggi abbastanza simili tra loro, a parte le inevitabili differenze di sesso, che all’epoca non rimarcavo più di tanto.Purtroppo erano piuttosto simili anche per età perché, stranamente, in quel singolare gruppo umano scarseggiavano i bambini, e questo era il mio più importante motivo di scontento, poiché anch’io sentivo ogni tanto il bisogno di uscire dal cono d’ombra che la famiglia mi proiettava costantemente attorno, mio padre in testa.Per fortuna quell’estate arrivò Helèna e, come è logico aspettarsi, diventammo in poco tempo inseparabili. Si trattava di una bambina più o meno della mia età, figlia di italoamericani da poco ritornati stabilmente in Italia, perché “… carina, l’America sta qua!”. Helèna ripeteva spesso, ma con scarsa convinzione, questa frase con cui il padre cercava di consolarla della perdita degli amici, delle compagne di scuola, delle strade e della gente a cui era abituata, e che amava ricordare con nostalgia ogni volta che glielo permettevo. E glielo permettevo spesso, perché quel suo modo buffo di pronunciare le parole mi faceva ridere, e mi affascinavano anche le sue storie che, qualunque fosse l’argomento, finivano sempre per avere a che fare con lo zio Mike, che presto sarebbe venuto e l’avrebbe riportata negli States. Lo zio Mike era l’unico della famiglia ad aver “fatto fortuna” e, in occasione della partenza di Helèna per l’Italia, le aveva regalato una moneta d’oro montata a ciondolo che lei portava al collo, appesa a un cordoncino.
Il gioco che io e Helèna amavamo più di ogni altro consisteva nell’andare a vagabondare per il bosco che si apriva subito fuori dal campeggio, a cercare gli gnomi. Per la verità all’inizio io avevo insistito per cercare le fatine, ma Helèna era stata perentoria nell’affermare che i boschi sono popolati da gnomi, tutt’al più da folletti o elfi, e che cercarvi fate era una perdita di tempo.
Lo zio Mike le aveva raccontato che la moneta d’oro proveniva da una vecchia pignatta di coccio, dove erano custodite molte altre monete, saltata fuori un giorno – inaspettatamente – da sotto delle vecchie radici, grazie a una ruspa, che stava preparando il terreno dove la sua impresa intendeva costruire un centro commerciale. In quel luogo di sicuro un tempo c’era un bosco e gli gnomi che lo abitavano vi avevano sepolto il loro tesoro … La mitologia nordica a cui attingeva la mia amichetta americana nell’imbastire le sue storie aveva il fascino esotico di un mondo lontano, che improvvisamente mi si rivelava ed era a portata di mano, proprio lì, nei boschi della Valnerina, per la magia di un incontro speciale. Per questo accettavo di buon grado di mettere da parte le mie convinzioni sulla natura degli esseri che popolano il piccolo mondo, e che affollavano le mie fantasie di bambina, nutrite di cenerentole e belladdormentate, con le loro speranze di riscatti e risvegli fatati.
Bisogna saper cercare, diceva sempre mio padre; bisogna avere gli occhi aperti e cogliere i segnali in cui la gente sciocca inciampa senza averne consapevolezza. Chi cerca trova … e certi funghetti appena spuntati alla base di qualche querciolo e trovati stranamente decapitati, la corteccia dei tronchi abrasa in alcuni punti in modo sospetto, dei fiorellini con le corolle adagiate, come calpestate da un piede leggero, una sottile via viscosa che segnava tra l’erba inequivocabili sentieri segreti … tutto indicava che gli gnomi erano lì da qualche parte (forse invitati a un banchetto di fate?). Alla fine di ogni giornata, prima del buio e della cena, io e Helèna facevamo il punto delle nostre scoperte e aggiornavamo la nostra particolare mappa del bosco, o almeno della porzione di bosco che i nostri genitori acconsentivano a farci esplorare.Da un certo momento in avanti, non ricordo come e perché successe, ma forse per imprimere un maggior ritmo a delle giornate che finivano per essere un po’ tutte uguali, il gioco degli gnomi diventò una vera e propria gara tra me e Helèna. Cominciammo a frugare il territorio separatamente, per potere la sera confrontare le rispettive scoperte e stabilire chi delle due era più vicina alla meta, che consisteva nel portare la prova certa (udite,udite!) dell’incontro con uno dei favolosi abitanti del bosco.
E fu così che un tardo pomeriggio di quell’antica estate della mia vita mi trovai da sola a seguire una traccia misteriosa, fatta di piumine colorate, cappucci di ghiande, bacche appassite lontano dai cespugli di origine, mucchietti di terra smossa, e altri segnali d’incerta natura, ma irresistibili per un occhio allenato all’investigazione.Ero così intenta nella ricrca, così desiderosa di superare Helèna, che puntualmente mi sbalordiva con la varietà dei suoi reperti e con le mirabolanti interpretazioni che ne dava, incurante delle mie stentate obiezioni, in verità dettate più dall’invidia che da rigore logico-scientifico; ero così assorta nei miei ragionamenti e nelle mie fantasie di rivincita, che non mi accorsi: primo, che il cielo si era oscurato di nuvoloni minacciosi; secondo, che mi ero allontanata oltre il consentito, tanto che le tende del nostro piccolo accampamento non erano più in vista, e neanche il consueto sentiero.Quando capii di essermi persa il cielo era quasi tutto coperto e il buio precoce rendeva sempre più indistinto il paesaggio. Girai velocemente attorno lo sguardo, alla ricerca di un punto di riferimento riconoscibile; di un segnale amico. Chi cerca trova … e finalmente scorsi un profilo scuro, che riconobbi per quello dell’alta collina ai cui piedi si trovava il campeggio; così, senza troppo pensare, decisi di incamminarmi da quella parte, anche se, per farlo, dovevo attraversare un bosco sconosciuto, non solcato da alcun sentiero.
E’ una scorciatoia, mi ripetevo, il campeggio è là e tra poco le tende saluteranno il mio ritorno.Nonostante un leggero tremito alle ginocchia e qualche difficoltà di deglutizione, mi rappresentavo come uno di quei personaggi coraggiosi che sfidano ostacoli e pericoli per raggiungere le proprie mete (o forse per compiacere i propri destini), di cui mi raccontava mio padre, quando dava il cambio alla mamma per convincermi a mangiare la minestra serale, nei periodi di ostinata inappetenza che mi coglievano durante gli inverni.
Tenendo d’occhio la sagoma sempre più scura continuai ad avanzare, finché, all’improvviso, senza alcun segnale premonitore, la montagna esplose. Tutto uno sfolgorio di schegge incandescenti
si sparse nel cielo, rischiarandolo a giorno, e il fragore di cento fucili inchiodò il mio passo al punto esatto in cui mi trovavo al momento dello scoppio, impedendomi di andare oltre. E meno male, perché alla luce di quel fragoroso bagliore mi accorsi che, un passo più avanti e sarei precipitata in uno di quei dirupi dei territori di montagna, di cui i miei genitori mi raccontavano, a orride timte, per convincermi a non allontanarmi troppo.
Nel momento stesso in cui mi resi conto della situazione e del pericolo che mi minacciava sentii una voce alle mie spalle: – Bambina, sai indicarmi la strada per… – e nominò un paesotto a pochi chilometri dal campo. Mi voltai di scatto e vidi un uomo su cui concentrai immediatamente l’attenzione, evitando così che il panico avesse la meglio sui miei pensieri. Alla luce dei fuochi che continuavano a illuminare il cielo, ne colsi rapidamente i tratti principali: non troppo alto, età indefinibile, vestito di un impeccabile completo blu, che stonava con il luogo in cui ci trovavamo e che subito mi convinse che non poteva trattarsi di uno gnomo. Aveva un’espressione attenta e la bocca atteggiata come chi sta per dire qualcosa di importante, ma invece, dopo quella prima domanda tacque, limitandosi a fissarmi con aria pedante. Certamente aspettava una risposta da parte mia, ma poiché io continuavo a scrutarlo senza parlare, dopo un po’ riprese:
– Che ci fai a quest’ora nel bosco? Dove sono i tuoi genitori? Perché ti lasciano girare da sola?
Punta sul vivo per quel non tanto velato rimprovero alla mia famiglia, come se niente fosse succeso girai lo sguardo e indicai con la mano la direzione che avrei dovuto seguire e invece avevo perso, e mi incamminai da quella parte con ostentata sicurezza, lasciandomi alle spalle la montagna ingannatrice, che continuava a riempire di lapilli variopinti il burrone su cui il mio piede era rimasto sospeso solo qualche minuto prima. Lo sconosciuto prese a seguirmi e camminammo a lungo in silenzio. Non avevo alcuna intenzione di metterlo a parte della disavventura a cui ero appena scampata, e quando finalmente lui mi chiese se sapevo dove stavo andando, mi presi la mia rivincita dichiarando che conoscevo il bosco come le mie tasche, perché ci venivo ogni anno da moltissimi anni e che, se non fosse stato così, certo mio padre non mi avrebbe permesso di allontanarmi dal campeggio, mentre sapeva perfettamente che non c’era alcun rischio che potessi perdermi.
- Io non mi perdo mai – ribadii più volte senza fermarmi, ma nel silenzio della notte ormai calata la mia voce dovette risuonare a me stessa un po’ sopra le righe, per cui, per sviare il discorso,mi volsi verso l’uomo chiedendogli bruscamente chi fosse.
- Io sono Michelangelo Sparamonti – scandì a voce alta lo sconosciuto, col tono di chi pronunci: – Sono il signor Miracolo, come è possibile che tu non mi conosca? –
- E da dove vieni? – continuai con una certa sfacciataggine.
- Vengo da un posto lontano e sono alquanto seccato di ritrovarmi al buio e al freddo in compagnia di una mocciosetta spavalda, senza sapere con esattezza quando potrò porre fine al mio viaggio! –
Michelangelo… cominciai a rimuginare tra me e me. Ma certo! Lo zio Mike! Deve essere lo zio di Helèna, che è venuto dall’America. Chissà come sarà contenta di vederlo. Non dissi niente, però, e continuai a camminare sentendomi scrutata da uno sguardo penetrante, quasi un dito puntato sulla schiena a imprimermi una direzione.
Finalmente arrivammo al campeggio, addossato alla innocua collina che, alla luce di poche lampade, mostrava un’aria amica e protettiva, avvolta com’era nel buio rassicurante di una notte rischiarata solo ogni tanto da qualche lampo, accompagnato dal brontolio di tuoni ancora lontani.
Tutto era tranquillo; nessuno si era accorto della mia assenza. Helèna giocava col cagnolino di un nuovo ospite del campeggio arrivato quella mattina, mia madre stava cucinando insieme alle altre signore, papà era chissà dove. Tutto era normale.
- Avete visto i fuochi? – chiesi rivolta a tutti, indistintamente.
- Che fuochi? – Mia madre non alzò neppure la testa e continuò a pulire l’insalata campagnola
che gli uomini riportavano dentro grandi buste, al ritorno dalle loro escursioni pomeridiane. Le altre persone mostrarono di non aver udito.
Allora mi girai verso l’uomo che era ancora accanto a me e gli chiesi:
– Vero che c’erano i fuochi? E’ stato bellissimo e mi hanno … –
Stavo per dire che mi avevano salvato la vita, ma non continuai perché non avrei mai confessato, né a mia madre, né a altri, che quella sera avevo rischiato di cadere in un burrone. Mio padre non me l’avrebbe perdonato. Michelangelo Sparamonti mi fissò con quel suo sguardo attento e poi rispose:
- Certo che li ho visti i fuochi. Non sono mica cieco. Del resto oggi è un giorno di festa. Lo so per certo perché è il mio giorno onomastico. –
Il mio giorno onomastico. Disse proprio così e quell’espressione mi sembrò così pomposa e forbita che mi fece sorridere. E pensai che quello zio Mike di cui Helèna mi aveva tanto parlato era proprio un ometto insignificante; anzi, a ragionarci bene, assomigliava a un bambolotto di celluloide, appartenuto a una mia cugina di diversi anni più grande di me,che se ne stava buttato dentro una cassa in soffitta. Era senza un braccio, privo di un piede, ma aveva un visetto roseo e liscio, incorniciato da un caschetto di capelli biondi, acconciati come usava negli anni dell’infanzia di questa mia cugina, che lo rendeva ai miei occhi patetico e pretenzioso al tempo stesso. Comunque fuori moda. Subito mi vergognai di questo pensiero e mi girai per vedere se il signor Sparamonti si era accorto che stavo rimuginando su di lui in termini così poco lusinghieri, ma lui non c’era più. Se n’era andato.
Avrà trovato Helèna e la sua famiglia, pensai, e rientrai nella tenda per prepararmi per la cena.
Quella notte venne giù un temporale fortissimo. Il tempo era cambiato già dal pomeriggio e verso le dieci cominciò a piovere e a tirare un vento violento, che minacciò a più riprese di travolgere le tende, e nella notte rischiammo diverse volte di rimanere senza riparo, alla mercé delle raffiche di pioggia che spazzarono il campo fino all’alba. Appena fatto giorno mio padre caricò velocemente tutte le nostre cose in macchina, e malconci e bagnaticci riprendemmo la via di casa anticipando di poco il ritorno. Del resto era l’ultimo giorno di settembre e di lì a poco le scuole avrebbero riaperto i battenti. Fu l’ultima estate che passai in quel campeggio, perché l’inverno seguente mio padre si ammalò e per molto tempo rimase in ospedale. Per me e la mamma cominciò un periodo difficile, che non contemplava la possibilità di vacanze, né in Valnerina né altrove.
Non ho più saputo niente degli amici del campeggio, neanche di Helèna e, a dire la verità, avevo dimenticato il bosco, gli gnomi, il burrone, i colpi di fuoco sulla montagna, e Michelangelo Sparamonti.
3.
- E’ un bel pezzo, vero? – La voce alle mie spalle mi fece sussultare. Il proprietario del negozio aveva l’aria fiera di un padre che esibisce il figlioletto.
- E’ del primo Seicento. Intatto. Certo, le ali hanno bsogno di un ritocco alla doratura, ma si possono lasciare anche così. Il viso è perfetto; mai restaurato. –
Dentro una vetrinetta, la testina dell’angelo stava appoggiata tra le due ali d’oro, ascendenti, a incorniciare il volto roseo, dalla fronte ampia, sotto la quale spiccavano due occhietti dallo sguardo attento, e una piccola bocca dalle labbra appena dischiuse; come per dire qualcosa.
- E’ un bell’oggetto – riprese l’antiquario.
- Vedo che le piace. E’ già un po’ che lo guarda … Se vuole glielo lascio per mille euro. Un buon prezzo, davvero.-
Mentre l’uomo continuava a parlare io sentivo che il disorientamento iniziale si stava sciogliendo dentro di me. Voltai le spalle al negoziante e cominciai a ridere, lasciandolo sconcertato davanti a una tale imprevista reazione da parte mia. Continuai a ridere, senza potermi fermare, mente uscivo dal negozio e anche fuori lungo la strada, dove il buio aveva ormai inghiottito ogni presenza, seguita dallo sguardo di gesso di Michelangelo Sparamonti.
Il “mio” Michel-angelo, lo spara-monti.
Ma che bel racconto Silvana! Probabilmente appartieni alla mia generazione, perché a tratti mi ci son riconosciuto, e non c’è di meglio per un lettore… e per uno scrittore è difficile parlare al lettore del lettore stesso. Scrivi molto bene.
Brava, un bel racconto davvero. Hai saputo descrivere questa avventura fiabesca con il tono e le parole giuste, peccato per gli errori di battitura che in qua e in là si trovano lungo la tua storia, che credo dovuti ad una rilettura un po’ troppo frettolosa del racconto. In bocca al lupo.
Grazie. Lieta che ti sia piaciuto. Complimenti anche a te.
Grazie Patrizia, anche per la segnalazione delle sviste di battitura. L’ho spedito l’ultimo giorno senza rileggerlo e ora … me ne dolgo. Chiedo venia. Cari saluti e auguri anche a te
Un racconto in cui lo stile la fa da padrone. Il finale dà senso a tutto il resto. Prima di arrivare in fondo mi dicevo: “Bello, scritto bene, ma a chi interessa una storia così?”. Non sempre, infatti, ciò che ha importanza per noi lo ha per il resto del mondo. Stavo quasi per abbandonarlo, ma la bellezza dello stile mi ha fatto continuare. Per fortuna. Arrivato a un finale a sorpresa ho sorriso e ragionato su come, a volte, non è importante cosa si racconta, ma come lo si fa. Se la prima parte fosse stata scritta con uno stile meno valido l’avrei lasciato perdere. Invece sei riuscita a portarmi fino a un finale che eleva tutto il racconto. Bravissima! I miei complimenti.
Tutto il racconto vibra sull’intensità del ricordo, che ci viene rivelato poco, a poco, attraverso una scrittura fluida, per niente pesante, nonostante la densità di descrizioni. Si sente la nostalgia, ci si perde nel bosco, ma si finisce ridendo… Brava, una bellissima storia.
Scritto decisamente bene,e piacevole alla lettura complimenti e in bocca al lupo.
Grazie grazie. Mi fa un grande piacere il riconoscimento accordato al mio racconto. Viene da lettori e lettrici, ma anche da colleghi e colleghe di scrittura… sento un clima di “famiglia” che mi scalda…
Basta un’immagine e, come per magia, il passato diviene presente… Bel racconto!